di Veronica Garasi (*)
L’attentato del 28 ottobre del 2011 contro l’ambasciata americana a Sarajevo ha riportato nuovamente l’attenzione sul radicalismo in Bosnia-Erzegovina. Al fine di comprendere il fenomeno del radicalismo è necessaria una conoscenza storica di questo Paese, il quale è da sempre stato intimamente legato alla religione musulmana.
Durante il dominio Ottomano comprendente gli anni dal 1463 al 1878, infatti, la religione musulmana era considerata più quale un vero e proprio principio di coesione sociale, anziché una mera religione. Successivamente, con il dominio dell’Impero Asburgico, si registrò il riconoscimento di alcune comunità religiose, quali la comunità cattolico romana, la comunità cattolico greca, serbo ortodossa, evangelica ed infine quella islamica. La religione musulmana si vide privata del suo secolare primato, e molti bosniaci per reazione si impegnarono nella creazione di una gestione degli affari musulmani separata dalla gestione dello Stato. Sarà in seguito alla caduta della monarchia asburgica avvenuta nel 1918 che si registreranno ulteriori cambiamenti. Ricordiamo infatti l’anno 1930, quando il Re del Regno di Jugoslavia Aleksandar Karadordevic richiese una gestione unificata degli affari religiosi per tutti i musulmani del Paese, in conformità con la propria ideologia “unitarista”. Ma non possiamo esimerci dal citare anche le conseguenze post 1945 che misero a punto una virata politica del regime socialista, il quale, se fino a prima si era chiamato fautore di una gestione degli affari religiosi unita, successivamente si dovette rifare al principio secondo cui “la religione è affare privato dei cittadini” tanto che si attuò una separazione tra Stato e religione.
Sarà propriamente la guerra in Bosnia-Erzegovina a mostrare la palese tensione tra i bosniaci ed i musulmani nel paese. Questi ultimi si dicevano intenzionati a porre in atto una vera e propria opera di politicizzazione e rivitalizzazione del Paese, con l’appoggio di ONG del Medio Oriente.
Non poco significativi sono i dati che risultano dal censimento avvenuto nel 1991, che documentano il multiculturalismo del Paese stesso, il quale vede la religione musulmana professata da una larga maggioranza, seguita da una presenza rilevante di ortodossi e cattolici. Tuttavia la convivenza tra bosgnacchi, serbi e croati ha potuto mantenersi “pacifica” fino al 1991. Ad oggi, nella quotidianità, la coabitazione di queste diverse culture è stata e continua ad essere possibile grazie al rispetto del principio di rapporto di buon vicinato. Ma le divergenze tra queste culture sorgono quando si opera un confronto a livello politico, con conseguenti tensioni e conflitti.
Due grandi correnti religiose contraddistinguono oggi il radicalismo in Bosnia-Erzegovina, si tratta della corrente wahabita e della corrente salafita.
La prima prende il nome da Wahab, teologo nato nell’odierna Arabia Saudita, sostenitore di Allah quale unico Dio; si scagliava fortemente contro l’iconografia denunciando la tendenza politeista imputabile all’Islam moderno. Seppur pochi siano i seguaci della corrente fondamentalista wahabita, questa, grazie alla lettura in chiave nazionalista della tradizione e della cultura musulmana, e grazie anche alle diverse crisi economiche e sociali, ha potuto riscuotere maggiori consensi ed attrarre seguaci, soprattutto fra i più giovani.
La corrente salafita, anch’essa musulmana, si definiva inizialmente quale un movimento riformista ma con il tempo è divenuta sempre più sinonimo di fondamentalismo. Sostenitori del Corano e dalla Sunna, quale codice di comportamento, i Salafiti si distinguono in differenti correnti che si identificano nel Salafismo rivoluzionario, in quello di predicazione ed in quello politico.
Ebbene il radicalismo in Bosnia-Erzegovina, sta minando il secolare esempio che questo Paese ci ha mostrato per mezzo secolo, ossia quello di una convivenza civile e possibile. Allora ci chiediamo: potremmo ancora definire Sarajevo come la nuova Gerusalemme d’Europa? Il radicalismo è veramente una minaccia per la democrazia?
Sarajevo è una città martire di guerra, una città in cui i palazzi sono ancora segnati dalle ferite del conflitto. A distanza di vent’anni dalla guerra la Bosnia-Erzegovina rimane ancor oggi un dilemma, e le 11.541 sedie rosse vuote disposte nell’aprile di quest’anno sulla strada principale di Sarajevo disegnavano una linea rossa che attraversava una città ferita, stanca, che ha pagato con moltissime vite umane gli orrori della guerra. Il radicalismo per Sarajevo, come per tutta la Bosnia-Erzegovina è sempre più una reale minaccia per la democrazia.
Nella prospettiva di una eventuale futura adesione nell’Unione Europea, si può oggi sperare in cambiamenti reali, in linea con gli Accordi di Stabilizzazione e Associazione firmati nel giugno del 2008, ma il cammino sembra molto lento, e la strada verso una reale integrazione rimane decisamente impervia.
(*) Con il presente articolo esordisce quale collaboratrice del giornale Veronica Garasi, 23 anni, nata a Roma. Studia per il conseguimento della Laurea Magistrale in Relazioni Internazionali presso la Sapienza, ateneo presso cui ha già conseguito il diploma di laurea triennale in “Scienze politiche e Relazioni internazionali”.