Penetrazione, consolidamento ed influenza nella regione sahariana. Attuali sviluppi ed opportunità
di Guido Monno
Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) è tornata a colpire: il sequestro dell’italiana Sandra Mariani, avvenuto il 2 febbraio scorso nella regione algerina di Alidana, è opera sua, così come il messaggio radio trasmesso da al Arabiya, la tv con sede a Dubai. Un insieme di eventi che ha riportato l’attenzione dei media su quest’organizzazione terroristica.
Ma che cos’è più precisamente AQMI?
Abdel Bari Atwan[1] nel suo “La storia segreta di al Qaeda”[2] scrive: “di recente al Qaeda si sta espandendo come una multinazionale con nuove filiali in Egitto, Libano, Gaza e Nord Africa. L’ultima preoccupa maggiormente l’Occidente per motivi strategici: di base in Algeria, la nuova organizzazione si trova all’ingresso di una grande parte dell’Africa e la separa dall’Europa continentale un piccolo tratto del Mediterraneo. Il montuoso nord del Maghreb offre le stesse opportunità di campi di addestramento e covi rispetto a Tora Bora (Bin Laden ha spesso parlato con grande affetto dei monti dell’Atlante). Nel sud, AQMI sfrutta il deserto del Sahara, isolato e poco popolato, e i confini porosi con i paesi vicini. Gli USA hanno guardato l’Africa sempre di più come una riserva di risorse naturali (petrolio e gas), più affidabile del tumultuoso Medio Oriente, e la forte presenza di AQMI nella regione minaccia questa agenda. La formazione di AQMI dimostra anche che la campagna USA per vincere “cuori e menti” ha fallito, segnando un passaggio significativo da un’agenda locale ad una posizione in cui gli USA sono il nemico numero uno e i governi nazionali i loro agenti nella regione”.
L’organizzazione, nata nel gennaio del 2007, riunisce numerosi gruppi che nei vari paesi del Nord Africa hanno condotto una lotta armata contro i regimi in carica, ispirati da un’ideologia legata ad un’interpretazione wahabita e salafita del Corano.
Di questi gruppi il più conosciuto è certamente il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, الجماعة السلفية للدعوة والقتال, (GSPC), costola del Gruppo Islamico Armato, الجماعة الإسلامية المسلّحة (GIA). La conoscenza del GIA da parte dei media occidentali avvenne in seguito al colpo di stato posto in essere nel 1991 da alcuni poteri forti, algerini e non, che, appoggiati dalle forze armate, rifiutarono di accettare il risultato della prima fase di una libera elezione parlamentare. Il voto avrebbe consegnato di fatto il governo del paese nelle mani del partito “Fronte per la Salvezza Islamica” (FIS), che aveva conquistato 188 seggi su 232. L’11 gennaio del 1992 un consiglio superiore di stato, composto da cinque membri e presieduto da Mohammed Boudiaf, salì al potere, dando inizio a una severa repressione contro il movimento, sciolto e proibito, e inviando i suoi adepti in campi di prigionia nel deserto. Ovviamente la comunità occidentale si schierò a favore del colpo di stato, gridando al possibile attentato alla vita democratica da parte degli islamisti, quando proprio questi erano stati eletti democraticamente (quante somiglianze con Gaza ed Hamas).
La repressione provocò la nascita di vari gruppi armati di opposizione al regime, fra cui anche il GIA, che si differenziava dagli altri per avere al suo interno numerosi elementi che avevano precedentemente combattuto contro i sovietici in Afganistan e per avere fra gli obiettivi anche gli stranieri, in particolare occidentali. In questo drammatico periodo della storia d’Algeria che per violenza e crudeltà dei combattimenti ricorda molto quello della guerra di liberazione nazionale, di sicuro è morta la verità.
Già in questo periodo, i legami nati in Afghanistan nella lotta contro il comune nemico sovietico e lì consolidati attraverso l’appartenenza ad un gruppo comune, hanno portato verso l’Algeria numerosi combattenti provenienti da altri paesi.
Nel 1994, il governo algerino cercò di arrivare ad una soluzione del conflitto interno avviando colloqui con numerosi gruppi di guerriglia. Ma il GIA se ne distaccò, iniziando una campagna di lotta anche contro gli altri gruppi che aderivano all’iniziativa di pacificazione, aprendo uno dei capitoli più bui della vita della giovane nazione algerina e provocando una decisa reazione sia da parte della popolazione, che cessò di fatto di sostenere lo stesso GIA, che da numerosi adepti che si staccarono dall’organizzazione per divergenze ideologiche sull’uso della violenza nei confronti dei civili, fondando il Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento sotto la direzione di un comandante regionale del GIA, Hassan Hattab.
A seguito del processo di pacificazione avviato nel 1999 dal presidente algerino Bouteflika e al conseguente scioglimento di numerosi gruppi di guerriglia, anche di quelli legati ad un’ideologia di estremismo islamico, il GSPC è rimasto forse l’unico gruppo a portare avanti un confronto armato con il governo.
Diviso in 9 zone sul territorio algerino, ognuna facente capo ad un Emir che rispondeva poi ad un comandante generale, il GSPC ha subito nel tempo diversi conflitti interni, derivanti sopratutto dal fatto che ogni Emir attuava tattiche conformi alla propria azione di comando e ideologia.
Non estraneo alla concezione di indipendenza che serpeggiava e serpeggia tutt’ora fra le varie componenti delle organizzazioni di quest’area è la concezione storica di opposizione tra le tribù e popolazioni sahariane dotate di un fiero attaccamento alla propria indipendenza e costumi e le autorità centrali.
Uno dei punti di svolta dell’organizzazione si ebbe nel 2003 allorquando uno dei membri dell’organizzazione, Amar Saifi, conosciuto come “el para” per aver fatto parte delle forze speciali delle FF.AA. algerine, si spostò con un suo esercito privato costituito da mauritani, maliani, algerini e nigerini nella zona 9, posta nel Sahara e sotto il controllo dell’emir Moktar Belmoktar, creando una forza comune che portò a numerosi violenti scontri con le forze nigerine e al sequestro di 32 turisti tedeschi che vennero rilasciati dietro pagamento di un riscatto di 5 milioni di dollari. Saifi fu catturato nel 2004 da un gruppo ribelle ciadiano che lo consegnò alla Libia, (che ha sempre supportato tale gruppo) e da questa al governo algerino,[4] esempio classico delle strane alleanze che intercorrono in questa zona d’Africa per motivi non sempre chiari.
Nel 2005, Hattab accettò una rinnovata offerta di amnistia da parte del governo algerino, e la sua carica fu ricoperta da Abdelmalek Droukdal.
Secondo Abdel Bari Atwan, l’offerta di amnistia delle autorità algerine “rientrava nei piani dello stesso GSPC-portando a termine il suo lavoro per liberarsi dei meno radicali e dei meno impegnati fra le sue fila, lasciando un nucleo solido come base per le future operazioni e per il reclutamento”.
I contatti fra Droukdal ed il noto Al Zarqawi portarono ad una serie di contatti tendenti all’affiliazione del gruppo ad al Qaeda, affiliazione che di fatto si manifestò nel 2005, allorquando il GSPC attaccò un avamposto militare mauritano[6], espandendo la sua azione al di là dei confini algerini, e un gruppo del GSPC, attivo in Iraq come supporto ad al Zarqawi, catturò due diplomatici algerini giustiziandoli.
L’affiliazione formale avvenne nel 2006, sancita da un video di Ayman al Zawahiri e da un comunicato al quotidiano algerino al Khabar il 26 gennaio 2007 da parte di Droudkal (che, è opportuno sottolineare, non rientra nel numero di coloro che sono passati attraverso l’esperienza afghana) che annunciava la nascita ufficiale di al Qaeda nel Maghreb islamico, a far da parallelo ad “al Qaeda nella terra dei due fiumi”, appellativo usato dal gruppo facente capo ad al Zarqawi in Iraq, a dimostrazione di un jihad militare globale.
La cooperazione fra i due gruppi appartenenti alla galassia di al Qaeda, quello nel Maghreb islamico e l’altro nella terra dei due fiumi, si è manifestata quasi da subito con l’utilizzo di tecniche comuni di attacco (attentati suicidi in Algeria che hanno colpito nel 2007 la facciata della residenza del primo ministro e una stazione di polizia e quasi contemporaneo attacco con simile metodo impiegato nell’attacco al parlamento iracheno all’interno della zona verde in Bagdad), e l’utilizzo di internet quale strumento di reclutamento e propaganda, quest’ultima attuata in particolare attraverso video degli attentati sia nella fase di preparazione che di attuazione.
Come detto prima il baricentro del mondo Qaedista si sta spostando dall’Afganistan verso il Medio Oriente e l’Africa, sfruttando l’impopolarità dei regimi in carica.
A ciò ha contribuito l’opera svolta da numerose organizzazioni legate a ideologie salafita e wahabita che, tramite centri culturali e moschee, hanno colmato il vuoto lasciato dai regimi in numerosi campi dell’assistenza morale e materiale della popolazione che è costituita in maggioranza da giovani che la mancanza di un futuro e la negazione del presente, sempre più appannaggio di chi è legato o prono al potere centrale, spinge sempre più verso forme di intolleranza radicale.
In tale contesto appare chiara la lotta che i vari movimenti armati quali AQMI stanno combattendo contro gli occidentali, secondo la teoria del nemico lontano.
Le opzioni strategiche del movimento jihadista vedono due tendenze: la lotta contro il nemico vicino, ovverosia i regimi dispotici nel mondo islamico, e quella contro il nemico lontano, cioè i governi occidentali che consentono a tali regimi di esistere. E ciò anche nella convinzione che se i governi occidentali, a seguito di ripetuti colpi loro inferti, non dovessero più sostenere regimi dispotici locali, questi ultimi cadrebbero.
In tale contesto l’11 dicembre del 2006 il GSPC attaccava obiettivi statunitensi in Algeria[7], ovverosia un bus che trasportava personale della Brown & Root-Condor, società legata alla più nota Halliburton ed impegnata in Algeria nella costruzione o allargamento di basi militari che potrebbero essere utili nel caso di un intervento statunitense nella regione, secondo quanto riportato dal New York Times[8]. Tesi avvalorata da quanto si dirà in seguito sugli interventi statunitensi tesi alla stabilizzazione dell’area e al supporto ai regimi in carica.
Ma AQMI non è solo GSPC, anche se questo gruppo ne costituisce la spina dorsale. In numerosi stati della regione i gruppi islamisti sono stati per lungo tempo fra i pochi ad opporsi ai regimi dell’area. L’attività islamica di contrasto al regime di re Hassan del Marocco risale al 1991, allorquando lo stesso re si schierò a fianco della coalizione guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna contro Saddam Hussein e si è espansa nel tempo sino alla marcia di un milione di persone attuata dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Hizb Al Adala Wa Tanmia) nel marzo del 2000, ufficialmente per protestare contro la riforma del codice islamico per la condotta personale, in realtà per esprimere un forte dissenso nei confronti del regime tutto. Importante è la presenza del Gruppo islamico Combattente Marocchino (GICM) cui, da parte di alcuni autori,[9] viene attribuita la responsabilità dell’attentato che sconvolse Casablanca il 16 maggio 2007[10], mentre secondo altre fonti il tutto sarebbe ancora da dimostrare.[11]
In Tunisia il partito islamico Harkat Nahida raggiunse buoni risultati nelle elezioni del 1989 venendo messo poi al bando dal presidente Bourghiba, ricostituendosi in seguito sotto il nome di Ennahda. Anche in questo caso i movimenti islamisti sono stati combattuti dal regime al potere ed ovviamente da tale azione repressiva sono nati gruppi di opposizione armata quali il Salafiya Jihadiya, serbatoio di reclutamento per al Qaeda.
Se ne ha dimostrazione dal fatto che i due finti cameramen che condussero l’attentato suicida che costò la vita al comandante Massud in Afghanistan erano proprio tunisini e che, secondo l’avvocato tunisino Samir ben Amore, ben 700 giovani tunisini sono stati arrestati sino al gennaio 2007 mentre tentavano di raggiungere l’Iraq per partecipare al jihad contro gli americani[12].
Anche in Mauritania, terzo stato arabo a riconoscere Israele insieme a Giordania ed Egitto, respingendo una richiesta della Lega araba di rompere le relazioni con lo stato ebraico in seguito alla intifada del 2000, i movimenti di opposizione armata di ideologia islamista non sono rari e molti degli appartenenti a tali gruppi sono confluiti in AQMI.
Lo stesso accade in Libia, sconvolta in questi giorni da una violenta azione contro il regime di Mohamar Gheddafi, ove i gruppi islamici sono sempre stati all’opposizione e duramente perseguiti.
Tra le fila di al Qaeda numerosi sono stati gli esponenti di rilievo provenienti dalla Libia, tra cui si ricordano Abu Anas al Libi[13] ed il vice di al Zarqawi, Abu Hafs al Libi oppure Abu Faraj al Libi, appartenente al vertice di al Qaeda ed arrestato nei pressi di Peshawar nel 2005, tutti appartenenti al gruppo combattente islamico libico Al-Jama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah bi-Libya o LIFG.
Per comprendere le dinamiche attuali non va sottovalutata l’importanza della lotta fra il mondo islamico e il comunismo sovietico, condotta in Afghanistan dai regimi oggi al centro dell’onda della rivolta dei popoli arabi ed islamici. In quella zona, si sono forgiati alleanze e legami, sotto l’egida di una visione dell’Islam quale collante politico ed ideologico, che hanno portato poi alla nascita degli attuali movimenti così detti Jihadisti. Tutti i regimi dell’epoca, molti dei quali ancora in vita o attualmente sotto pressione da parte delle popolazioni, quali quelli libico, algerino, yemenita e saudita, hanno inviato militanti islamici nella regione afghana, sia per accreditarsi come islamici e quindi sopire le critiche di essere secolaristi, sia nella segreta speranza di liberarsi di fonti di problemi interni causati dall’ideologia islamista e di essere in condizioni di poter poi gestire tali movimenti incanalandoli verso obiettivi propri.
Da quanto sopra detto appare chiaro che su uno zoccolo duro composto dal GSPC si sono aggregati numerosi altri gruppi localizzati in aree viciniori a quella algerina, così che attualmente AQMI può contare su una dislocazione areale e non limitata ad una singola nazione, con interscambio di uomini, mezzi, materiali e sopratutto conoscenze.
Questo travaso di esperienze, capacità e conoscenze ha ampliato di molto il raggio d’azione di AQMI, che così facendo è diventata un centro di raccolta che può contare non solo su un serbatoio nazionale, ma su numerosi altri che vanno ben al di là dell’area del Maghreb e del Sahel, estendendosi a numerosi stati africani come indica la cartina, tratta da “Jeune Afrique”[14]:
E’ sufficiente un colpo d’occhio fugace per notare come gran parte del Nord Africa sia interessata dalle attività di AQMI e quanto siano vicine alla sua zona di operazioni la Somalia, l’Uganda, il Sudan ed altri.
All’interno del contesto sahariano e saheliano, AQMI è diventata una presenza importante. Ha un forte controllo delle vie che attraversano il deserto e tesse legami con le organizzazioni criminali. É ormai certo che suoi elementi contribuiscano a gestire il contrabbando in genere e il traffico di cocaina dal Sudamerica alle coste nordafricane[15]. Non mancano i contatti con i trafficanti di esseri umani che sfruttano i bisogni dei tante persone spinte in Occidente dal desiderio di una vita migliore. Se ne ha efficace testimonianza nel libro Bilal del giornalista Fabrizio Gatti, . drammatico reportage-inchiesta sul traffico di esseri umani. Lo stesso giornalista ha seguito le vie dell’immigrazione clandestina spacciandosi talvolta per immigrato.
Ci si potrebbe chiedere perché un’organizzazione che professa un’ideologia islamista sia dedita a tali attività criminali.
Oltre a costituire un ingente profitto economico, la droga e il contrabbando costituiscono un mezzo per indebolire l’Occidente, similmente al traffico di essere umani e allo sfruttamento di persone, veicolo di penetrazione all’interno dello stesso Occidente.
L’Algeria e tutta l’area del Maghreb sono d’interesse strategico per gli USA, sia per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali, gas e petrolio soprattutto, sia per la lotta a un terrorismo dagli aspetti locali e internazionali. Locali perché spesso antitetici a regimi autoctoni filo-statunitensi e filo-occidentali; internazionali perché piattaforma d’addestramento e logistica per il jihad globale. Last but not least, si gioca nell’area parte del contrasto al traffico di stupefacenti con il Sud America.
Che l’interesse sia crescente lo dimostra l’istituzione dell’US Africa Command (AFRICOM)[16] con responsabilità su tutta l’Africa ad eccezione dell’Egitto, che rimane sotto l’Area of Responsability (AOR) del Central Command (CENTCOM). Come recita una dichiarazione del generale William E. Ward, suo attuale comandante, l’AFRICOM ha per compito anche di “direct support of advancing and protecting U.S. interests in Africa”.[17]
La sua sede è a Stoccarda, in Germania[18], ufficialmente in quanto già vi sorgeva il Comando Europeo (EUCOM), da cui è originato. Più verosimilmente, perché nessuno stato africano avrebbe voluto ospitare il nuovo Comando, privo di basi stanziali operative nel Continente.
Il comando nasce dopo una serie di iniziative del governo statunitense, partite con la Pan Sahel Initiative (PSI) del 2002 e proseguite con l’addestramento dei militari delle nazioni aderenti all’Iniziativa (Mauritania Mali, Niger e Ciad), condotto dai militari delle special forces[19].
Il progetto è poi confluito nel 2005 nella Trans-Saharan Counter-Terrorism Initiative (TSCTI) cui, oltre alle quattro nazioni citate, hanno aderito Algeria, Marocco, Tunisia, Nigeria e Senegal.
Le attività congiunte fra le strutture statunitensi, coinvolte sopratutto attraverso l’impiego di droni di sorveglianza, attività di intelligence, logistiche (come ci ricorda la presenza d’imprese come la Brown&Root-Condor) e di supporto alle forze armate e di sicurezza dei vari stati citati, hanno già portato a numerosi scontri nella regione del Sahel. E certamente tali attività congiunte con gli USA non sono state molto pubblicizzate dai governi interessati in quanto, come è noto, la politica degli stessi Stati Uniti non è molto popolare nell’intera area, come dimostra il fatto che nessun Paese si è offerto di ospitare tali strutture.
Si ha pertanto da parte dei governi della regione un duplice atteggiamento. Nelle dichiarazioni ufficiali, di presa di distanza dalla politica statunitense. Nei fatti, di sostegno alle iniziative militari che si traducono poi in sostegno ai governi (o meglio regimi) stessi. Questo è un elemento da non sottovalutare nell’euforia occidentale che vede nell’onda di ribellione del mondo arabo uno spostamento verso concetti ed idee proprie dell’Occidente liberale. Forse è il caso di ragionare sugli slogan e cartelli che si sentono e vedono nelle strade dove la richiesta è per una società più giusta e non per una società che faccia proprie le idee fondamentali dell’Occidente fra cui in particolare il liberismo sfrenato.
Studiosi e governi africani hanno espresso dubbi sull’utilità di strumenti militari e di intelligence come elemento di sviluppo per il grande continente e di risoluzione per le crisi di ogni tipo che lo affliggono, e ritengono che invece siano strutture dedite a tutelare interessi statunitensi sia di natura economica che geopolitica, come si rileva dall’interessante articolo di Lysias Dodd Gilbert, Ufo Okeke Uzodike e Christopher Isike, dal titolo “The United States Africa Command; Security for Whom?” pubblicato su “The Journal of Pan African Studies vol.2, no.9, March 2009” e facilmente reperibile su internet.
L’Africa Command ha visto la luce proprio nel febbraio 2007, per l’esattezza il giorno 6, quindi alcuni giorni dopo l’attentato ai bus che trasportavano il personale della Brown&Root-Condor e le dichiarazioni che annunciavano la nascita di “al Qaeda nel Maghreb Islamico”. La dichiarazione della nascita del nuovo comando statunitense dimostrava che già da tempo nel governo statunitense ci si preparava ad affrontare un nuovo rischio per gli interessi considerati vitali per gli USA. Un comando non può nascere dall’oggi al domani, abbisogna di un approfondito studio, l’allocazione di risorse umane e materiali nonché logistiche e di precisi accordi politici e militari con nazioni dello scenario in cui andrà ad operare.
L’iniziativa dimostra solo il maggior interesse degli Stati Uniti per un continente ricco ed in pieno sviluppo, anche al fine di evitare che tali materie prime cadano interamente nelle mani della Cina, che ha attuato proprio in Africa una forte politica di penetrazione politica e commerciale, o che governi non pronti a soddisfare interessi occidentali possano prendere il potere.
Alla luce delle vicende attuali, quale sarà il futuro di AQMI?
Per ora non penso che siano cambiate molte cose nella sostanza, se non in Libia. Presumo che l’onda non si fermerà, ma proprio dalle vicende libiche troverà la forza per ripartire con maggior veemenza e cambiare completamente la situazione nel mondo arabo, non secondo i dettami del mondo occidentale. Ed è proprio su questo punto che si potrebbe giocare il futuro dell’Europa come entità politica diversa dagli Stati Uniti, rifuggendo qualsiasi tentazione militarista -come sento sempre più spesso ventilare, giacché questo verrebbe visto come l’ennesimo tentativo occidentale di controllare le risorse energetiche presenti in quell’area di mondo. L’eventuale applicazione dell’idea di utilizzare lo strumento militare produrrebbe una frattura incolmabile con le società di tali aree, che certamente non possono non tenere conto che i regimi che stanno combattendo sono stati sostenuti sino ad ora proprio da quell’Occidente che tanto parla, ora, di diritti umani violati. Le “renditions”, di cui ci si è stranamente scordati in una sorta di amnesia collettiva occidentale, ne sono una riprova.
Chi ha visto le immagini dell’attuale rivolta contro il regime di Gheddafi avrà notato i numerosi cartelli che contestano al regime i suoi affari con l’Occidente per il petrolio, affari che, se hanno portato a benefici economici reciproci per la Libia e l’Occidente, non hanno tuttavia permesso l’instaurazione in quella realtà, come in quelle contermini, di una società basata su diritti umani e giustizia sociale. Ed anche in altre immagini pervenute da piazze e luoghi diversi, numerose grida o slogan di protesta non erano favorevoli all’Occidente, che a più riprese ha dimostrato di non saper interpretare il desiderio di ricerca di una nuova società, ancorata ad una sua strategia globale di soddisfazione delle proprie esigenze vitali, senza tener conto di altre opzioni.
Il sostegno dato dalla Francia al regime tunisino o da Israele a quello egiziano in difesa di uno statu quo che tutelasse solamente i propri interessi, manifestato all’inizio di quella che io chiamo l’onda di rinnovamento, è emblematico della lentezza con cui l’Occidente ha preso cognizione dell’intensità del fenomeno, terrorizzato da un cambiamento che viene reputato accettabile solo se segue i canoni della società occidentale, secondo quella concezione che Edward Said ha efficacemente chiamato Orientalismo.
Una efficace politica europea di interscambio culturale e di reale voglia di assicurare pari dignità alle nazioni ed alle popolazioni poste sull’altra sponda del Mediterraneo è la migliore maniera di contenere e fare arretrare i movimenti che si rifanno a quell’ideologia nota come jihadista, togliendole quel sostegno diffuso, anche se non palese, delle popolazioni locali, e che ne costituiscono la vera forza.
[1] Editore del quotidiano in lingua araba al Quds al Arabia pubblicato a Londra ed uno dei due giornalisti (l’altro è Robert Fisk) ad aver sinora intervistato Osama bin Laden.
[2] Pubblicato da Eurilink nel novembre 2010.
[3] Tratto da Jeune Afrique, n°2592 dal 12 al 18 settembre 2010 reperibile su http://www.jeuneafrique.com/Articleimp_ARTJAJA2592p022-030.xml6_les-emirs-d-aqmi.html
[4] http://english.aljazeera.net/archive/2005/06/20084101082536100.html
[5] Tratto da Jeune Afrique, n°2592 dal 12 al 18 settembre 2010 reperibile su http://www.jeuneafrique.com/Articleimp_ARTJAJA2592p022-030.xml6_les-emirs-d-aqmi.html
[6] Il governo della Mauritania è considerato obiettivo militare a causa dei suoi contati con Israele, con cui mantiene relazioni diplomatiche formali.
[7] http://www.memrijttm.org/content/en/blog_personal.htm?id=166¶m=GJN
[8]http://www.nytimes.com/2006/12/13/world/africa/13algeria.html
[9] Abdel Bari Atwan “La storia segreta di al Qaeda” già citato.
[10] http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/3035803.stm
[11] http://aboudjaffar.blog.lemonde.fr/2009/04/04/le-groupe-islamique-combattant-marocain-un-coupable-ideal/
[12] Abdel Bari Atwan “La storia segreta di al Qaeda” già citato.
[13] Ritenuto una delle menti degli attacchi alle ambasciate americane di Dar es Salam e Nairobi nel 1998
[14] tratto da Jeune Afrique, n°2592 dal 12 al 18 settembre 2010
http://www.isn.ethz.ch/isn/Current-Affairs/Security-Watch/Detail/?id=115043&lng=en
[17] 2010 Posture Statementent United States Africa Command
[18] L’AFRICOM ha sottocomandi di forza armata a Napoli (NAVAF) e Vicenza (USARAF), oltre che in Germania.
[19] http://concernedafricascholars.org/docs/bulletin85harmon.pdf