La repressione del terrorismo risponde all’esigenza fondamentale di tutelare l’ordinamento internazionale, ma può talora collidere con un’altra istanza altrettanto essenziale qual è il rispetto dei diritti umani. La recente impugnazione da parte della Commissione europea, del Consiglio e del Regno Unito della sentenza resa il 30 settembre 2010 dal Tribunale di primo grado dell’UE sul noto caso Kadi riporta all’attenzione della Comunità scientifica la questione dell’importanza del delicato bilanciamento tra sicurezza e diritti umani nella lotta al finanziamento del terrorismo internazionale.
A seguito degli attentati del 7 agosto 1998 alle ambasciate statunitensi di Nairobi e Dar es Salam e, ancor più, dopo l’11 settembre 2001, il Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite (NU) ha adottato, in base al Capitolo VII della Carta delle NU, una serie di risoluzioni per contrastare il finanziamento del terrorismo, prevedendo una procedura di congelamento dei fondi dei sospetti terroristi amministrata dal Segretario Generale delle NU attraverso un suo organo sussidiario, il Sanctions Committee (SC). Questo comitato ha il compito di redigere ed aggiornare periodicamente un elenco (black list) delle persone e delle organizzazioni sospettate di finanziare il terrorismo internazionale. L’inclusione di un nome nell’elenco avviene su proposta motivata di uno Stato membro e richiede l’approvazione unanime da parte di tutti i membri del SC; in caso di dissenso la decisione viene assunta dal CdS.
I patrimoni dei presunti terroristi vengono conseguentemente congelati da tutti gli Stati membri delle NU.
Sul versante della tutela procedimentale o giurisdizionale delle persone e dei gruppi inseriti nelle black lists ed oggetto delle misure di congelamento, non esiste un’Autorità giurisdizionale o amministrativa ad hoc cui possa essere proposta una contestazione concernente le iniziative adottate. I soggetti, quindi, non possono impugnare la decisione davanti ad un giudice, né hanno diritto ad essere ascoltati davanti al SC. Essi infatti non possono impugnare la lista redatta dal SC allegata alle risoluzioni del CdS poiché queste ultime si rivolgono agli Stati e non agli individui. I soggetti possono solo rivolgere un’istanza motivata di riesame (de-listing) allo Stato di appartenenza o al focal point appositamente costituito nel 2007 presso il Segretariato Generale delle NU (con Ris. N. 1730 del 2006). Segue una consultazione tra Stati al termine della quale la proposta di de-listing viene discussa dal SC, a condizione che uno Stato lo richieda. Il SC deve approvare la proposta all’unanimità; in caso di obiezioni, la decisione è deferita al CdS.
Il meccanismo di congelamento dei beni è automatico, nel senso che basta l’inclusione nella lista per far scattare il congelamento dei beni del soggetto. Dunque, una misura amministrativa lesiva di un diritto individuale primario, il diritto di proprietà, è adottata attraverso una procedura di stampo diplomatico, senza garanzie di due process e al di fuori di un controllo giurisdizionale.
Per dare effetto alle Risoluzioni ONU in materia di congelamento dei beni al’interno dell’Europa, il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato, sulla base del combinato disposto degli art.60 , 301 e 308 del TCE, una serie di regolamenti. L ‘adozione delle misure di congelamento è disciplinata dalla posizione comune del Consiglio 2001/931/PESC, adottata nell’ambito del pilastro intergovernativo della politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il Consiglio può includere nell’elenco da esso aggiornato il nome di persone e organizzazioni sospettate di terrorismo sulla base di una decisione nazionale o sulla base di una decisione del CdS. Nel primo caso la misura è autonoma, costituendo l’atto conclusivo di un procedimento composito europeo. Nel secondo caso, invece, la misura adottata dal Consiglio è attuativa di una decisione ONU e, perciò, inserita in un procedimento composito globale. La differenza rileva sul versante della tutela giurisdizionale nei confronti del soggetto sospettato di terrorismo. Infatti, il provvedimento europeo di listing adottato nell’ambito della potestà discrezionale del Consiglio dell’UE è impugnabile davanti ai giudici europei diversamente da quanto accade per il regolamento europeo attuativo di decisioni ONU. Ciò deriva dalla circostanza che le decisioni ONU non possono essere sindacate da giudici europei, in quanto l’ordinamento giuridico creato con la Carta delle NU prevale sull’ordinamento europeo. Così infatti si è espresso il Tribunale di primo grado dell’ Unione Europea nella sentenza Kadi del 2005, affermando che il suo sindacato sulla legittimità dei provvedimenti europei attuativi di una decisione ONU non può eccedere l’ambito dello jus cogens, nel quale non rientra il principio del due process contestato dal ricorrente. Dalla prevalenza del Diritto Internazionale su quello europeo, il Tribunale di prima istanza desume, quindi, l’impossibilità di un sindacato giurisdizionale volto a verificare la rispondenza del provvedimento alla disciplina dell’UE.
La conseguenza è che il diritto al contradditorio e il diritto ad un sindacato giurisdizionale effettivo, che sono parte integrante del sistema di tutele garantito dall’Unione Europea e dalla Convenzione europea dei diritti dell’ uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) subiscono, per esigenze di sicurezza, evidenti deroghe.
La Corte di Giustizia dell’UE (CdG), invece, ispirandosi ad un più razionale assetto dei rapporti tra ordinamento delle NU e ordinamento europeo, chiarisce, nella sentenza del 3 settembre del 2008, che il sindacato deve essere pieno anche nei confronti di misure europee che eseguono decisioni internazionali poiché non possono esservi atti europei, seppur attuativi del diritto internazionale, immuni dal sindacato giurisdizionale. La CdG, poi, avoca a sé il potere di individuare il punto di equilibrio tra le ragioni di pubblica sicurezza e i diritti processuali dell’interessato. Per trovare di volta in volta la soluzione nel caso concreto, il giudice dovrà bilanciare gli interessi in gioco, individuando un criterio per contemperare tali diversi interessi e tutelare quindi i diritti umani senza pregiudicare la lotta al terrorismo.
Un criterio per orientarsi nel bilanciamento tra sicurezza e libertà è il principio di proporzionalità della misura adottata a limitazione della situazione garantita costituzionalmente rispetto allo scopo di fronteggiare le necessità derivanti dalla situazione concretamente in atto. Limitazioni della libertà possono infatti essere ritenute proporzionate nella misura in cui hanno effetti positivi, materiali, di contenimento della minaccia e di prevenzione effettiva.
Là dove l’intervento orientato a prevenire la violenza produce ulteriori violenze è molto probabile che non sia stato né proporzionato né adeguato.
Nel loro insieme, i rilievi contenuti nella pronuncia della CdG del 2008 e nella sentenza resa dal Tribunale di primo grado il 30 settembre del 2010 rompono con l’impostazione seguita nella giurisprudenza precedente e paiono aprire nuove prospettive per ovviare al “deliberative deficit” del CdS. La sentenza della CdG confermerà tale orientamento? Attendiamo fiduciosi.
Assunta Garofalo