A fine maggio Istanbul è stata teatro di una manifestazione apparentemente innocua e che non lasciava presagire alcun risvolto più ampio. Un corteo numeroso di persone si è riunito per protestare contro l’abbattimento degli alberi del parco Gezi, dove dovrà sorgere una ennesima struttura commerciale con annessa moschea. Poche ore dopo, e dopo cariche e lanci di lacrimogeni da parte della polizia, la protesta si è diffusa in piazza Taksim, uno dei simboli della Istanbul moderna, e in tutto il Paese. Appare chiaro che la protesta non era un’espressione di ambientalisti con a cuore l’area verde della città, ma il sintomo di qualcosa di più profondo e radicato che tocca tutta la società.
L’attuale leader politico del Paese è Recep Tayyip Erdoğan, al potere con il suo partito, l’AKP, un partito islamico conservatore, da dieci anni. Senza un’opposizione decisa e capace di comportarsi con fermezza il premier e il suo partito stanno attuando una politica egemonico-autoritaria piuttosto forte. Questo è facilitato anche dalla legge elettorale turca che prevede una soglia di sbarramento del 10 per cento e che ha permesso a un solo altro partito di entrare in parlamento.
Le ragioni della protesta allora (o almeno una parte delle ragioni) si possono trovare proprio in questa scarsa alternanza politica e nella paura di perdere le libertà e i diritti che la costituzione prevede. Nonostante la quasi totalità della popolazione sia musulmana, la Turchia è uno stato laico e senza una religione di stato e il timore dei manifestanti è proprio quello che il Paese si avvii verso la formazione di una Repubblica Islamica. Le ultime decisioni di Erdoğan, che si comporta sempre più come un dittatore, sembrano proprio indirizzate verso questa strada, verso la cancellazione della laicità dello stato per lasciar posto a una società islamica fondata su stili di vita piuttosto rigidi. Un esempio è la limitazione del consumo di alcolici imposta durante le ore notturne. Questa strada battuta dal presidente turco probabilmente è stata decisa dopo alcuni no ricevuti da paesi europei circa la loro entrata nell’Unione.
Ma non è solo questo, la protesta si è allargata e inasprita anche come reazione alla durezza dei modi imposti dalla polizia per reprimerla. Vengono sparati razzi lacrimogeni ad altezza d’uomo e caricata la folla che manifesta pacificamente. Solo nei primi giorni si sono registrati mille feriti e altrettanti arresti, oltre a tre morti. Erdoğan ha cercato di predicare la calma invitando tutti a tornare a casa e lasciare la piazza e il parco, chiedendo anche scusa per le violenze, ma ha anche ribadito che il contestato progetto andrà avanti definendo inaccettabili le richieste dei manifestanti e promettendo di ripiantare altrove gli alberi. E’ chiaro che da un lato c’è il timore da parte sua di perdere quell’egemonia e quell’autoritarismo che nel tempo si è conquistato, e per questo cerca di mantenere il più possibile nei ranghi la popolazione; dall’altro c’è quello dei manifestanti timorosi delle reazioni violente che la polizia e l’esercito turco sono storicamente abituati ad avere.
La protesta non va classificata comunque come uno scontro tra una fazione laica e una islamista, in piazza c’è gente di ogni colore e credo religioso, dai laici agli islamisti più radicali. Non è nemmeno una protesta organizzata dal partito di opposizione che come detto è debole e incapace di mobilitare così tante persone. E’ l’unione di persone che spontaneamente chiedono al premier maggiore democrazia e più voce in capitolo, insieme spingono affinché il Paese non vada verso un fanatismo religioso e un’imposizione forzata della religione, vogliono mantenere il carattere e le ideologie dello stato per cui i loro bisnonni hanno combattuto nel 1923.
Alessandro Fucci