Di seguito, la sintesi del secondo dei due interventi promossi da OMeGA in occasione della rassegna culturale “PulArchàios 2013”, organizzata dal Comune di Pula nel settembre/ottobre di quest’anno e tuttora in corso.
Dal Maghreb al Levante
Geopolitica del Mediterraneo in un’epoca di crisi
La moderna teoria geopolitica consente di comprendere le dinamiche conflittuali in atto nel Mediterraneo allargato a partire dall’analisi degli Stati dell’area.
Dall’Egitto alla Siria, dalla Libia a Cipro, dalla Turchia alla Grecia, diverse nazioni della nostra regione sono ormai stabilmente sulle prime pagine dei giornali.
Alcuni di questi Stati sono in ascesa, nonostante le turbolenze interne ed esterne, mentre altri hanno di fronte a loro un lungo periodo di crisi, con rischi di disgregazione.
Con l’aiuto di mappe e statistiche, si cercherà di spiegare in modo semplice le traiettorie geopolitiche degli Stati e degli attori non-statuali (partiti, gruppi antagonisti, ecc.) in competizione per il potere e per l’influenza nell’area.
Il Mediterraneo vive un periodo storico di grandi mutamenti sociali. Fra il 2010 e il 2013 una serie di crisi economico-finanziarie e politiche, di conflitti etno-religiosi e di interventi militari hanno profondamente mutato il quadro regionale, dalla Grecia alla Siria passando per Cipro, Libia, Egitto, Libano e Turchia. Un nuovo concetto, quello di “Primavera Araba“, è stato coniato per descrivere una serie di sommovimenti (proteste, rivolte e persino rivoluzioni) che hanno avuto luogo nei paesi arabi dell’area mediterranea, in particolare in Tunisia ed Egitto.
Il cosiddetto “senso comune” tende a individuare due ordini di cause fondamentali che spiegherebbero crisi e rivolte. Nel caso di sconvolgimenti sociali e politici, l’indiziato principale è il regime coinvolto, in quanto brutale, inetto e corrotto. La popolazione o parte di essa, quindi, scenderebbe in piazza animata da un senso di giustizia, in nome dei diritti dell’uomo e delle minoranze. Nel caso di crisi economico-finanziarie, invece, la cattiva gestione delle politiche fiscali da parte dei governi, l’inefficienza e la corruzione delle classi dirigenti e il potere delle banche sarebbero i principali colpevoli.
Certamente il “senso comune” coglie elementi di verità. E’ innegabile, infatti, che i problemi sommariamente descritti partecipino del meccanismo di crisi. Sarebbe tuttavia del tutto superficiale fermarsi a quanto emerge dai caotici avvenimenti delle fasi acute, e a volte finali, del conflitto, della crisi economica o della rivoluzione. Ne deriva che le spiegazioni “a caldo” siano in gran parte incomplete, se non addirittura fuorvianti.
E’ possibile spiegare quanto avvenuto negli ultimi tre anni sulla base di un modello teorico più sofisticato e solido? E tale modello potrebbe aiutarci a prevedere, seppure con molta cautela, la futura traiettoria degli Stati coinvolti nei movimenti sociali in questione? La risposta a tali interrogativi è, per quanto ci concerne, positiva. Negli ultimi 40 anni, infatti, sociologi quali Randall Collins, Jack A. Goldstone, Theda Skocpol e loro allievi hanno elaborato un modello geopolitico basato sull’interazione di variabili dinamiche allo scopo di misurare il potere territoriale e amministrativo dello Stato e le ripercussioni sociali del suo cambiamento [1].
Nelle righe che seguono cercheremo di esporre nel modo più sintetico e semplice possibile tale modello e di fornire degli esempi della sua applicazione al caso degli Stati dell’area mediterranea, allo scopo di mostrare come una buona teoria permetta di spiegare e, in parte, anche di anticipare fenomeni complessi.
1. Il potere territoriale dello Stato
Sono molte le teorie che tentano di spiegare fenomeni quali rivolte e rivoluzioni a partire dall’osservazione della geografia umana. La compresenza di gruppi etnici e religiosi sul suolo di uno stesso Stato è spesso considerata una chiave per capire i conflitti a sfondo identitario. Analogamente, rapidi mutamenti demografici sono spesso individuati come elementi cruciali di crisi socio-economiche incontrollabili.
La moderna teoria geopolitica, tuttavia, ha dimostrato come tali elementi, pur decisivi, debbano essere inseriti in una analisi di lungo periodo dell’espansione e contrazione del potere statale, sia in senso amministrativo (capacità di coercizione e di estrazione di risorse economiche), sia in senso spaziale (controllo del territorio e di sfere d’influenza geoeconomiche). Solo allora essi assumono una valenza esplicativa davvero utile. In altre parole, la propensione di uno Stato a cadere vittima di una grave crisi sociale e di una rivoluzione è intimamente legata al suo destino geopolitico.
In estrema sintesi, le ricerche geopolitiche basate sull’osservazione storica di lungo periodo indicano come la legittimità interna di un regime si fondi in larga misura sul prestigio del potere, derivante a sua volta dal successo geopolitico. Gli Stati in ascesa, usciti vincitori da conflitti internazionali (diplomatici o militari) e in grado di espandere le proprie sfere d’influenza, godono di un prestigio del potere superiore rispetto agli Stati in fase di stallo o di declino, sconfitti o umiliati sulla scena internazionale. Inoltre, il controllo di porzioni strategiche di territorio si rivela fondamentale per le capacità amministrative di uno Stato, soprattutto per quanto riguarda il controllo di flussi commerciali, materie prime e fonti strategiche d’energia. Gli Stati in ascesa possono governare molto più efficacemente i sommovimenti sociali al loro interno, fino addirittura ad avvantaggiarsene per rinnovare in senso positivo la propria struttura politica e sociale [2]. Gli Stati in declino, invece, possono facilmente incorrere in gravi conseguenze derivanti dal dinamismo interno: dal cambio di regime più o meno brusco al crollo del potere statale, fino alla frammentazione su base etno-territoriale nel caso fattori esterni si aggiungano a quelli interni.
Gli Stati sperimentano fasi di ascesa geopolitica grazie a un doppio vantaggio: (a) quello di essere relativamente più ricchi in territorio, risorse umane e produttività rispetto ai propri competitori, e (b) quello di avere meno rivali pericolosi nella propria regione, fatto che ne aumenta notevolmente lo spazio di manovra. Tali Stati avranno non solo migliori possibilità di vincere eventuali guerre, ma potranno anche imporre alleanze a loro favorevoli e, grazie al prestigio in aumento, attrarre facilmente nella propria sfera d’influenza alcune nazioni “vassalle”. Gli Stati in declino geopolitico, al contrario, sono quelli logorati da una posizione sfavorevole strategicamente, da uno svantaggioso rapporto fra popolazione e territorio, o dalla propria marginalità rispetto al sistema mondiale dell’economia. Infine, gli Stati in vantaggio sono quelli che non soffrono di “iper-estensione”, cioè dell’esiziale meccanismo per cui l’impegno militare in campo internazionale impegna più risorse economiche e umane di quanto lo Stato possa disporre.
Le variabili geopolitiche mutano in tempi relativamente lunghi, fatto che le designa come “cause lontane” dei mutamenti sociali. Per capire questi ultimi dobbiamo considerare dunque anche le “cause prossime” che interagiscono con quelle geopolitiche: corruzione e inettitudine della classe dirigente, percepita dalle masse come incapace di risolvere problemi strutturali e/o vitali del paese; propensione delle grandi potenze ad aiutare i rivoltosi invece che il regime; mutamenti demografico/strutturali che mettono a nudo la decrepitudine e rigidità di istituzioni nate in un precedente e ben diverso contesto storico-sociale.
Se applichiamo tale modello al Mediterraneo del periodo 1980-2010, possiamo certamente avere un quadro più chiaro di quanto avvenuto. Non è un caso, per esempio, che la Turchia abbia mostrato notevole tenuta rispetto ai sommovimenti del 2012-2013 mentre l’Egitto no; la diversa propensione delle grandi potenze a intervenire in contesti quali Libia, Siria, Egitto spiega in gran parte i destini di dominanti e sfidanti nei diversi casi; infine, il perdurare di crisi fiscali e finanziarie in paesi come Grecia e Italia ha origini non solo congiunturali, ma anche strutturali e geopolitiche.
2. Chi è in ascesa, chi in stallo, chi in declino nel Mediterraneo?
Uno dei lasciti della fine della Guerra fredda è stato il riassetto territoriale di ampie aree dell’area eurasiatica. Nella regione mediterranea, l’asse danubiano/balcanico, quello adriatico e il bacino del Mar Nero hanno subito profondi mutamenti. Due Stati sovranazionali, l’URSS e la Jugoslavia, sono andati in pezzi, proprio grazie all’accumulo di svantaggi geopolitici nei confronti dei competitori (USA/NATO, UE). Il risultato è stato che attori regionali precedentemente “ingabbiati” in difficili posizioni strategiche hanno visto migliorare drasticamente la propria posizione, trovandosi ormai di fronte a piccoli Stati deboli e non più a grandi potenze.
Sul piano demografico, dagli anni Settanta a oggi il rapporto fra paesi della sponda nord e quelli della sponda sud è cambiato significativamente; una delle variabili geopolitiche più importanti si è infatti rivelata la geografia umana dell’area, con paesi giovani in piena crescita demografica e paesi sempre più vecchi (e più ricchi), fatto che ha peraltro determinato una naturale tendenza all’emigrazione di massa verso la sponda nord.
Sul piano geopolitico interno, nondimeno, la demografia ha creato problemi di diversa natura. Paesi come Grecia o Italia hanno sofferto l’aumento senza precedenti dell’età mediana della propria popolazione (oggi oltre 43 anni in Grecia e oltre 44 in Italia). Intere generazioni rischiano di non essere adeguatamente sostituite per mancanza di giovani, con prospettive economico/fiscali molto preoccupanti per la sostenibilità della previdenza sociale e del mercato del lavoro.
Al contrario, in nazioni come Egitto (età mediana sotto i 25 anni) o Siria (sotto i 23!), il forte e rapido aumento demografico ha creato una struttura socio-economica dominata da giovani in cerca di posizioni che i rispettivi regimi non potevano soddisfare. Quando tale rapporto è complicato dal fattore etno-religioso (conflitto fra alawiti e sunniti in Siria), gli elementi per scatenare violenti rivolgimenti aumentano.
Vediamo ora qualche breve osservazione su alcuni paesi dell’area dal punto di vista della teoria geopolitica esposta in precedenza, al fine di mostrare il potere esplicativo del modello elaborato da Collins, Goldstone e loro collaboratori.
a. Grecia: un paese in grave crisi economica, in situazione di pieno stallo geopolitico. Il principale rivale regionale, la Turchia, ha goduto negli ultimi trent’anni di un costante miglioramento (vedi sotto). L’assurda spesa militare (oltre 5% del PIL) unita alla rigidità del mercato del lavoro e all’alto livello di corruzione della classe dirigente ha contribuito fortemente alla crisi fiscale dello Stato greco, il cui ingresso nell’eurozona, avvenuto nel 2002, appare oggi come una mossa prematura e azzardata. La Grecia, tuttavia, è un paese relativamente anziano; sul piano teorico si può dire che se i greci fossero stati più giovani, una rivoluzione sarebbe stata quasi inevitabile. Atene ha la fortuna di essere alleata (nella NATO) al proprio maggior rivale regionale (Ankara), di avere la garanzia euro-atlantica, e di essere ormai partner anche di Bulgaria, Romania e Albania. Questi fattori, uniti alla struttura demografica, mitigano il rischio di rivoluzioni, anche se non di forte instabilità politica.
b. Turchia: dopo la fine dell’URSS e la disintegrazione della Jugoslavia, Ankara ha anche approfittato della distruzione della potenza militare irachena (1991-2003). Protetta a occidente dalla propria appartenenza alla NATO, la Turchia (oltre 70 milioni di abitanti e prospettive di vederli aumentare a oltre 90 nei prossimi venti anni) è una potenza in ascesa, anche sul piano economico. I problemi geopolitici principali sono la questione curda e il possibile perdurare del caos in Siria, ma in prospettiva è l’ascesa dell’Iran a poter causare i maggiori problemi. In ogni caso, nella fase storica attuale, è il paese dell’area con maggiori vantaggi geopolitici esterni e interni. Ciò spiega in gran parte il perché gli apparati di governo non si sono disuniti nel momento della crisi del 2013 successiva alla rivolta dei giovani a Istanbul.
c. Egitto: estremamente popoloso e con una età mediana di appena 24,8 anni, l’Egitto è però da anni in grave pericolo strutturale: le sue istituzioni, dominate dai militari, sono del tutto inadeguate nel rispondere alle sfide della modernizzazione. L’influenza americana e israeliana è forte, e allorché tali potenze esterne hanno tolto il proprio appoggio al regime di Hosni Mubarak (2011) per quest’ultimo non c’è stato scampo. L’Egitto viene da decenni di sconfitte politico-militari e diplomatiche (1956, 1967, 1973) che ne hanno danneggiato gravemente il prestigio nell’area arabo/musulmana. È incapace di assurgere a leader regionale, data la forza di Israele e Turchia. L’impressione è che la transizione sarà ancora lunga e difficile.
d. Siria: relativamente isolata sul piano diplomatico, alle prese da lungo tempo con l’ostilità israeliana da un lato e turca dall’altro, la Siria di Bashar al-Assad era giunta in cattivo stato all’appuntamento (non certo voluto) con le rivolte nel 2011. In questo caso, come sottolineato da Goldstone, la volontà di potenze esterne (USA, Turchia, UE, da un lato e Russia, Iran, dall’altro) è decisiva. Teheran e Mosca, per ragioni complesse impossibili da sintetizzare in questa sede, hanno appoggiato con vari mezzi il regime, mentre l’Occidente e la Turchia hanno dato man forte ai ribelli. Risultato parziale: stallo. Difficile però pensare che il paese torni a essere quello dei decenni precedenti; l’elemento demografico e quello etno-culturale, in piena evoluzione, suggeriscono una forte possibilità di frammentazione lungo linee identitarie.
e. Libia: qui la questione è diversa. La Libia era diventata parte del dispositivo geopolitico russo nel Mediterraneo (con la partecipazione italiana sempre meno discreta in proposito) e sul piano demografico/strutturale il contesto appariva governabile, sebbene la vita politica ed economica fosse condizionata dal “sultanismo” del vecchio leader Gheddafi. Senza il massiccio intervento esterno (guidato da Francia e Regno Unito con appoggio USA), ben difficilmente i rivoltosi dell’area di Bengasi avrebbero potuto avere la meglio. In questo caso, è bene ricordarlo, la Russia non ha ritenuto nel proprio interesse di intervenire con forza, lasciando dunque campo libero a un mutamento a lei non molto favorevole. Il paese, con tutta probabilità, farà fatica a trovare un successore del precedente regime, aprendo la strada a forze centrifughe radicate nella storia cirenaica e del Fezzan
3. Conclusioni
Si potrebbe certamente argomentare che le osservazioni appena esposte sono state scritte dopo i principali fatti degli ultimi anni, e quindi che il senno di poi infici il reale valore del modello teorico geopolitico. Tuttavia è bene sottolineare che gli autori citati hanno elaborato il modello fra gli anni Settanta e i primi anni Novanta, per poi applicarlo con buoni risultati a casi-studio della loro epoca (l’URSS in particolare). L’accumulo di conoscenze derivante da tale corpus teorico è utile, e anzi necessario, per migliorare la nostra comprensione di fenomeni sociali complessi. Lo scopo della teoria è infatti quello di fungere da mappa nel percorso della conoscenza. Se vogliamo cercare di anticipare la futura traiettoria degli Stati mediterranei, dobbiamo innanzitutto dedicarci alla comprensione della loro storia recente e meno recente, tentando di coglierne le tendenze di fondo.
Federico Bordonaro
Federico Bordonaro ha ottenuto il Dottorato di ricerca in storia contemporanea presso l’Università La Sorbona di Parigi-IV, specializzandosi nella questione della politica europea di sicurezza e difesa dalla Seconda Guerra mondiale a oggi. Ha insegnato geopolitica e geoeconomia presso le università La Sapienza (Roma) e Webster. Ha pubblicato, per i tipi di Guerini (Milano), Geopolitica anglosassone (seconda edizione, 2012) e ha curato, insieme a Giuseppe Anzera e Maria Romana Allegri, La potenza incompiuta (Roma, Franco Angeli, 2005). E’ autore di diversi saggi di storia contemporanea e di geopolitica, in particolare su questioni di sicurezza strategica ed energetica europee, e ha collaborato con istituti di studio italiani e stranieri.
[1] Per una trattazione in italiano di tali teorie, si vedano G. Anzera, Geopolitica dello Stato e processi rivoluzionari, Roma 2011 e F. Bordonaro, La geopolitica anglosassone, 2. ed., Roma 2012.
[2] Come dimostra in modo convincente Jieli Li, Why Do States Fragment and Break Apart? Lewiston, NY, 2010.