LA POLITICA DEI DIRITTI UMANI NELLE REGIONI MEDITERRANEE

Sommario:

  1. L’apparentemente conseguito recepimento degli strumenti di diritto internazionale
  2. La reale situazione negli ordinamenti nazionali e le diverse categorie del diritto islamico
  3. Le complesse ed articolate situazioni ambientali
  4. L’importanza degli attori non statali sul piano regionale interno
  1. L’apparentemente conseguito recepimento degli strumenti di diritto internazionale

Il recente quanto inaspettato infiammarsi di un numero così rilevante di Paesi di diritto islamico che si affacciano sul Mediterraneo, dalla Libia alla Siria, costituisce materia di suggestiva interpretazione non solo sul piano politologico ma innanzitutto su quello giuridico[1].

Ad una prima disamina, in una prospettiva squisitamente formale, l’osservatore occidentale non può che constatare serenamente il graduale seppur tardivo recepimento delle norme e dei principi generali, attinenti ai diritti umani, nel seno dei singoli ordinamenti nazionali.

In tal senso, infatti, l’Organizzazione della Conferenza Islamica già con la Dichiarazione dei diritti umani nell’Islam del 5 agosto 1990 ha enucleato un primo catalogo di principi seppur palesemente ancorati alle rigide previsioni della legge coranica. Infatti, si osserva, sullo stesso piano della tecnica normativa utilizzata dai negoziatori, che le disposizioni contemplate traggono fondamento, derivazione o rinviano espressamente a comandi di carattere dichiaratamente religioso[2]. Inoltre, la predetta Dichiarazione non ha natura di accordo internazionale.

Nell’arco di soli quattro anni, infatti, veniva negoziato nel seno del Consiglio della Lega Araba un vero e proprio trattato internazionale, la Carta araba dei diritti umani, stipulata al Cairo il 15 settembre 1994.

In realtà la stipula di tale accordo rappresenta la maturazione di un lungo processo di elaborazione avviatosi nel 1968, anno a suo tempo dedicato su base internazionale ai diritti umani nel mondo. In quella occasione erano state istituite dal Consiglio della Lega Araba due apposite commissioni. La prima, al fine di poter fornire in sede internazionale il proprio qualificato ed esemplare contributo; la seconda, analogamente preposta alla definizione degli specifici programmi in materia da presentare poi pubblicamente. Il 3 settembre 1968 veniva istituita la Commissione permanente dei diritti umani[3]. Gli anni settanta e ottanta costituiscono un periodo di lunga decantazione, in attesa di un momento di svolta evolutiva e di contestuale effettivo progresso nella società civile. Nel 1994 la Commissione riesce a conseguire il risultato di emanare un documento giuridico, conforme alle disposizioni convenzionali universalmente accettate dalla Comunità internazionale. Solo nel preambolo vi è un generale riferimento a precetti religiosi. Il dettato normativo dei ben 43 articoli è configurato coerentemente con soluzioni di natura esclusivamente giuridica. Tuttavia, nella sua veste di accordo internazionale subordinava la sua entrata in vigore al deposito di almeno sette strumenti di ratifica che non verranno, peraltro, mai formalizzati presso il Segretariato Generale della Lega Araba, impedendone di fatto la vigenza.

Il superamento di queste difficoltà riscontrate preliminarmente sul terreno della ratifica del Trattato, legate alla consapevolezza di una profondamente diversa sensibilità per temi quali la pena di morte o l’inflizione di pene corporali o l’interpretazione di principi come la parità dei diritti doveri tra uomo e donna, si realizza solo mediante le preziose sinergie negoziali ed istituzionali allora sviluppate tra la Lega Araba e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Nel 2004, durante il Vertice di Tunisi del 22-23 maggio, si giunge alla stipula di una nuova Carta araba dei diritti dell’uomo[4]. Nonostante un insieme ancora intenso di condizionamenti e di restrizioni alla previsioni di carattere universale, quale, a titolo esemplificativo, l’ammissibilità dell’irrogazione della pena capitale per i soli maggiorenni, vi è un’impostazione prevalentemente laica dell’intero sistema delle clausole considerate.

Tuttavia, un profilo fondamentale dell’architettura adottata descrive la effettiva carenza strutturale dell’intero complesso di disposizioni, divenute formalmente vigenti dal 2008[5]. Sono i meccanismi procedurali di garanzia, a nostro avviso, a palesarsi come inadeguati di fronte alle reali esigenze degli ordinamenti giuridici nazionali interessati[6]. Queste soluzioni possono essere valide negli ordinamenti di tradizione romanistica o di common law, ma non appaiono idonei a mutare l’interpretazione di alcuni valori di base degli ordinamenti di diritto islamico.

L’istituzione di un Comitato arabo dei diritti dell’uomo, indipendente e preposto ad un’azione di vigilanza super partes, non ha prodotto la sufficiente incisività d’intervento desiderata. La sua conseguente “prevista” intensa attività di monitoraggio, inoltre, non ha trovato finora riscontro nella prassi applicativa. La stessa trasmissione di rapporti periodici da parte degli Stati membri al Segretariato Generale della Lega Araba, contenente le effettive misure di adattamento interno, non ha prodotto i risultati auspicati. Il predetto Comitato esercita funzioni di controllo ed esperisce un vaglio delle misure attuative, producendo annualmente un rapporto al Consiglio della Lega Araba, attraverso il riscontro istituzionale del Segretariato Generale. Non vi è, tuttavia, alcun meccanismo sanzionatorio o di semplice formale eccezione esperibile nei confronti dei singoli Stati nazionali, nell’ipotesi di violazione dei contenuti del Trattato.

Le previsioni formali statuite in quest’ultimo Accordo internazionale, ratificato da ormai non pochi Stati membri della Lega Araba, sono destinate di fatto a non tradursi in norme interne di contenuto sostanziale. Non sono, infatti, “destinate” ad essere concretamente applicate dagli operatori giuridici interni, siano essi giudici, avvocati o funzionari dell’amministrazione dello Stato o degli Enti territoriali, aventi competenze spesso in contesti ambientali e sociali periferici estremamente arretrati.

2.   La reale situazione negli ordinamenti nazionali e le diverse categorie del diritto islamico

Appare opportuno porre in evidenza che fin dagli inizi dell’ottocento, in piena epoca coloniale, sino ad arrivare al secondo dopoguerra, la prospettiva del dominio culturale e sociale del vecchio continente non è mutata. Tuttavia, nonostante questa pervicace ottica, non si è riusciti a trasformare le coordinate di riferimento comportamentale ed i valori di base di gran parte delle popolazioni amministrate dai vari governi coloniali. In qualche misura, tale impostazione metodologica non è cambiata neanche successivamente in questi ultimi decenni e negli anni posteriori agli attentati dell’11 settembre. Attentati leggibili anche come ottusa e vile reazione di rigetto ai modelli culturali dell’occidente e degli Stati Uniti, “importati” nell’impermeabile orizzonte della società araba. Postulati del diritto e dell’evoluzione civile occidentale non opportunamente illustrati, chiariti e sostenuti da un’idonea opera di divulgazione, di insegnamento didattico nelle scuole. Principi giuridici presentati dalle autorità del governo centrale, invece, come frequentemente accaduto, quali univoche soluzioni provenienti da un mondo lontano e profondamente diverso, disseminate mediante slogan propagandistici di sapore pubblicitario e non con opportune misure giuridiche ed amministrative di adattamento interno. Non si è auspicata, infatti, una armonizzazione ed una necessaria complementarità tra le tradizioni giuridiche di matrice islamica ed i profondamente diversi sistemi di common o civil law.

La semplice asportazione e sostituzione delle regole di condotta, profondamente radicate nelle coscienze religiose e negli istituti giuridici di quelle popolazioni, non è stata e non appare ancora oggi una formula vincente ed esente da critiche. L’esportazione tout court dei modelli di democrazia occidentali e dei sistemi giuridici ad essi correlati ha prodotto reazioni di rigetto violente e orientate ad una presunta quanto patologica difesa di identità culturale da parte non solo di frange di fondamentalisti islamici ma di cospicui strati della popolazione maggiormente legata alle secolari tradizioni locali.

“Per i mussulmani la Sharia è la somma dei doveri del genere umano: etica e teologia morale e pastorale, alta aspirazione spirituale e osservanza formale, particolareggiata e ritualistica; racchiude ogni aspetto del diritto pubblico e privato, dell’igiene e perfino della cortesia e delle buone maniere. Considerare inadeguata una parte qualsiasi della Sharia è ritenuto un’eresia dalla maggioranza dei mussulmani, i quali credono che tutta la Sharia sia divina. Questa opinione diffusa crea una barriera psicologica formidabile, rafforzata dalla minaccia del procedimento penale per il delitto capitale di apostasia (ridda), una minaccia che oggi è reale in Paesi come il Sudan[7]”.

Il diritto di famiglia e delle successioni, a titolo esemplificativo, è un settore normativo restato completamente refrattario a qualsiasi condizionamento esterno, poiché strettamente correlato ai precetti sacri della Sharia. La formazione di tale complesso di precetti si è compiuta prevalentemente nei primi tre secoli dalla fondazione dell’Islam, sotto il fortissimo condizionamento di fattori di carattere demografico e territoriale delle comunità musulmane. Assetto già allora cristallizzatosi e mantenuto inalterato anche durante la successiva fase di espansione. La formazione delle scuole del diritto islamico, le interpretazioni ancora in uso del Corano e della guida del Profeta durante la sua vita, la Sunna, lo sviluppo delle tecniche di derivazione di principi generali e di norme specifiche da tali fonti, sono fenomeni maturati e fossilizzatisi alla fine del primo millennio dell’era cristiana. Da allora innumerevoli generazioni di operatori giuridici musulmani si sono limitati all’osservanza scrupolosa di tali orientamenti e parametri esegetici, taqlid.

La tensione tra il vincolo di carattere religioso nel diritto islamico e la ormai palese anacronistica inadeguatezza di alcuni precetti della Sharia nel disciplinare compiutamente la vita quotidiana odierna dovrebbe essere risolta nel rinnovamento, secondo l’autore da ultimo citato. Il diritto islamico dovrebbe adattarsi all’esigenze, ai bisogni ed al mutato contesto internazionale dei nostri giorni.

La soluzione è da rinvenire in un’attenta opera di armonizzazione e modernizzazione degli ordinamenti giuridici e dei sistemi politici di non pochi Stati arabi, in particolare della fascia magrebina. I presupposti della inaspettata “primavera rivoluzionaria” del 2011 vanno rinvenuti oltre le semplici rivendicazioni per le libertà civili, politiche o relative a modelli di democrazia da importare senza adattamenti.

Non è possibile analizzare gli ordinamenti dell’“Oriente musulmano” con gli strumenti epistemologici delle scienze del diritto dell’Occidente.

La stessa gerarchia delle fonti del diritto è completamente diversa, costruita su piattaforme concettuali e tecniche antitetiche. Le categorie logiche fondanti i sistemi giuridici occidentali sono costruite sulle monumentali partizioni dottrinali del diritto romano, baluardo di diversa civiltà giuridica sul quale si sono poi evoluti in modo eurocentrico tutti i campi del diritto moderno, dal penale e civile allo stesso internazionale pubblico e privato, sotto l’impulso dell’elaborazione illuminista, delle grandi codificazioni ottocentesche e delle conferenze internazionali del novecento, che hanno disegnato gli attuali sistemi normativi ed istituzionali sia del vecchio e che del nuovo continente.

Le fonti del diritto islamico sono suddivise in due grandi partizioni connesse alla loro origine[8]. Uno schema meramente riassuntivo potrebbe essere il seguente.

La prima è costituita dalle fonti trasmesse. In questo ampio genus sono comprese le fonti a carattere rivelato: il Corano, la Sunna e le norme rivelate prima dell’Islam. Di rango gerarchico subordinato sono le fonti non rivelate: il consenso, l’usanza e il parere dei compagni di Maometto.

La seconda partizione è rappresentata dalle fonti razionali, composte da metodi di deduzione delle norme: l’analogia (qiyas), la preferenza giuridica (istihsan) la presunzione di continuità (istishab)…

Inoltre, il diritto musulmano non riconosce il principio della sovranità popolare, concepito ab origine nella repubblica romana e poi recuperato in Europa con rinnovata enfasi a partire dalla lezione del Machiavelli, poiché parte da basi esterne all’uomo e indipendenti dalla sua volontà: le precitate fonti trasmesse.

Alla Shari‘ah (legge fatta da Dio) si affianca il diritto positivo, dicotomia celebrata, in particolare, dall’impero ottomano al fine di amministrare popolazioni di religione diversa, applicando il principio della personalità del diritto islamico per i precetti religiosi e quello, invece, della vigenza territoriale, di matrice romanistica, per le leggi dell’impero. Il diritto positivo è prodotto dal potere legislativo, a fronte della immutabilità delle fonti trasmesse e della, fino ad ora, scarsa adattabilità delle fonti razionali. Il diritto musulmano, a vocazione dichiaratamente universalistica, è ritenuto applicabile ai credenti ovunque si trovino, determinando la pretesa latente ad una sua applicazione di tipo personalistico anche all’interno dei confini nazionali degli Stati europei. Un’eloquente manifestazione di questo assunto si è vissuta recentemente in Francia per la questione dello Shador e del presunto obbligo del velo sul volto delle donne di origine magrebina.

“La sola via verso la rinascita dei Paesi musulmani passa per l’Islam. Infine, i movimenti che brandiscono l’insegna del ritorno all’Islam non sono di natura reazionaria o regressiva come appaiono agli occidentali, ma al contrario sono progressisti, in quanto resistono al dominio culturale dell’Occidente.[9]”

Lo stesso Saif Al-Islam, figlio del Colonnello Gheddafi, aveva preannunciato, nel febbraio 2011, l’imminente emanazione di rilevanti progetti di riforma del sistema politico e giuridico della Libia, nonché un’importante iniziativa di riassetto organico in materia costituzionale. Analoga iniziativa era già stata intentata infruttuosamente nel 2003, con previsto termine finale di entrata in vigore dei testi normativi per il 1° settembre 2008. I settori sottoposti alla auspicata ma mai realizzata opera di revisione e riforma organica, mediante ben ventuno articolati provvedimenti normativi quadro, erano stati individuati prioritariamente nel sistema penale, civile e commerciale. Tali proposte di legge non sono però mai state sottoposte al vaglio ed all’approvazione del vecchio Parlamento nazionale libico: il Congresso Popolare Generale. (Il rapido collasso del vecchio regime libico, nel 2011, di fronte al dilagare della protesta ed all’intervento della Comunità internazionale, costituisce potente materia di riflessione, in una prospettiva comparata).

La situazione esistente, invece, alla data odierna, ad esempio, nel Marocco è completamente diversa. Il sovrano, Mohammed VI, univocamente ritenuto dal suo popolo Guida dei credenti e discendente del Profeta, “dispone di un’occasione unica per costruire un modello originale di sviluppo civile e di democrazia”[10]. Il 9 marzo 2011 ha annunciato il varo di un progetto di “riforma costituzionale globale”. Inoltre, nello stesso mese, il Consiglio Consultivo dei diritti dell’uomo (CCDH) è stato oggetto di profonde modiche istituzionali ed è divenuto Consiglio Nazionale dei diritti dell’uomo (CNDH), dotato di poteri rafforzati di monitoraggio e controllo volti ad un consolidamento dello Stato di diritto.

3.   Le complesse ed articolate situazioni ambientali

“Nella Sharia la concezione storica del principio di reciprocità non si applicava alle donne e ai non musulmani nella stessa misura in cui veniva applicata agli uomini musulmani.[11]” Uno stupefacente corollario di questa premessa è l’attuale esistenza in alcune regioni remote della Mauritania e del Sudan del nord di diffusa tolleranza nei confronti di forme di segregazione e di riduzione in schiavitù di persone appartenenti ad etnie di minoranza asservite ed adibite prevalentemente a mansioni domestiche. In seguito a scontri etnici e tribali condotti contro popolazioni di fede non islamica, i precetti coranici e la Sunna ne ammettono i presupposti teorici e, dunque, la pratica.

Le condizioni letterali che permettono di fatto ancora oggi questa deprecabile attività sono rinvenibili nella presunta legittimità di catturare una persona mentre combatte l’Islam con l’intenzione di sradicarlo e di non recedere dalle sue convinzioni blasfeme, oppure se esistono prove legali che i suoi antenati erano in condizione servile, discendenti analogamente da prigionieri di guerra contro la fede; inoltre sia il Corano che la Sunna prevedono la possibilità di avere una schiava concubina.

Tali situazioni di grave compressione dei diritti umani più elementari avvengono anche a causa del ridotto controllo da parte dei poteri delle autorità di governo centrale su aree vastissime e martoriate da conflittualità etniche ed identitarie, miste alla piaga ancora di evidente attualità rappresentata dalle numerose bande criminali di predoni delle zone desertiche o montane che ne hanno acquisito, invece, l’effettivo incontrastato dominio.

La violazione del divieto della riduzione in condizioni di schiavitù rappresenta un argomento, a nostro avviso, ampiamente esemplificativo, accanto all’odierno trattamento della sfera di diritti e doveri della donna, a volte gravemente limitati ed inibiti nelle predette enormi zone periferiche e di confine.

4.   L’importanza degli attori non statali sul piano regionale interno

L’importanza di portare in tali zone remote e di confine, tormentate spesso da ataviche situazioni di instabilità etnica, i risultati concreti derivanti dallo sviluppo del tema dei diritti umani assurge a ruolo di strategico impatto. Rendere tangibili le conquiste in materia di diritti e doveri è illuminante per popolazioni frequentemente a bassa scolarizzazione o oppresse dai bisogni elementari. Le altisonanti quanto apparentemente vuote previsioni dei trattati internazionali stipulati a New York o in Europa si riempiono di contenuti vitali, reali ed immediatamente percepibili dalle popolazioni delle aree periferiche degli sterminati Stati africani e del Medio Oriente. Delocalizzare in questi spazi periferici è determinante per realizzare compiutamente piccoli, grandi passi di avanzamento del progresso civile, duramente conquistato nel corso dei secoli non solo in Europa ed America.

Agire in modo capillare sul territorio e non in via prioritaria solo nelle aree adiacenti alle capitali ed alle grandi città significa rendere egualitario l’accesso ai diritti sostanziali e formali proclamati con enfasi proprio nei testi convenzionali. L’ammissione alle scuole statali di bambini e bambine consente una formidabile proiezione in avanti del grado di maturità ed apertura mentale della popolazione. Acquisire pari dignità scolastica e culturale, ad esempio, è la premessa indispensabile per una futura più avanzata parità sociale tra i sessi e l’abbandono di forme di discriminazione umilianti ed anacronistiche.

L’intervento sul piano locale può essere realizzato per definizione in modo più rapido ed efficace dagli enti territoriali. La legge n. 3 del 2001, che ha modificato il riparto di competenze tra Stato e Regioni, in Italia fissato dall’art.117 della Costituzione, agevola tale indirizzo metodologico. La possibilità conferita all’ente Regione in Italia di dare attuazione e specificazione agli atti di politica internazionale dello Stato fornisce un formidabile strumento di intervento su base territoriale nelle zone più depresse e poste in bilico ai confini spesso artificialmente tracciati dalle vecchie potenze coloniali in Africa come in Medio Oriente.

La tendenziale assenza nella tradizione giuridica e politica islamica di una matura ed autonoma elaborazione della nozione di Stato nazionale con i postulati legati ad una rigida demarcazione dei confini ha da sempre generato delle rilevanti conseguenze. Infatti, il taglio e la suddivisione di etnie effettuato dagli asettici diplomatici europei dell’ottocento e in gran parte anche del novecento ha disegnato geografie geopolitiche mediante confini non aderenti a realtà sociali, storiche e linguistiche risalenti nei secoli. Dal Sahara occidentale, con il Fronte Polisario, fino a giungere allo spezzettamento dell’etnie Pastun in Afghanistan.

Nonostante l’autorevole dottrina italiana[12] sembri non attribuire grande valore d’impulso creativo all’azione dell’ente Regione sul piano della politica estera, le modalità d’intervento dei suoi operatori sono naturalmente più aderenti alle problematiche della dimensione locale rispetto alla visibilità di tali prospettive, posseduta dai funzionari pubblici delle varie Amministrazioni centrali dello Stato o dalle società delegate per contratto. Non si tratta, dunque, solo di mere attività di natura esecutiva di progetti già compiutamente elaborati dal livello superiore della politica estera statale. L’ente Regione italiano ha ampi margini attuativi, per le materie rientranti nelle sue attribuzioni, nel conseguimento degli obiettivi istituzionali fissati dal Ministero per gli Affari Esteri, nel pieno rispetto delle linee programmatiche d’ordine generale da quest’ultimo tracciate e degli obblighi internazionali assunti dall’Italia. L’individuazione di specifici progetti su scala locale e di microprogrammi in determinate aree periferiche hanno dimostrato la capacità di incisione delle Regioni italiane all’estero.

In tal senso, infatti, (come testimoniato nel Convegno citato in apertura a piè di pagina) ad esempio, la Regione Emilia Romagna, mediante gemellaggi instaurati tra otto comuni emiliani ed otto comuni algerini, è intervenuta, da ormai più di un decennio, nei settori della sanità, delle politiche sociali, a favore delle donne e dei giovani, fino al sostegno delle scuole, dei programmi didattici e delle politiche ambientali. “Non si è trattato di un’opera meramente umanitaria ma di una vera e propria azione di cooperazione sul territorio, con soggetti omologhi che collaborano tra di loro”. Il trasferimento di competenze in campo sanitario su base territoriale è agevolato per definizione proprio dal riparto di attribuzioni fissato dalle norme nell’ordinamento giuridico italiano che vogliono l’ente Regione titolare di un ampio spettro di responsabilità nel settore della sanità pubblica. Il modello di formazione tecnico-professionale, inoltre, conseguito e ampiamente sperimentato con generazioni di studenti ed in decenni d’insegnamento in Italia è stato riproposto con successo, nel 2008, nell’Istituto “Sauro Mantellini” nella provincia di Rabouni.

Analogamente ha fatto la Regione Toscana, con particolare attenzione, per i temi della integrazione delle popolazioni Saharawi in Algeria. In particolare, la cooperazione regionale si è concentrata sulla formazione culturale e professionale di quelle giovani generazioni costrette da decenni di conflittualità etniche, tribali e religiose a restare confinate entro territori spesso sprovvisti, persino, delle strutture scolastiche di base, aperte ad entrambi i sessi. I bisogni elementari acquisibili al di fuori delle precitate discriminazioni sostanziano eloquentemente la natura fondamentale di questo catalogo essenziale di diritti legati alla dignità della persona, nella sua collocazione sociale e nel tessuto civile dello Stato del quale costituisce specificazione individuale da garantire e non da relegare in immense aree territoriali periferiche o semplicemente diverse, ritenute di secondario interesse dal governo nazionale.

L’azione di portata universale della Croce Rossa internazionale, infine, si è perfettamente integrata sul piano territoriale con quelle iniziative delle singole Regioni italiane che hanno svolto la funzione di moltiplicatore di potenza, avendo acquisito quest’ultime negli anni una considerevole visibilità dei meccanismi di funzionamento delle omologhe circoscrizioni territoriali entro cui si realizzano i programmi umanitari.

L’attuazione sostanziale e non solo dichiarata sul piano formale dei diritti umani, dunque, è pienamente realizzata solo quando gli effetti benefici delle sue previsioni sono dispiegati con ampia diffusione sul territorio, senza l’esclusione di aree arretrate o periferiche, nella quotidianità della vita di tutti gli strati sociali della popolazione di uno Stato firmatario che abbia solennemente ratificato un testo convenzionale, in questa fondamentale materia.

Non sempre vi è stata piena attenzione riguardo le complesse diversità culturali esistenti all’interno di confini politici a volte tracciati sui precitati asettici tavoli negoziali durante lo scorso secolo.

“La primavera araba” reca tangibile quanto attuale testimonianza di questo apparentemente scontato assunto, nella più volte ricordata persistente prospettiva eurocentrica.

Umberto Montuoro (*)

(*) Umberto Montuoro, Avvocato, Tenente Colonnello Commissario dell’Aeronautica Militare, in servizio presso il Dipartimento di Diritto internazionale umanitario, dell’Istituto Superiore di Stato Maggiore Interforze, del Centro Alti Studi per la Difesa. È stato impiegato, in occasione della crisi libica, nel maggio/giugno 2011, nella missione Unified Protector, in qualità di Legal Advisor, dell’Italian National Contingent Commander AIR


[1] Intervento tenuto nella veste di moderatore della III^ Sessione, dedicata agli aspetti umanitari, del Convegno “Le Regioni mediterranee. Un caso emblematico: il Sahara occidentale”, svoltosi il 10 maggio 2011, presso il Centro Alti Studi per la Difesa (CASD) e promosso dall’Osservatorio Mediterraneo di Geopolitica e Antropologia (OMeGA), con il patrocinio del Centro Militare di Studi Strategici (CEMISS) e dell’Osservatorio per la Sicurezza Nazionale (OSN). Nella sessione si sono alternati rappresentanti dell’ente territoriale Regione e della Croce Rossa Italiana su una base di comune elevata dignità istituzionale: Testimonianze della Regione Emilia Romagna, G. L. LIO – Servizio Politiche europee e Relazioni internazionali; Testimonianze della Regione Toscana, M. TOSCHIConsigliere del Governatore per le problematiche di politica estera e umanitaria; Profughi, migranti e diritti umani, F. ZORZI, Comitato scientifico di Diritto Internazionale Umanitario della Croce Rossa Italiana.

[2]  S. AMADINI, Dalla Dichiarazione dei diritti umani nell’Islam alla nuova Carta araba dei diritti umani, in La tutela internazionale dei diritti umani, a cura di L. PINESCHI, Milano, 2006, pag. 699 e ss.. Appare interessante notare che nell’ambito dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) il Regno del Marocco ricopre un ruolo, in ogni ipotesi, non marginale, anche se non risulta essere allineato tra gli Stati maggiormente radicali.

[3]  Risoluzione del Consiglio della Lega Araba 2443/68.

[4] A. SINAGRA, I diritti economici, sociali e culturali nella nuova Carta araba dei diritti dell’uomo, in RCGI, 2005, p.42 e ss.; G. GOZZI, Le carte dei diritti nel mondo islamico, in V. COLOMBO, Tradizioni culturali, sistemi giuridici e diritti umani nell’area del Mediterraneo, Bologna, 2003; O. GIOLO, Giudici, giustizia e diritto nella tradizione arabo-musulmana, Torino, 2005.

[5]  M.A. AL-MIDANI, La nouvelle Charte arabe est entree en vigueur le 15 janvier 2008, in Jura Gentium Journal; G GOZZI, L’Islam e i diritti: le carte islamiche e le carte arabe dei diritti dell’uomo, 2007, pag. 96 e ss..

[6]  Una valutazione di contenuto diametralmente opposto è enunciata nell’articolato contributo già precedentemente citato di S. AMADINI.

[7] A.A. AN-NAIM, Riforma islamica, diritti umani e libertà nell’Islam contemporaneo, a cura di D. ZOLO, Bari, 2011, pag.18.

    [8]  S.A.A. ABU-SAHLIEH, Il diritto islamico, Fondamenti, fonti, istituzioni, Roma, 2008, pag. 91 e ss.. Appare interessante, inoltre, riportare in modo letterale quanto espresso da questo autore in merito ai contenuti della disciplina di diritto internazionale dei diritti umani, pag. 39. “La differenza tra la concezione occidentale e quella musulmana della legge si riflette nella diversità dei sistemi dei diritti dell’uomo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e gli altri documenti internazionali, soprattutto d’ispirazione occidentale, non nominano Dio. Ogni tentativo d’aggiungere un riferimento a Dio in questi documenti è stato un insuccesso. Questo non è il caso delle dichiarazioni musulmane sui diritti dell’uomo. Così, la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo adottata nel 1981 dal Consiglio islamico (con sede a Londra) afferma ripetutamente che i diritti dell’uomo si basano sulla volontà divina. All’inizio del preambolo si legge: ‘Da quattordici secoli, l’Islam ha definito, con Legge divina, i diritti dell’uomo, nel loro insieme e nelle loro implicazioni… questi diritti si presentano come diritti eterni non suscettibili di soppressione o rettifica, abrogazione o annullamento…’ – in nota quale ulteriore indice sintomatico si sottolinea che – Il mondo arabo-musulmano ha elaborato le proprie dichiarazioni di diritti dell’uomo. Alcune di queste dichiarazioni si vogliono conformi al diritto islamico.”

    [9] S.HALIMI, Le rivolte arabe e il caos libico. Le trappole di una guerra, in Le Monde Diplomatique, aprile 2011.

[10] I. DALLE, Così parlò il Re del Marocco, in Le Monde Diplomatique, aprile 2011. Le modifiche costituzionali annunciate da Re Mohammed VI sono rivolte prioritariamente ad assicurare il rilancio del processo di regionalizzazione del Marocco, compresa la rilevante questione del Sahara occidentale. È stato configurato, infatti, un ampio spettro di proposte volte ad assicurare in futuro elezioni dirette dei consigli regionali mediante suffragio universale; l’attribuzione ai presidenti dei consigli regionali, invece che ai governatori, del compito di attuare le decisioni dei precitati consigli ed, infine, la revisione della composizione del Camera dei Consiglieri in modo da accrescere la rappresentanza delle regioni. Un ulteriore argomento estremamente innovativo per un ordinamento giuridico di uno Stato dell’area magrebina è rappresentato dalla promozione della partecipazione delle donne nella gestione degli affari regionali, settore di crescente rilevanza istituzionale.

Il Capo di Stato, dunque, ha annunciato un programma di riforme istituzionali articolato in sette punti, la cui strutturazione sarà affidata ad un Comitato che dovrà concludere i suoi lavori rapidamente, per poi sottoporre le modifiche a referendum. I1 primo punto si sostanzia nell’inclusione nella Costituzione del carattere composito dell’identità marocchina, anche con riferimento alla componente berbera. Il secondo argomento è costituito dal progressivo auspicato consolidamento dello stato di diritto, attraverso l’espansione delle libertà individuali e collettive e la garanzia del loro pieno svolgimento formale e sostanziale. Un altro tema molto sentito è il rafforzamento dell’indipendenza della magistratura ordinaria dagli altri poteri dello Stato. Il quarto punto della riforma risiede nel rafforzamento della separazione dei poteri. Sono previsti più intensi margini all’azione parlamentare non solo sul piano della produzione legislativa ma anche nella capacità di contribuire ad orientare la formazione del governo, legato in ipotesi dal rapporto fiduciario al Parlamento e la cui guida sia affidata al leader del partito di maggioranza. Quinto punto del programma è il consolidamento del ruolo dei partiti nella vita politica e civile. Infine, si vuole dare rinnovato impulso ai meccanismi di vigilanza e di etica pubblica nell’esercizio delle funzioni pubbliche. La previsione di neocostitute istituzioni preposte alla vigilanza del rispetto dei diritti umani nel dettato costituzionale è una precisa intenzione già conseguita.

Elementi di informazione questi, in parte, tratti dalla Scheda Politico-parlamentare sul Marocco, predisposta dal Servizio Rapporti Internazionali della Camera dei Deputati, aggiornata al 5 aprile 2011.

[11] A.A. AN-NAIM, cit., pag. 227, questo autore sudanese esplicita con doverosa cautela l’odierna sopravivenza di forme di schiavitù in alcune regioni del nord di diritto islamico. S. TABANDEH, A Muslim Commentary on a Universal Declaration of Human Rights, Londra, 1970, pag. 17 e ss..

[12] A mero titolo esemplificativo, basti citare per tutti B. CONFORTI, Diritto internazionale, VII ed., Napoli, 2010, pag. 313.

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