Il cinguettio turco

di Elisa Bertacin

È ormai innegabile: i social media ed i social network hanno imposto la loro presenza in maniera decisa, acquisendo un ruolo centrale in moltissimi aspetti della vita quotidiana. Non si tratta più di semplici strumenti di svago delle giovani generazioni: oggigiorno abbiamo l’obbligo di considerarli strumenti di lavoro, di propaganda, di politica, di lotta, di unione, di guerra. Non solo: appare sempre più plausibile poterli considerare veri e propri soggetti ed attori, soprattutto in campo politico, sia esso nazionale o internazionale. Basti pensare all’enorme eco che danno a politici o uomini di potere, che quotidianamente esprimono le loro opinioni, lanciano sfide ed accuse, presentano i propri programmi con post su Facebook, “cinguettii” su Twitter, video su YouTube, o alla diffusione dello spirito di protesta e rivoluzione a Teheran nel 2009, dopo la rielezione del Presidente Ahmadinejad, o, in seguito, durante le Primavere arabe, divenendo i “social network dei rivoluzionari”.

Ne sa qualcosa il Premier turco Recep Tayyip Erdoğan, al centro di uno scandalo sulla corruzione, che ha puntato il dito contro Twitter, definendolo “cancrena della società”. Per questo motivo, lo scorso 21 marzo l’Autorità per le Telecomunicazioni della Turchia BTK/TIB ha deciso di bloccare l’accesso a Twitter. “Twitter obbedisce alla Costituzione americana e alla legge britannica, tedesca, cinese e russa. Ma quando si tratta di Ucraina, quando si tratta di Egitto, quando si tratta di Turchia, parla di libertà”. Sono parole dure e minacciose quelle pronunciate da Erdoğan in un comizio tenutosi nei giorni scorsi ad Istanbul, e aggiunge: “Se non obbediscono [Facebook e YouTube, nda] alle nostre leggi, faremo quanto necessario… Nessuno può violare la nostra privacy in nome della libertà”.

A pochi giorni dalle elezioni amministrative, che si stanno svolgendo nel Paese oggi, 30 marzo, il Premier ha scelto di utilizzare il pugno di ferro contro Twitter: “Sradicheremo Twitter. Non mi interessa quello che potrà dire la comunità internazionale. Vedranno così la forza della Turchia”. E così, la BTK/TIB, insignita da poco di poteri straordinari (grazie ad una legge sul controllo del Web definita “Legge bavaglio” dall’opposizione), ha bloccato gli accessi al sito di microblogging.

Ma cosa ha portato il governo turco a prendere questa decisione così drastica ed impopolare? In primo luogo, le voci di corruzione circolate a dicembre, portando alla cosiddetta “Manipulite turca” che, tra l’altro, ha visto coinvolto il figlio del Premier stesso e che ha portato all’arresto dei figli di tre Ministri vicini al Premier, si erano diffuse grazie ai numerosi “cinguetii”, che avevano portato alla pubblicazione di telefonate compromettenti.

Non solo: un altro scandalo ha tormentato il Leader turco alla vigilia delle elezioni, ed anche in questo caso è la voce di Twitter a levarsi tra tutte. È qui infatti che è circolato l’annuncio di un video a luci rosse che vedrebbe per protagonisti Erdoğan e Dafne Samyeli, giornalista televisiva da tempo nota per essere la sua amante. Un filmato, questo, che potrebbe in realtà non esistere, dato che probabilmente sarebbe già stato pubblicato, twittato e postato, facendo il giro del mondo e mettendo in imbarazzo un politico che per anni ha usato la carta dell’osservanza della religione e della moralizzazione dei costumi per ottenere consensi.

Secondo Kemal Kilicdaroglu, leader dell’opposizione, Erdoğan è pronto a tutto pur di restare al potere ed insabbiare le inchieste anti-corruzione, definite dallo stesso Premier un “tentativo di colpo di stato” da parte degli ex-alleati della confraternita islamica di Fetullah Gulen.

Il blocco del social network, definito come “il falò dei libri del 21° secolo”, non ha però intimidito il popolo del web, che già pochi minuti dopo il blocco, ha invaso il web con elenchi di DNS alternativi che potevano aggirare il divieto. Lo stesso Jack Dorsey, cofondatore di Twitter, ha inviato un messaggio agli utenti turchi, nel quale dava loro indicazioni su come aggirare il blocco: consigliava, infatti, di inviare SMS attraverso gli operatori telefonici Avea e Vodafone (al numero 2444) e Turkcell (al numero 2555), scrivendo START più il testo del tweet che si voleva pubblicare.

Dopo solo un giorno, i Google DNS risultavano anch’essi bloccati, suscitando proteste e reazioni a fronte di quella che sembra profilarsi come una vera e propria battaglia per il controllo della rete.

Lo stesso Presidente della Repubblica Abdullah Gül, violando il blocco imposto dal Premier, ha denunciato l’azione di censura proprio via Twitter. “Una chiusura totale dei social media è inaccettabile. Inoltre, come ho detto altre volte, è tecnicamente impossibile bloccare completamente mezzi di comunicazione come Twitter. Spero che questa situazione non duri a lungo”. Gül ha dichiarato di aver preso personalmente contatti con Twitter per cercare di risolvere il problema e ribadendo la volontà di riaprire l’accesso al sito entro pochi giorni.

Le reazioni internazionali al blocco sono state pressoché immediate. Il Commissario Europeo per le nuove tecnologie, Neelie Kroes, ha condannato l’azione, definendo l’interdizione di Twitter un gesto “… senza fondamento, inutile e vile. Il popolo turco e la comunità internazionale vedranno questo come censura. Cosa che davvero è”.

Anche il Commissario all’Allargamento Stefan Fule ha espresso su Twitter il proprio disappunto, scrivendo che “Essere liberi di comunicare e scegliere liberamente il mezzo per farlo è un valore fondamentale dell’UE”.

“Siamo preoccupati che il blocco di Twitter per decisione dell’Authority sulle telecomunicazioni sia incompatibile con gli obblighi internazionali presi dalla Turchia in materia di diritti umani”, ha affermato il portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Rupert Coville. E ha ricordato come già il mese scorso l’ONU avesse espresso la propria preoccupazione per la situazione che si stava profilando in Turchia, in seguito all’adozione di una legge che facilitava il controllo dei dati degli utenti e la chiusura dei siti Web, misure, secondo Coville, che andavano a ledere la libertà di espressione ed il diritto alla privacy.

Il 26 marzo, i vertici di Twitter hanno presentato ricorso presso alcuni tribunali turchi contro il blocco imposto dal Governo in tutto il Paese. I vertici, infatti, hanno ammesso di aver bloccato l’account su richiesta delle autorità turche (decretando, così, il primo caso di censura basata sul criterio geografico della storia del social network), ma dopo pochi giorni, hanno visto decretare il blocco completo. “In questo periodo siamo stati impegnati in un confronto con le autorità di Ankara per ascoltare le loro preoccupazioni, per informarle su come funzionano la nostra piattaforma e le nostre politiche, per cercare di arrivare ad una soluzione che fosse soddisfacente per tutte le parti in causa.” – ha commentato il Consigliere generale di Twitter Vijaya Gadde – “Ma tutt’ora i milioni di cittadini turchi che usano Twitter per far sentire la loro voce si vedono negare la possibilità di farlo. Così oggi abbiamo presentato a diversi tribunali del Paese i ricorsi sui quali abbiamo lavorato negli ultimi giorni con il nostro avvocato indipendente turco, per sfidare il divieto e unirci ai giornalisti, agli esperti di diritto, ai semplici cittadini e alla comunità internazionale nel chiedere formalmente che la messa al bando venga rimossa”.

La corte amministrativa di Ankara, in attesa che anche la Corte Costituzionale turca si pronunci, ha ordinato la sospensione del blocco. Non è ancora chiaro se il governo turco intenderà adeguarsi a tale sentenza entro 30 giorni o se presenterà ricorso, anche se il Vicepremier Bulent Arinc ha commentato “Rispettiamo le decisioni della Corte, è ciò che ordina la nostra Costituzione. Potrebbero non piacerci, ma le rispettiamo. Se questa decisione è corretta… allora ciò che l’Autorità per le Telecomunicazioni della Turchia dovrà fare è ovvio”.

Ad oggi, però, il blocco non è ancora stato rimosso dalle autorità governative. Anzi, sembra che anche YouTube abbia subito la stessa sorte di Twitter, lo scorso 27 marzo. La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso sembrerebbe la pubblicazione di una registrazione di una conversazione su un possibile intervento in Siria avvenuta fra alcuni dirigenti turchi, tra i quali spiccano il Ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il Capo dei Servizi Segreti Hakan Fidan ed il Vicecapo di Stato Maggiore Yasar Guler. L’autenticità di quanto pubblicato non è stata verificata, tuttavia è stato sufficiente a far scattare la reazione di Erdoğan, che ha denunciato l’“ignobile” atto e promesso di inseguire i responsabile “fin nelle loro tane”, puntando il dito, anche in questo caso, contro gli ex-alleati, ora nemici numero uno, della confraternita islamica di Fetullah Gulen.

Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni, il destino della voce della Turchia dipenderà molto dall’esito delle elezioni del 30 marzo: solo nei prossimi giorni sapremo se i social media potranno ancora coesistere pacificamente con le autorità turche o, piuttosto, se dovranno far fronte ad un muro fatto di censura ed oscuramento.

Quel che è certo, è che non c’è in gioco solo la popolarità dei principali social network in Turchia, ma il destino stesso della libertà di pensiero e di opinione in un Paese che, negli undici anni di “regno” di Erdoğan tali diritti fondamentali hanno subito più e più volte battute d’arresto che, al giorno d’oggi, non possono lasciarci indifferenti.

Elisa Bertacin

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