Davide contro Golia: la guerra di Israele contro i paesi arabi nel 1948. Mito o realtà?

= Parte V- Valutazioni generali e conclusioni =

 

 

Il quadro generale

 

Quelle che si sono scontrate sul campo non erano affatto due forze eguali.

Politicamente, la realtà ebraica poteva contare su una condiscendenza dei paesi vincitori della guerra appena terminata, sia per identità culturale europea, e quindi occidentale, sia per l’orrore della scoperta dei campi di sterminio e la simpatia che accompagnava la popolazione ebraica. Una serie di agganci con organizzazioni europee ed occidentali di tutti i tipi, dall’estrema destra all’estrema sinistra, causa la poliedricità delle formazioni politiche ebraiche, consentiva, inoltre, un contatto che, come si è visto, spaziava dai reduci della X^ MAS e dei fascisti italiani, al rapporto diretto con le stanze del Cremlino; senza poi dimenticare il ruolo giocato sui vari tavoli, britannici, francesi e statunitensi, promettendo e garantendo sviluppi ed obiettivi comuni laddove fosse stato costituito uno stato ebraico forte ed efficiente.

Dall’altra parte, vi erano i paesi arabi ancora sotto tutela britannica e che avevano come obiettivo principale anzitutto la liberazione dalla invadente e condizionante presenza inglese, laddove anche i rapporti di forze interne erano suddivisi fra l’interesse al legame con la corona britannica e l’indipendenza. Egitto e Transgiordania sono gli elementi chiave di questa struttura che cadrà, parzialmente, solo molto più tardi; per difendere questa impostazione gli inglesi si scontreranno con gli israeliani allorquando questi ultimi tenteranno di mettere a rischio la struttura egiziana che controllava il canale di Suez, vitale per la Gran Bretagna, arrivando a scontri aerei con la novella forza aerea israeliana.[1]

Gli interessi arabi erano visti in una prospettiva del tutto interna ai rapporti fra le nazioni o dinastie dell’area. La percezione delle società occidentali di popolazioni autoctone, di paesi abitati da indigeni, era pressoché sconosciuta; quei territori erano stati parte della seconda guerra mondiale, e delle campagne nel deserto di forze militari occidentali e non. Sebbene tutti conoscessero el Alamein o Tobruk, pochi conoscevano le popolazioni che abitavano quelle aree. E la percezione della Palestina e del popolo palestinese era ancora più sfumata per non dire inesistente nella coscienza collettiva o politica.

Pur conoscendo gran parte della storia e del pensiero politico sionista ed ebraico, quasi nulla, ancora oggi, sappiamo del movimento nazionale palestinese che potremmo far risalire a Yusuf Diya al-Khalidi, eletto a cavallo del 1870-80, ricoperto l’incarico di deputato eletto nelle province siriane presso il parlamento Ottomano, già sindaco di Gerusalemme e fiero oppositore dello stesso sultano. La portata storica di tale personaggio all’interno del contesto palestinese è importantissima, avendo egli avuto già nel 1899 uno scambio di opinioni a mezzo lettera con Herzl sul problema dell’immigrazione ebraica in Palestina e sulla politica del sionismo. Si può obiettare, come fanno alcuni critici israeliani, che voler dare alle parole di Diya un’interpretazione di “nazione palestinese” è una forzatura, in quanto all’epoca lo stesso parlava come rappresentante di un’unità amministrativa chiamata Balad al-Sham (Siria), e su questo non si possono fare opposizioni.[2] Ma quello che qui importa è che politicamente il peso della realtà araba in generale era praticamente nullo; la stessa decisione delle UN relativa alla partizione delle terre fra un nascente stato ebraico ed una realtà palestinese, da cui sono derivati i vari conflitti del 1948, sono essenzialmente scaturiti dalla non conoscenza di una realtà. Si è visto, analizzando le cause dell’embargo a senso unico, come le presenze ebraiche nella vita quotidiana, politica e sociale delle nazioni vincitrici del secondo conflitto mondiale ed in generale di quelle europee abbiano creato un movimento di opinione, di simpatia, di conoscenza del problema, di pressioni politiche. Dall’altra parte, il nulla. L’unica pressione che avrebbe potuto essere esercitata era quella prospettata dal principe saudita Feisal, ministro per gli affari esteri saudita, che proponeva, già all’epoca, l’uso del petrolio come arma strategica; ma fu bloccato nella sua proposta dal re, il padre ʿAbd al-ʿAzīz Āl Saʿūd, che, non volendo mancare alla parola data a Roosevelt e impegnato ad ottenere quanti più soldi possibili per consentire alla propria dinastia di regnare e prosperare, non vide l’importanza strategica dell’arma di cui disponeva. Scrive Hart, riferendosi a Feisal: ” In the privacy of his own mind his logic went something like this. The zionists have awesome influence in America, because of Jewish money for election campaign funds and the organized Jewish vote. The Zionist are playing their card ruthlessly. We should play our only card – our oil – with equal ruthlessness. Feisal had discussed use of the oil weapon with his father; but Ibn Saud refused to consider such a strategy. <<The problem is Palestine not petroleum>> he said. Apart from the fact that he had given his word to President Roosevelt, Ibn Said was not prepared to risk an interruption to the escalating flow of money from oil that was enabling him to develop his country and create a ruling dynasty that none would ever be able to challenge. The founding father of Saudi Arabia had many strength and virtues; but he did not possess Feisal’s understanding of how cards had to be played in a world in which politics was concerned only with interests, and short term interest in that”[3]

L’unica arma strategica di cui avrebbe potuto disporre l’intero mondo arabo era nelle mani di una dinastia impegnata sopratutto a contrastare quella Hashemita e non se ne fece nulla.

E già qui si può parlare di una Davide e Golia, ma al contrario.

 

 

Il piano Militare

 

Se questa era l’impostazione dal punto di vista politico e culturale, sul piano militare le cose non potevano essere diverse.

Si è già visto come, da un punto di vista numerico, le cose stessero ben diversamente da quanto la propaganda e la creazione di miti ci ha fatto credere. Numericamente le forze ebraiche prima ed israeliane poi sono sempre state come minimo alla pari con quelle degli eserciti arabi nella fase iniziale del conflitto per sopravanzarle in seguito; occorreva solo del tempo affinché le macchine della leva obbligatoria si mettessero in moto e andassero a pieno regime. Cosa che fu fatta guadagnando tempo, attraverso la cessione di territorio non possibile da controllare, il sacrificio di posizioni non sostenibili che avrebbero creato problemi sia per la difesa che per l’approvvigionamento, e le tregue che permettessero ai supporti logistici di fornire mezzi materiali e strumenti per poter poi travolgere le deboli forze arabe, prive di qualsiasi piano organizzato, come conferma lo stesso Glubb Pasha, allorquando scrive a proposito di un piano militare arabo congiunto: “ There had been no Joint planning of any kind. The Israelis subsequently claimed knowledge of an Arab master plan, combining the strategy of all the Arab armies. No such plan existed, nor had any attempt been made to prepare one”[4]

A parte i piani o meno, la palese e chiara divergenza di obiettivi politici, da sola giustificava la debolezza araba; come scrive Shlaim, quando la Legione araba avrebbe potuto dare una mano alle forze egiziane attaccate dagli israeliani, le disposizioni del suo comandante in capo, Glubb Pasha, furono quelle di non intervenire essendo considerate al pari dei responsabili palestinesi, ostili al pari degli ebrei.[5]

Sul piano della preparazione militare si è già trattato e si è già visto quale e quanta fosse la differenza di preparazione fra il personale militare ebraico e quello arabo, eccezion fatta per la Legione Araba giordana.

Si potrebbe allora argomentare del perché i paesi arabi, ben sapendo di essere inferiori nella lotta contro il gigante Israele, si siano decisi a usare la forza militare. Numerose sono le spiegazioni di questa che potrebbe sembrare a prima vista follia, ma ritengo che la spiegazione migliore ce la possa dare ancora una volta Glubb Pasha, che ricorda come la palese ingiustizia compiuta dalle Nazioni Unite nel suddividere un territorio non tenendo in alcun conto le realtà immanenti, la presenza araba rispetto a quella ebraica e la recentissima introduzione nel giro di due anni in Palestina di un notevolissimo numero di profughi che aveva alterato i rapporti di presenza preesistenti, e non di poco, aveva minato qualsiasi fiducia in quello strumento che erano le Nazioni Unite; e, considerato che gli Arabi si ritenevano nel giusto, non rimaneva loro che il ricorso alle armi. Che poi nelle varie dirigenze arabe, di fatto tutte ancora dipendenti da una struttura coloniale, ma – sopratutto – legata agli interessi coloniali, ben pochi fossero in condizioni di vedere la realtà dei fatti, questa è un’altra storia. E anche qui vanno analizzate le responsabilità internazionali, considerato che, come accadrà più tardi nelle varie lotte di liberazione che interesseranno il Medio Oriente, le più interessanti dirigenze saranno decapitate dalla difesa degli interessi coloniali, come era per l’appunto successo in Palestina nel corso della grande rivolta araba del 1936.

 

 

Considerazioni finali

 

E indubbio che la nuova ondata di storici israeliani che ha avuto la capacità di leggere e interpretare numerosi documenti resi pubblici, senza lasciarsi influenzare dai condizionamenti ideologici e religiosi e, sopratutto, da un ambiente sociale poco incline a mettere in discussione tali miti che ne costituiscono il fondamento spirituale, è stata distruttiva di dette impalcature e di una parte essenziale della storia fondante del sionismo. Essi sono stati, altresì, estremamente utili per meglio comprendere la realtà in una parte del mondo nella quale ideologie, interessi geopolitici e ignoranza culturale, hanno giocato un ruolo determinante, fuorviando o determinando preconcetti, idee e capacità critiche.

Gli stessi autori delle ricerche, gli storici che hanno dato questo notevolissimo contributo nel riscrivere la storia di una parte importante del mondo, hanno subito le conseguenze sulla loro pelle. Shlaim e Pappè, accusati a più riprese di essere poco nazionalisti e di essere dei traditori, hanno dovuto lasciare le loro cattedre, in assenza di difesa da parte del loro stesso mondo universitario (come se la scienza e la ricerca potessero essere al servizio di una ideologia, cosa che purtroppo è avvenuta spesso ed anche nel recente passato e nell’attuale presente). Altri, come  Teddy Katz, sono stati persino tirati in giudizio presso tribunali e/o abbandonati dalle strutture universitarie. Il resoconto del dramma umano e sociale passato sia da Katz che da Pappè è riscontrabile nel libro “Controcorrente” scritto proprio dallo stesso che, abbandonata l’Università di Haifa, si è dovuto di fatto rifugiare in Gran Bretagna, insegnando presso l’università di Exeter, così come Avi Shlaim insegna presso il St. Antony’s College di Oxford. L’unico rimasto in Israele è Benny Morris che ha ritrattato gran parte delle tesi sostenute, affermando che era inevitabile che la creazione di uno stato ebraico dovesse portare allo sradicamento di oltre 700.000 palestinesi.

Né si possono dimenticare alcune lezioni della guerra fra Israele ed i paesi arabi. Le cui conseguenze sono ancora oggi visibili e si protrarranno per lunghissimo tempo.

La dichiarata e manifesta vicinanza ad Israele del mondo occidentale, nella guerra del 1948 – e mi riferisco solo alla seconda parte del conflitto, ma analogo discorso ed anzi più incisivo ancora per la prima parte – ha di fatto evidenziato agli occhi dell’intera opinione pubblica dei paesi arabi il ruolo attribuito alla nuova nazione dalle potenze mondiali; essere il cane da guardia degli interessi occidentali nell’area. Questa visione è inoltre compartecipata da numerosi esponenti dalla sinistra ebraica che vedono nella fondazione ed espansione dello stato di Israele la longa manus del colonialismo ed imperialismo occidentale contro i popoli che cercano di scrollarsi di dosso tale fardello. Possiamo bollarle come illazioni, ma va sempre visto come, rispetto a fatti accaduti, la percezione sia diversa dalle due parti coinvolte. Giova ricordare come la prima crociata venne vista dagli occhi dei cristiani provenienti dall’occidente e dagli occhi dei locali di qualsiasi religione essi fossero, come ci riporta Amin Maalouf nel suo Le Crociate viste dagli Arabi. Indubbiamente, e lo abbiamo visto, nel 1948 si è giocata una partita impari, in cui vi erano numerosi interessi di attori esterni a favore della nascita e sviluppo dello stato israeliano in una nuova cornice mediorientale, dove la guerra appena finita aveva dimostrato, fra l’altro, l’importanza strategica dell’area dal punto di vista energetico. Nessuna potenza vincitrice gradiva una realtà di difficile controllo e Israele metteva tutti d’accordo in quanto, mentre compensava le coscienze europee ed occidentali per avere ignorato volutamente i massacri che in nome di una folle ideologia si compivano contro gli ebrei e contro coloro che comunque erano considerati “untermenschen”, d’altra parte stabiliva in un territorio popolato dagli arabi, una realtà di tipo e stampo occidentale, evitando così una ristrutturazione del Medio Oriente che andasse al di là di quanto previsto; e se necessaria, una verifica di quanto qui affermato si ha nel momento stesso in cui, proprio alla fine della guerra del 1948, Gran Bretagna e USA costringono (e non sarà la prima volta) Israele a ritirarsi da una parte dei territori che aveva militarmente occupato, giudicandola capace di alterare il ruolo a lei destinato.

 

La distruzione dei miti è essenziale nella ricerca e nella crescita personale e culturale, in particolare allorché tali miti bloccano qualsiasi crescita, sia individualmente che collettivamente; e, spesso, ergersi contro di essi, cercare delle spiegazioni, ancorché contrarie alla credenza comune, indicare nuove strade, può indurre a combattere una battaglia culturale che costerà in termini di sacrificio personale, in quanto si verrà osteggiati da una parte della società che rifiuta di prendere coscienza e di comprendere, ottenebrata e in adorazione del totem; sino a quando, come nella favola di Andersen, ci si accorgerà che il re è nudo. Il dramma è che spesso se ne prende coscienza solo dopo che tante vite sono state inutilmente sacrificate.

 

A. G. Monno



[2] Dalla Tesi Universitaria su “HAMAS: NASCITA E SVILUPPO” discussa dall’autore presso l’Università di Trieste in occasione del conseguimento della laurea in Scienze Politiche.

[3] Alan  Hart, Zionism. The real enemy of the Jews, vol II pag 31.

[4] John Bagot Glubb, A soldier with Arabs”, pag 93.

[5] Rogan & Shlaim, The war for Palestine. Rewriting the history of 1948, pag. 99.