Con il volgere della fine dell’anno solare il Circolo di Studi Diplomatici non nega ai suoi soci ed amici un appuntamento di elevato livello.
Il tema del convegno di quest’anno, interessante come al solito, verteva su “La politica mediterranea e mediorientale dell’Unione Europea dopo le primavere arabe”.
Come cornice, la stupenda sala adornata di arazzi ed affreschi degni di un museo, cuore del primo piano di Palazzo De Carolis, palazzo nel cuore di Roma, di proprietà di Unicredit.
Tra i partecipanti, ambasciatori esperti e di lunga e significativa militanza in Paesi oggi oggetto di discussione o impiegati in Organismi internazionali di vertice. Tra essi, Roberto Nigido, già Rappresentante Permanente presso l’Unione Europea; Luigi Guidobono Cavalchini Garofoli, già Rappresentante Permanente presso l’Unione Europea; Laura Mirachian, già Ambasciatrice a Damasco e rappresentante italiana presso le Nazioni Unite a Ginevra; Claudio Pacifico, già Ambasciatore a Tripoli e a Il Cairo; Giovan Battista Verderame, già Ambasciatore ad Algeri; Mario Maiolini, già Ambasciatore a Riad; Maurizio Melani, già Ambasciatore a Baghdad; Sandro De Bernardin, già Ambasciatore a Tel Aviv e Direttore Politico del Ministero Affari Esteri; Ferdinando Salleo, già Segretario Generale del Ministero Affari Esteri.
Ha arricchito la giornata la presenza del Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato, Pierferdinando Casini; Jacques Andréani, già Ambasciatore di Francia a Roma, membro della Société d’Histoire Diplomatique; Alberto Negri, Editorialista del quotidiano “Il Sole 24 Ore”; Khalid Chaouki, Membro della Camera dei Deputati; Tewfik Aclimandos, Professore di Storia del Mondo Arabo a Il Cairo; Massimo Caneva, professore di “Development and Crisis” presso la Sapienza di Roma e segretario generale del Master Unesco Israele-Palestina.
Credo che l’aspetto più interessante degli incontri promossi dal Circolo di Studi Diplomatici sia il livello elevato e schietto al quale vengono trattati i temi internazionali. Infatti, essendo il pubblico prevalentemente composto di diplomatici, giornalisti e alti funzionari dello Stato, in particolare della Farnesina, tutti ampiamente esperti in materia di politica internazionale, i contenuti delle esposizioni sono di livello elevatissimo, di profondità impossibile al cospetto di un pubblico ibrido e non completamente e perfettamente documentato, di inusitata schiettezza, quale è possibile solo al cospetto di specialisti, a lungo interpreti e ispiratori della politica estera nazionale.
Omeganews è presente con il suo Direttore.
I temi trattati sono molti e trattano tutti gli aspetti gli aspetti maggiormente critici del Mediterraneo.
La cornice storica è molto ben tratteggiata dall’intervento dell’amb. Luigi Guidobono Cavalchini Garofoli, un passato a Parigi, da Ambasciatore, e a Bruxelles, quale Rappresentante Permanente presso l’Unione Europea. Le sue sono riflessioni sulla ripercussione della globalizzazione sulle vicende mediterranee e mediorientali alla luce anche degli sviluppi più recenti. E molto chiaramente sono stati raccontati i percorsi dei principali paesi rivieraschi nella marcia di avvicinamento verso la modernità, lo sviluppo economico e la democrazia, tratteggiati efficacemente da ex ambasciatori in ognuno di essi.
Come immaginabile, le primavere arabe, l’Isis e le vicende libiche hanno polarizzato l’attenzione generale. Le colpe delle dirigenze locali sono state passate al microscopio e sono scaturite analisi originali quanto valide e si è puntato il dito contro le radicali contrapposizioni infra-islamiche, la persistente frattura del conflitto israelo-palestinese e la insufficiente e contraddittoria incidenza delle politiche europee.
Non sono state risparmiate critiche alla politica europea nei confronti della comunità dei Paesi mediterranei non europei ed alla politica rigida e irresponsabile sia di Israele, sia di chi ne appoggia e asseconda l’atteggiamento intransigente a difesa della propria esistenza e sicurezza. Israele che minaccia di attaccare l’avversario di turno, potenziale minaccia, anche fuori dei suoi confini.
La maggior parte delle valutazioni, ancorché scaturite da analisi dotte accompagnate da esposizioni schiette circa le responsabilità europee ed occidentali in generale, si possono iscrivere in quadro di ordinaria conformità ideologica.
Abbiamo avuto la fortuna di assistere ad interventi che hanno autorevolmente evidenziato l’inadeguatezza del declinante ruolo occidentale a fronte di tre veementi sfide che irrompono nello scacchiere mondiale: il risveglio del fenomeno radicale islamico, con il corredo di questo jihadismo estremo interpretato dall’Isis; l’aggressività della Russia e la crisi dei rapporti con l’Ucraina, di cui si avevano indizi già dal 2008, e forse anche prima; la forte spinta dei Paesi emergenti, in particolare Cina, ma anche Russia, India ed altri quaranta paesi circa, che premono per la riorganizzazione dell’organizzazione delle Nazioni Unite e per la rinegoziazione degli assetti mondiali economici e finanziari. Abbiamo ascoltato pronunciare una sentenza di condanna senza appello dell’accordo di Bretton Woods del luglio 1944, attraverso il quale, per la prima volta nella storia dell’uomo, si pensò a un ordine monetario totalmente concordato, per governare i rapporti monetari di stati nazionali indipendenti. E uguale condanna dell’accordo di Marrakesh del 15 aprile 1994, che, attraverso l’approvazione delle regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo (acquisizione e distribuzione di servizi; regolamentazione dei settori agricolo, tessile e sanitario; rafforzamento della proprietà intellettuale; abbattimento degli ostacoli al libero scambio delle merci; risoluzione delle dispute internazionali), diede in pratica l’avvio al processo di mondializzazione, consentendo di addivenire alla liberalizzazione di tutte le attività del genere umano, eccettuata la libera circolazione delle persone. Per inciso, osserviamo come per effetto combinato dei due trattati di Bretton Woods e di Marrakesh, la forbice fra i valori economici fondamentali dei paesi industrializzati e quelli poveri dopo la loro entrata in vigore si è ulteriormente allargata, anziché ridursi. Non sono mancate forti critiche alla pretesa di esportare la democrazia, come fosse uno dei prodotti oggetto dei flussi del commercio mondializzato. Sono, altresì, emerse forti critiche alla natura “commerciale” delle relazioni internazionali ispirate dall’occidente, che investono senza ombra di dubbio il ruolo turco nelle vicende mediorientali, la contorta questione egiziana, il sostegno occidentale ed europeo dei nuovi regimi scaturiti dall’aborto delle primavere, l’inganno della questione iraniana, cartina al tornasole dell’interesse a vendere armamenti. E siamo stati testimoni della dura critica dell’attuale politica estera italiana, altalenante tra l’opportunità di appoggiare i nuovi leader arabi, l’abitudine a fornire timido appoggio, e senza sporcarsi le mani, alle missioni internazionali, quella di contrastare – ma senza la dovuta energia – certe mire sulla Cirenaica, l’attitudine a trincerarsi sempre dietro una comunità internazionale che continua imperterrita a perseguire solo i propri interessi.
Spiace aver dovuto notare ancora una volta, pur in un consesso così qualificato e talvolta capace di valutazioni innovative e contro corrente rispetto al passato, che si continua a parlare di Mediterraneo come di una emanazione europea, in funzione della politica europea, come conseguenza della buona o della cattiva politica europea, o occidentale.
Siamo, viceversa, convinti che il futuro politico dell’area mediterranea, la sua pacificazione, la soluzione delle crisi al suo interno e la crescita socio-economica di vaste aree depresse al suo interno, non possa essere trovata al di fuori dei suoi confini. Si pensi, ad esempio, ad una federazione politica di tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Di una comunità che fa del suo mare il fulcro delle proprie attività, nella quale il progresso parallelo dei componenti ed il reciproco sostegno svuota automaticamente il drammatico problema dell’emigrazione clandestina di migliaia di persone che, non più disperate, trovano nel loro stesso paese lo stimolo per impegnarsi e progredire. Di una comunità che decida di regolamentare senza interventi esterni, ancorché nel rispetto dei trattati internazionali, le attività possibili sulla superficie del suo mare, nel suo spazio aereo e sotto la sua superficie. Di una federazione composta di Paesi la cui pacificazione sia uno stato ed un processo di maturazione soggettiva, il frutto di una ritrovata coesistenza, un interesse proprio e non solo la convenienza per gli equilibri mondiali. Che non sia più <consumatore finale> di beni e prodotti di multinazionali esterne al proprio contesto geografico. Che non debba subire accordi di cooperazione o di pace dipendentemente dalla volontà dei “benefattori” esterni. Che si faccia promotrice di qualche passo indietro rispetto a quanto previsto dagli accordi di Bretton Woods e della rinegoziazione tra le Nazioni (ma anche unilaterale, se necessario) delle risultanze dell’accordo di Marrakesh. I danni che queste Nazioni hanno fatto e continuano a fare in Mediterraneo sono indescrivibili. Il disastro politico della sponda sud, che si vorrebbe resettare a mezzo di processi vari chiamati ora arabizzazione, ora primavere arabe, ora, più recentemente, risveglio arabo, troppo spesso tinti del rosso del sangue delle tante vittime, innocenti e non. L’origine di tutto ciò? E’ semplice, la politica imperialista dell’Occidente. Si legga, in proposito, un significativo brano di David FROMKIN, studioso, storico e cattedratico americano, tratto dal libro <<Una pace senza pace>>, pubblicato da Rizzoli nel 1992, (p. 638-639): «Il Medio Oriente è diventato ciò che è oggi perché le potenze europee vollero ridisegnarlo, e nel contempo Francia e Gran Bretagna non seppero garantire la durata delle dinastie, degli stati e dei sistemi politici da esse instaurati. Durante e subito dopo il primo conflitto mondiale Gran Bretagna e Francia distrussero irrevocabilmente il vecchio ordine della regione; il dominio turco del Medio Oriente arabo subì un colpo dal quale non avrebbe più potuto riprendersi. Per riempire il vuoto che ne seguì crearono nazioni, formarono governi, misero sul trono monarchi, tracciarono frontiere e insomma cercarono di formare un sistema di stati come ve ne sono in tante parti del mondo, ma non tennero nel debito conto le molte forme di opposizione locale a tali decisioni». Se ci si fa caso, è ciò che va ripetendo l’emiro nero, Al Baghdadi, che aspira all’annullamento degli effetti divisori dell’accordo segreto Sykes-Picot, tra i governi del Regno Unito e della Francia, che definiva le rispettive sfere di influenza nel Medio Oriente in seguito alla sconfitta dell’Impero Ottomano nella Prima Guerra Mondiale.
Si ha motivo di credere nella capacità dell’area del Mediterraneo di riprendersi e di risalire, se coesa, nella scala delle comunità mondiali. Ed è verosimile credere che ciò possa avvenire attraverso un autentico “processo di empowerment” della regione, inteso come «il processo permanente per il quale un individuo, una popolazione, una comunità, un’impresa, una regione o un paese acquisiscono e assimilano la conoscenza, apprendono volontariamente come trasformarla per renderla coerente con le proprie aspirazioni, la propria identità, il proprio patrimonio naturale e culturale, la propria traiettoria storica e il proprio sviluppo, e sanno come trasmetterla liberamente anche a distanza ad individui e popolazioni che hanno in comune simili aspirazioni», (Francesco di Castri, Empowerment, edito da Fondazione Marenostrum nel 2005).