di Nina Meloni
Già da diverso tempo la mia curiosità antropologica mi ha portata sui social media. Comprendere i nuovi modelli di socializzazione, di interazione, di costruzione di gruppi, era come andare sul campo. Un terreno da scoprire, con linguaggi diversi, con proprie regole, con popolazioni da osservare.
Chiunque possieda un livello minimo di confidenza con il mondo informatico e di internet sa che ciò che viene messo on line, “postato” sui social media, resta per sempre. Non occorrono nemmeno software particolarmente sofisticati per andare a caccia di notizie, ma solo un po’ di pazienza. Del resto, i social si basano proprio sul principio della visibilità, del comunicare tutto, ogni cosa, come in una specie di bulimia di attenzioni. Cosa si mangia, con chi si è, cosa si è fatto (o si sta facendo), cosa si guarda. Se si condivide una notizia è per far sapere al mondo virtuale qualcosa di sé: si è sensibili all’estinzione della tigre (e magari contrari all’accoglienza di migranti); si è vegani; si tifa per una squadra di calcio; si è a favore o contro qualcosa o categorie di individui; si ascolta quel cantante;… e così via. Tutto è condiviso in una “piazza virtuale”: la buona azione non è più discretamente anonima, ma viene raccontata (se non sbandierata); ciò che avviene nell’intimità delle case, che un tempo era buona regola non raccontare, è documentato quasi minuto per minuto; i propri stati d’animo – prima decisamente parte di una sfera privata – diventano di dominio pubblico; eventi che non molti anni fa scandivano processi condivisi, ma senza grande scalpore, ora sono narrati con un’enfasi sproporzionata. I bambini al loro primo giorno di scuola, ad esempio, sono stati documenti dai propri genitori con la stessa apprensione e commozione che, un tempo, accompagnava i soldati che partivano per il fronte (e senza cellulari, palmari e social media!).
Le pagine facebook delle persone, dunque, racchiudono e raccontano la vita. Sappiamo che Anna, ad esempio, ha un cane, è fidanzata, è stata in vacanza in Grecia e di lei conosciamo i volti e i nomi dei suoi amici più cari, il suo lavoro, dove abita, cosa la fa soffrire e cosa la intenerisce e numerosi altri dettagli alla portata di chiunque, nel mondo.
Ho scelto di “recensire” un post perché un’altra caratteristica dei social è di essere aperti, democratici, e pertanto, chiunque può scrivere. Chiunque è – condividendo continuamente i propri pareri – un opinionista, un giornalista, un sociologo, un economista, un esperto di geopolitica, l’editore di sé stesso. Chiunque, inoltre, può creare una “pagina” su un argomento, promuoverla, e disseminare tra i più ingenui, tra i meno preparati, notizie potenzialmente molto pericolose. Non ci sono filtri. Il giovane che, fin dalla più tenera età, è abituato a navigare senza controlli (e per questo motivo viene definito un “nativo digitale”), risponde ad uno dei profili più sensibili e vulnerabili per l’attecchimento e la diffusione di alcune idee.
Qualche sera fa mi dedicavo alla etnografia dei social media e, dunque, navigando sul vasto terreno di studio che è facebook, mi sono imbattuta in un post che piace ad oltre seicento persone ed è stato condiviso, e pertanto fatto proprio, da oltre mille.
Questi mille rendono pubblico, divulgano e quindi fanno conoscere (“postare” è una italianizzazione dell’inglese to post, ovvero pubblicare in italiano) il proprio pensiero su Israeliani e Palestinesi, condividendo quanto viene diffuso in una pagina. Il testo che fanno proprio recita: “In tutte le società esiste il male. Il problema sorge quando non rappresenta un’eccezione, ma una cultura”. Sotto, viene riportata una tabella che, probabilmente, vuole dare persino una parvenza di scientificità ai contenuti, dal titolo “la differenza è culturale”.
Secondo quanto leggiamo, esiste una suddivisione in società migliori e peggiori e alla cultura di un popolo (israeliano), basata sul rispetto, su un profondo senso civico e di giustizia, sulla compostezza, sul valore dato alla vita umana, sarebbe contrapposta quella di un altro popolo (palestinese) che, invece, sembrerebbe privo di freni etici o morali, crudele e ridicolo, malvagio come tratto distintivo: il problema sorge quando il male coincide con una cultura di un popolo.
Ovviamente, una affermazione così importante non è supportata da alcun dato scientifico, da alcuna fonte, da alcuna analisi storica, geopolitica o antropologica. Non ci sono riflessioni su cosa sia il “male”, né definizioni, e su quali organizzazioni possano indicare (ed imporre) cosa sia giusto o sbagliato, cosa bene e cosa male. Il post è lapidario, riportato come una pericolosa verità “a priori”, facile e di impatto, che ha il pregio di diffondere pregiudizi e istigare i più semplici, i più superficiali e i meno preparati, all’odio razziale. È un sintetico manifesto dell’intolleranza. A chi ha creato un messaggio simile e a chi l’ha fatto proprio, non è sfiorato nemmeno per un istante che per “cultura” si intende qualcosa di complesso, un insieme di norme e valori, di usi e costumi, di tradizioni, di Storia e di storie. Che per comprendere un popolo occorrono anni di studi e di approfondimenti, di permanenza sul campo, di conoscenza approfondita della storia, dell’organizzazione sociale, della lingua (o lingue), dell’organizzazione politica, del sistema educativo, di quello economico e religioso.
Questi “pensatori” dei social media sentenziano etichettando come culturalmente inferiore un popolo piuttosto di un altro, senza nemmeno prendersi il disturbo di citare una fonte, anche solo una, magari persino inventandosela, come purtroppo accade spesso.
Scorrendo le foto che presentano e raccontano le persone che hanno espresso il proprio apprezzamento e condivisione scopriamo, curiosamente, numerosi amanti degli animali. Tra i “soli” 600 like, ad esempio, ben 22 hanno una immagine di, o con, un animale, il quale è soprattutto un gatto. Sebbene, in linea generale, questo dato possa rappresentare un indicatore positivo, fa un po’ sorridere la sensibilità nei confronti di altre specie, ma non per i propri simili. Ci sono altrettanti amanti di bambini… e c’è da domandarsi se tale amore escluda quelli palestinesi che, a giudicare dal post, nascerebbero già culturalmente malvagi e desiderosi di morte. Insomma, un ragazzino palestinese suscita meno amore di un gattino! Un certo numero dei mille, inoltre, ha come propria immagine la foto elaborata con i colori dell’arcobaleno della pace: nel loro caso, evidentemente, un arcobaleno che non comprende il popolo palestinese… oppure, semplicemente, è solo uno styling molto trendy acriticamente adottato.
Andando a conoscere più da vicino i 1000, si scoprono persone che dovrebbero essere, per l’occupazione che affermano di svolgere o che si evince da foto, informazioni e notizie, molto molto lontane dall’intolleranza che dichiarano con questo post.
Alcuni religiosi, ad esempio, uno dei quali con tanto di titolo nel nome. Diversi sono gli appartenenti al mondo istituzionale, taluni dei quali ritratti in uniforme. Medici e soccorritori, con tanto di camici e cuffiette nelle foto dei profili; rappresentanti di diverse associazioni e, tra queste, persino due appartenenti ad una nota organizzazione umanitaria internazionale che ha fatto propri i valori fondati sul rispetto dell’altro, chiunque esso sia, senza distinzioni, né graduatorie culturali.
Viviamo nell’epoca in cui ognuno di noi ha il diritto di esprimere le proprie opinioni e di divulgarle e i social media hanno il merito di aver dato voce a tutti. Tuttavia, occorre raccomandare alle organizzazioni, laiche o religiose, ma che nel mondo lavorano per il progresso e per il rispetto dell’essere umano (incluso quello palestinese?), di fare attenzione a ciò che il proprio personale diffonde, anche sulla propria pagina facebook. Alcuni messaggi, come quello preso in esame, possono rappresentare errori di comunicazione, la cui recensione non può che essere molto negativa.
Nina Meloni