di Alberto Osti Guerrazzi
La data del titolo è, ovviamente, scelta non a caso: un secolo dopo, dopo Orwell e il suo 1984, una tragica descrizione dell’universo totalitario, dove la vita si trascina senza speranza e senza pietà.
Boualem Sansal, scrittore algerino nato nel 1949, con il suo romanzo 2084 torna a proporre il tema del totalitarismo e dell’orrore a cui un’utopia portata all’estremo può portare il genere umano; i tempi tuttavia sono diversi, oggi il comunismo e il fascismo sono fenomeni del passato, l’ombra del totalitarismo la proiettano, minacciosa, i radicalismi religiosi, in special modo islamici.
C’è di certo molto dello stato islamico, di Daesh, nel racconto di Sansal, molto della sua violenza e spietatezza contro chiunque si opponga o anche solo non mostri un’adesione piena ai dettami del Gkabul, il libro sacro su cui tutta la religione, la società e la cultura dell’Abistan è incentrata.
Nel romanzo Sansal immagina un mondo dove una terrificante guerra tra nord e sud è stata vinta dal sud, che ha imposto la sua legge a tutto il territorio che controlla, denominato Abistan. Dal nome, Abi, del profeta della nuova religione emersa dal conflitto, la cui professione di fede recita: “Yolah è il solo dio, e Abi è il suo delegato”. Evidentissimo il retaggio islamico (i luoghi della preghiera, da recitare 9 volte al giorno, sono le Mockba) tanto che lo scrittore, che vive con la moglie a Boumerdes, vicino ad Algeri, è stato minacciato da tutta una varietà di fondamentalisti.
Il romanzo prende l’avvio in un gigantesco sanatorio ricavato in una fortezza di montagna, situata in un luogo di difficile accesso e lontana da tutto; in questo sanatorio per tubercolotici è ricoverato Ati, il protagonista. Di solito il tubercolotico muore dopo qualche mese, provato dal freddo, dal cibo povero e scadente, dalla malattia. Ati invece sopravvive e viene rispedito, guarito, a Quodsabad, l’enorme megalopoli capitale dell’Abistan, sede dell’Abigouv, il potere centrale, da dove la Giusta Fratellanza governa lo stato con pugno di ferro: gli stadi sono l’occasione unica di riunione della gente, ma sono riunioni dedicate a gigantesche esecuzioni di massa di criminali e infedeli di vario tipo.
Ati ritorna quindi a casa: nell’anno di ozio forzato in alta montagna ha maturato dei dubbi sul fatto che la società come descritta dal Gkabul sia la migliore possibile; al suo ritorno in città comincerà a manifestare queste sue perplessità ad un paio di amici fidati, con i quali cercherà di conoscere la verità circa l’Abistan e il suo governo, la Giusta Fratellanza; e la verità, che trova in Toz, un membro segretamente eretico della Fratellanza, è che Abi e il suo Gkabul sono strumenti il cui solo fine è permettere a pochi di conservare il potere, con ogni mezzo, un potere fondato sull’ignoranza e la sottomissione. Sola speranza è che il mondo non sia tutto dominato dall’Abistan, ma che vi siamo altri territori e altre culture.
Alla fine delle sue conversazioni con Toz Ati partirà per la montagna, alla ricerca di una ipotetica Frontiera con un altro mondo e, soprattutto, di un’alta società. Diversamente da Orwell, Sansal non chiude del tutto la porta alla speranza di un’alternativa al Potere; anche se nelle pagine finali Ati è lasciato vagare sui monti senza che ci venga detto se abbia o meno trovato la Frontiera, e se questa esista poi davvero.
La parte più bella del romanzo è forse la prima, quando nella descrizione della vita nella fortezza/sanatorio si ha come un’unione di Orwell al Buzzati del Deserto dei Tartari. In seguito il romanzo si perde un po’, alternando parti interessanti ad altre meno; rimane comunque un testo di grande interesse, e una manifestazione importante dell’opposizione di almeno alcuni intellettuali arabi al fondamentalismo, quando non alla religione in toto.
Alberto Osti Guerrazzi