Recensione di Nina Meloni
È recentemente uscito in libreria l’ultimo romanzo del noto scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun.
Tanti sono i temi accennati, che fanno da sfondo alla storia, che accompagnano il lettore nella scoperta del Marocco e della sua evoluzione nel tempo, dalla metà del secolo scorso ai giorni nostri. Lo stesso scorrere del tempo, in realtà, fa da scenografia quasi fosse un personaggio secondario insieme al tema dell’amore, delle tradizioni, della famiglia, della religiosità, del razzismo, del fondamentalismo, della disabilità. Tutto ruota intorno alle vicende di una famiglia, quella di Amir, un commerciante di una delle famiglie di Fès che si diceva fossero discendenti dal Profeta.
La famiglia, dunque, è la protagonista del romanzo e, di volta in volta, attraverso la narrazione delle sue vicende, le si accompagnano altri personaggi.
La prima parte del romanzo è accattivante, seducente come le descrizioni che l’autore utilizza per il Senegal, palcoscenico di buona parte dell’inizio della nostra storia. Proprio in Senegal viene celebrato il “matrimonio di piacere” e, sempre in Senegal, ed in queste pagine di apertura, sono introdotti i temi dell’amore, del razzismo, della tradizione, della religiosità e della disabilità.
Al matrimonio della tradizione, quello che Amir aveva con la marocchina Lalla Fatma a Fès, si affianca quello di “piacere” che, ben presto, si trasforma in scoperta del sentimento dell’amore per Nabou, la donna senegalese. Amir e Lalla Fatma “non si erano scelti e, malgrado questo, dovevano amarsi, fare cioè quello che la famiglia si aspettava da loro” e seguire ciò che era previsto dalla tradizione condivisa e insindacabile. Con Nabou, invece, Amir scopre un altro modo di vivere, di sentire i sentimenti e l’amore (non previsto dalla educazione rigida ricevuta e considerato una debolezza), scopre – in fondo – un altro sé stesso. È sconvolto e, allo stesso tempo, rinasce.
In queste prime pagine il lettore scopre anche un islam molto diverso da quello che i media e i social media ci hanno abituati a conoscere. Amore, pazienza, sacrificio, rispetto, comprensione definiscono la religione musulmana spiegata e vissuta da Amir.
Quando nasce il suo quarto figlio, Karim, affetto dalla sindrome di down, mentre il medico francese chiamato per un consulto consiglia di affidarlo ad un istituto dove non l’avrebbero più visto, “da buon credente Amir accettò il destino e disse: “Se Dio ha fatto nascere questo bambino, avrà avuto le sue buone ragioni; […] Questo bambino ha il suo capitale, avrà la sua vita e io gli starò accanto fino al mio ultimo respiro. Dio è grande”.
Allo stesso modo, per quanto riguarda il tema del razzismo, durante il viaggio verso il Senegal, Amir raccomanda a Karim di essere sempre buono e rispettoso con tutti: “Fai del rispetto e della generosità il tuo criterio di condotta. Le persone qui sono molto sensibili e ti renderanno centuplicato quello che tu gli avrai dato. Sono state talmente maltrattate e umiliate dai coloni, da tutti i bianchi venuti dalla Francia e dal Belgio, che diffidano di quelli con la pelle bianca”.
Infine, per quanto riguarda le donne, quando Nabou dice ad Amir che sa che nell’islam la donna non viene considerata pari all’uomo, lui le risponde che “non bisogna confondere l’islam coi musulmani. L’importante è avere un comportamento corretto e umano. Colui che maltratta una donna non ha bisogno del pretesto della religione per farlo. Ma so bene che alcuni giustificano le loro brutte azioni appellandosi all’islam”.
La prima parte, dunque, si svolge in viaggio: prima verso il Senegal e poi di ritorno verso Fés, con calma, assaporando il Marocco, le sue luci e le sue ombre, la magia, i panorami incantati, la generosità e l’intolleranza. Si tratta anche di un viaggio del sé che compiono i protagonisti, fatto di scelte e di cambiamenti da affrontare.
Siamo quasi a metà libro quando il viaggio di ritorno si conclude con l’arrivo a Fés ed inizia una seconda parte del romanzo nella quale, i sentimenti introdotti ed accennati in modo delicato, quasi poetico, assumono tinte molto più forti.
Il razzismo, primo fra tutti, sembra aspettare Amir sulla soglia di casa con le parole della cognata che lo accolgono: “Allora le negre, le kahlouchates, sono sempre così negre, o meglio, sempre così sporche, con la loro puzza di sudore e il loro alito cattivo?”
Nonostante tutte le accortezze di Amir, Nabou non sarà accettata da Lalla Fatma. I toni sono cupi come le angherie che subisce la povera Nabou, trattata come una schiava, e appesantite dai timori di Amir, il quale, inizialmente, non sa affrontare la situazione e la “moglie bianca”.
Ancora una volta sarà la religiosità del nostro protagonista ad indicare la strada da seguire e, pertanto, dopo essersi consultato con un Moulay, Amir sposa Nabou che, tre mesi dopo, rimane incinta. La famiglia è divisa, l’ordine e l’armonia sono perduti: accanto a tanta felicità, originata dall’amore, si sviluppa l’odio razzista della moglie bianca e dei tre figli maggiori.
Nascono due gemelli, Hassan e Houcine, uno bianco e l’altro nero che Amir accoglie come una doppia benedizione, sancita anche nelle parole del Moulay a cui si rivolge e che gli dirà: “ […] Accetta questo dono di Dio e di’ a te stesso che è un segno della sua bontà. Dio ha creato diversa l’umanità perché gli uni e gli altri si conoscano e si aiutino reciprocamente. Non fa differenze tra il bianco e il nero, fra lo straniero e l’autoctono, fra quelli di qui e quelli di laggiù. È così. Ritieniti privilegiato, hai una fortuna e non disperderla in cose inutili”.
L’odio e il razzismo, tuttavia, non si placano e, anzi, magie per provocare la morte di Nabou e dei gemelli e maldicenze scandiscono il tempo e gli eventi.
Lalla Fatma muore nel sonno, quasi consumata dalla propria cattiveria, i figli maggiori lasciano la casa e gli affari cominciano ad andare male: è tempo di un nuovo cambiamento e così Amir, Nabou, Karim e i gemelli partono per Tangeri, città di confine e cosmopolita.
Inizia la terza e ultima parte del romanzo in cui l’attenzione di sposta su Hassan e Houcine, sul loro diventare adulti, sul loro percepire la vita in modo differente. In particolare, Hassan, il nero, ossessionato dalle sue origini, insoddisfatto, sofferente perché sempre stato oggetto di atti di razzismo. Trascorrono gli anni, la famiglia affronta i cambiamenti del tempo, Amir muore, i ragazzi si sposano, Karim, il figlio disabile, trova il proprio posto nel mondo, Hassan ha un figlio, Salim, il Marocco cambia e Tangeri sembra perdere un po’ del fascino che aveva quando era meta di intellettuali di tutto il mondo; ora, invece, quasi ai giorni nostri,è diventata crocevia dei “giovani sub sahariani che avevano fallito la traversata verso l’Europa”.
L’“anima stropicciata” della città riflette quella della famiglia.
L’Islam di queste pagine è quello intollerante dei barbuti: “Con queste persone non si discute, si approva o si tace”. La narrazione diventa cupa come le strade dei quartieri diseredati, abitati da neri clandestini “candidati all’infelicità e all’esilio precario e sempre sotto minaccia”, che Hassan, e poi suo figlio Salim, percorrono quasi alla ricerca di un frammento della propria identità.
È proprio Salim, nipote di Amir e Nabou, a compiere il viaggio conclusivo del romanzo. La nostra storia si era aperta con il viaggio di Amir verso il Senegal e si chiuderà con quello di Salim verso il Senegal. Non un viaggio pianificato come quello del nonno, non un percorso di bellezza, di poesia e poi di amore, ma una deportazione forzata perché scambiato da una polizia razzista, ottusa e corrotta per uno dei tanti clandestini.
Nelle ultime pagine la famiglia è quella di Salim e del gruppo di giovani che compiono il viaggio verso il Marocco per poi imbarcarsi alla volta dell’Europa: “sono questi i bidoun, una specie di schiavi che non esistono per nessuno”. Nel viaggio verso Tangeri perdono la propria identità, lasciano le proprie radici, persino il proprio nome, per affrontare l’ignoto con la speranza di raggiungere una nuova vita, altrove.
Salim attraversa il Marocco e ripercorre anche la sua storia personale: quella di suo padre e di suo zio, il gemello bianco, quella dei nonni e di Karim e, infine, ritorna a casa dove lo avevano cercato senza sosta per oltre un anno.
La fine del libro è una sconfitta, è amara, è triste, lascia impotenti e fa riflettere. La fine del libro è, allo stesso tempo, una vittoria, nonostante tutte le sofferenze, le umiliazioni e i dolori: la vittoria dell’amore. Torneranno in mente le parole delle prime pagine: “la famiglia è sacra, bisogna fare di tutto per proteggerla, niente deve romperla”… e così, nonostante tutto, sarà.
Nina Meloni