Recensione di Mario Arpino del 20 giugno 2016
“La Casa di Pietra” può essere considerato il testamento spirituale del giornalista-reporter Anthony Shadid, deceduto in Siria nel febbraio del 2012. E’ uno dei casi in cui è impossibile parlare del libro senza prima aver parlato dell’Autore. Chi lo desidera, sulla rete può trovare tutto, perché i grandi quotidiani americani per cui aveva lavorato davano rilievo alla notizia della sua morte con articoli che sono più vicini ad una orazione funebre, piuttosto che alla descrizione di un fatto di cronaca. Indubbiamente, è stato un personaggio fuori dal comune. Anthony non è morto da eroe, saltando su una bomba o colpito da una pallottola sorpreso da una sparatoria, come è accaduto ad altri reporter di guerra. Paradossalmente, la sua fine è stata causata da un forte attacco di asma da allergia equina con complicazioni respiratorie, mentre di notte, assieme al suo fotografo, stava tentando di entrare illegalmente in Siria cavalcando attraverso i monti della Turchia.
Nato in Oklahoma nel 1968, ma di discendenza libanese, parlava fluentemente l’arabo, comprendeva la cultura araba antica e moderna, “…ma scriveva e lavorava come un americano”. Dopo la seconda guerra del Golfo è a Bagdad per il Washington Post, da dove con i suoi reportages nel 2004 si guadagna il Premio Pulitzer, facendo il bis nel 2010 con i servizi giornalistici sulle rivolte arabe. Le aveva seguite sin dall’inizio prima in Tunisia, poi in Egitto e in Libia, dove era stato catturato ed espulso. Nel 2006, ancora prima del blitz israeliano in Libano, aveva avvertito in modo prepotente la spinta che lo aveva portato a ritornare nella terra degli avi. La “Casa di Pietra” tratta, appunto, di questo periodo. Ma non solo: Shadid ci racconta il Libano e la sua gente così come sono nella vita quotidiana. Come molti libanesi, è cristiano, e della sua terra di origine non ne parla da arabo, ma nemmeno da americano. Cittadino di un mondo globalizzato, è evidente che ha superato questa duplicità “…con la semplice scelta di essere se stesso”.
Shadid ci spiega che la distinzione tra Siria e Libano una volta non c’era, l’hanno creata gli occidentali all’inizio degli anni venti, nell’ansia di spartirsi la torta dopo la rovinosa caduta dell’Impero Ottomano. Alla fine della prima guerra mondiale, dopo Versailles, la Società delle Nazioni aveva affidato la grande Siria – che lui chiama con il nome storico Bilad al-Sham, la Provincia del Levante – al mandato francese: un tutto territoriale che comprendeva le cinque provincie che oggi formano il Libano. Ma nel settembre del 1922 la Francia, con uno di quei suoi soliti colpi di mano che tendono a creare situazioni di fatto, senza consultazioni aveva autonomamente creato lo Stato del Grande Libano, area prima inclusa nell’indifferenziata amalgama etnico-religiosa dei territori di al-Sham.
Non viene mai detto come esplicita accusa, né con acrimonia, ma non c’è capitolo del libro in cui non appaia evidente che la rottura di ogni antico equilibrio nell’area sia da ascriversi all’infausta azione delle potenze straniere, ed in particolare della Francia. L’embargo delle coste dell’Impero durante la guerra mondiale aveva provocato in tutta al-Sham, ma specie nel suo meridione, disastrose carestie, con epidemie e stragi. Si racconta che in alcuni villaggi agricoli sia deceduto per fame e malattia un terzo della popolazione, con conseguente emigrazione di massa. La fame non è mai buona consigliera, e la lotta per la sopravvivenza acuisce ogni differenza, tribale, etnica o religiosa che sia. A tutto ciò, il dominio francese non ha apportato alcun miglioramento. Al di fuori delle città, tutto il resto del territorio è rimasto come prima. Così, Shadid su questo è chiaro sia nei frequenti stacchi storici, sia quando fa parlare i suoi personaggi: tutto ciò che nell’area è accaduto dopo, altro non è che una sorta di nemesi storica.
Con questa lunga premessa, possiamo ora accingerci a spiegare il perché della Casa di Pietra. Nella lingua araba classica la parola che traslitterata suona come bayt, letteralmente significa “casa”. Ma la lingua ha così tante sfumature che le parole vanno lette nel contesto, ed assumono significati diversi a seconda del discorso. Così – ci spiega Shadid – le connotazioni di bayt vanno oltre i muri, le stanze e le pareti, ma evocano sentimenti, desideri, immagini, persone, patria e tradizioni raccolte attorno alla “famiglia” ed al “luogo”. Per esprimere qualcosa di simile un tedesco direbbe heimat, un inglese home e da noi, forse, focolare. Ecco perché Shadid, con un matrimonio fallito alle spalle, cerca rifugio nella terra dei padri. E, nella casa semidiroccata che un suo avo aveva costruito a Marjayoun all’inizio della dominazione francese, questo rifugio lo trova. Ma la casa va ristrutturata, praticamente rifatta, cercando di mantenerne inalterato lo stile. Come impegno pianta un piccolo olivo vicino all’ingresso e, preso per un anno congedo dal giornale americano per cui lavora, ritorna determinato a dare l’avvio alla ricostruzione.
Il libro è tutto incentrato attorno a questa vecchia casa disabitata del sud del Libano, una casa di famiglia in cui gli avi sono passati accumulando oggetti, sentimenti, abitudini e culture di cui, in Oklahoma, aveva solo sentito parlare. Per un anno intero Anthony abita e ristruttura quella casa, scoprendo in quelle stanze, osservate con l’occhio del cronista, la storia della propria famiglia e di tutto il Medioriente. Lo fa muovendosi tra la grandezza e le meschinità dell’uomo, tra epoche di gloria e declino fino all’attuale quotidianità, precaria e sempre più difficile. In altre parole, con il pretesto della casa Shadid ci racconta come in quell’area del mondo, così bella e tormentata, si mescolino tra loro e si scontrino culture diverse e perché ognuno di noi, globalizzato quanto si vuole, alla fine si scopra inscindibilmente legato alle proprie origini. Lo scrittore e saggista americano Dave Eggers, in proposito, si esprime così: “… questo è un libro sulla dispersione di un popolo, su un’area del mondo devastata e sulla toccante storia di una famiglia. Ma è scritto con un candore e una poesia che lo rendono una lettura che non si vorrebbe finire mai”.
Noi possiamo solo aggiungere che questo libro “è il Libano”. Descritto non al centro di Beirut, ma per come è davvero sul territorio, lungo i confini, sul fiume Litani, nei paesini dispersi sui monti e sulle colline, ormai quasi sempre raggruppati per etnie e religione. Ma una volta non era così. Vi è stata un’epoca, racconta Shadid, in cui il bisnonno, cristiano ortodosso e sindaco del villaggio, il venerdì spesso saliva sul minareto al posto del muezzìn a fare il richiamo alla preghiera per i musulmani. Oggi non sarebbe nemmeno immaginabile. Questo accadeva proprio in quella parte del Libano che ormai, dopo dieci anni, i nostri soldati con il casco blu conoscono molto bene. Noi, che solo da lontano abbiamo cercato di comprendere questa esperienza, dobbiamo accontentarci di leggere “La Casa di Pietra”. E’ un libro che coloro che vogliono “capire di più” non possono permettersi di perdere.
(*) LA CASA DI PIETRA, di Anthony Shadid – ADD Editore, Torino, ottobre 2012. Copertina floscia, pagine 445, Euro 18.00. L’Autore (1968 – 2012) è stato corrispondente dal Medio Oriente per diverse testate. Statunitense di origine libanese, ha lavorato per il Washington Post, il Boston Globe e il N.Y. Times. Per quest’ultimo ha seguito le “primavere arabe” sin dall’inizio. E’ morto in Siria all’età di 43 anni.
Mario Arpino