Un intreccio di Scenari

di Mario Arpino

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Che luglio sia un mese caldo è cosa normale. Ma questo luglio 2016 sembra andare oltre, e non è ancora finito. Se a Roma siamo a 37°, in altre parti del mondo –  anche vicino a noi – si arriva a temperature di fusione. E non illudiamoci che ciò che accade lontano non ci riguardi, perché in questo mondo “globalizzato” non è più così: tutto riguarda tutti, anche se sono ancora troppo pochi coloro che ne hanno preso coscienza.

Mettendo insieme attentati islamisti o presunti tali, Brexit, vertici internazionali, accadimenti in Turchia, dichiarazioni degli “statisti”, morti annegati nel Mediterraneo, elezioni americane e vicende interne italiane, ecco che il calice con il cocktail esplosivo è servito. E non è detto che nei prossimi giorni non emergano altri ingredienti alla nitro. Tutto è collegato, tutto ci riguarda, tutto è vicinissimo a noi. Compreso il lontano Bangladesh, che a fine giugno ha dato avvio ai fuochi d’artificio con un paio di giorni di anticipo.

Proviamo a “spacchettare”, a tentare un’analisi necessariamente sommaria e poi, rimettendo tutto al suo posto, a trarre qualche considerazione generale, senza pretese.

 

Terrorismo

Cominciamo con il terrorismo islamista. Può anche darsi, come sostengono alcuni, che l’origine non sia solo di matrice confessionale. Ma è un dato di fatto che l’ispirazione arrivi – lo si voglia ammettere o meno – da alcuni concetti, magari antichi ed obsoleti, che nell’Islam, tuttavia, ci sono e sono scritti. Anche nella Bibbia ci sono concetti antichi ed obsoleti, a volte terribili. Ma nessuno si sogna, oggi, di applicarli davvero. Ciò detto, continuiamo pure con le giaculatorie dei mea culpa, ma rendiamoci anche conto che così non andremo lontano, appariremo sempre più deboli e peggioreremo situazione e credibilità. Le varie case madri islamiste, come l’Isis e al-Qaeda, spesso in contrapposizione tra loro, odiano gli occidentali, ma anche gli stranieri in genere, tutti i loro correligionari di confessione sciita e perfino i sunniti non allineati.

E’ vero. Allora, perché colpire gli italiani? Non facciamo ancora una volta i presuntuosi, atteggiandoci a bersaglio preferenziale. Non siamo così importanti. Secondo le statistiche, la maggior parte delle vittime del terrorismo islamista sono musulmane. Nel 2014 (i dati del 2015 non sono ancora pubblicati, ma differiscono di poco) la cifra globale si aggira sulle 33 mila unità, con la palma di questo attivismo che va a Boko Haram, in Africa, dove la Nigeria è il primo Paese per numero di persone uccise. Ma a livello globale l’Iraq continua a conservare stabilmente il primo posto.

Il 78 per cento del contributo alla statistica, in termini di vittime, si ottiene sommando Iraq, Nigeria, Afghanistan , Pakistan e Siria, cui si accoda la Libia. Le vittime occidentali sono solo una frazione che, di fronte ai grandi numeri, appare trascurabile. La lotta all’odiato Occidente tuttavia è destinata a continuare ancora a lungo, essendo all’interno del mondo islamico il più sfruttato obiettivo di propaganda, oltre che strumento di legittimazione. Rimandiamo alla conclusione qualche considerazione sulle lezioni apprese.

 

L’Unione Europea a fronte del Brexit

Passiamo al volo anche sul Brexit. Di fronte al problema del terrorismo islamista, sembrerebbe un evento certamente spiacevole, ma non di grande rilievo in termini pratici. In fondo, la gran Bretagna in Europa c’è entrata tardi e con un piede solo, limitandosi ad approvare ciò che non le nuoceva e a prendere tutto ciò che le poteva tornare utile. La vecchia battuta “c’è tempesta sulla Manica, l’Europa è isolata” ha continuato, e continuerà, ad essere una sorta di retro-pensiero di tutti gli inglesi. Anche di quelli che oggi fingono di strapparsi i capelli. Sotto il profilo tecnico- industriale ed economico, il rapporto è destinato a continuare su basi bilaterali. Per la gestione dei migranti, come pure per la questione terrorismo, il Regno Unito non è mai stato di grande aiuto. Anzi, già indaffarato con l’enorme quantità di cittadini ex Commonwealth che è obbligato a ospitare in casa propria, si è sempre opposto a qualsiasi proposta di modifica di quanto esistente. Vedasi accordi di Dublino. Sul fronte sicurezza e difesa, la continuità del rapporto con la Nato non altera la situazione militare e, anzi, aiuta a mantenere vivo quel rapporto con gli Usa che, comunque vadano le elezioni americane, con il tempo è destinato ad allentarsi sotto ogni profilo.

Il vero inconveniente, sensibile ma non grave, può originarsi dalla lunga trattativa prevista per il distacco. Sono almeno due anni di limbo che certo non favoriranno un’accelerazione del processo decisionale interno all’Unione. Ivi compreso quello che qui più ci riguarda, Sicurezza e Difesa, nonostante il volonteroso documento di policy appena presentato – e per il momento caduto nel vuoto – dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Nel corso della trattativa dovremo cercare di tenere ben presente, in ogni momento, che abbiamo di fronte una controparte abilissima in ogni tipo di trattativa, non interessata ai tempi brevi e tendente a strappare il maggior numero possibile di concessioni.

 

Il Vertice Nato di Varsavia

Il vertice Nato di Varsavia, come sempre accade nei summit, non ha presentato novità e sorprese, e forse – nel contesto attuale – il problema è proprio questo. E’ stata palese dimostrazione che allargare l’orizzonte dell’Alleanza, dopo un quarto di secolo dalle caduta del Muro, resta un’impresa assai difficile, se non impossibile. Con buona pace di problemi reali, pericolosi e destinati a perpetuarsi, come quelli che hanno per baricentro Mediterraneo e Medioriente. Si, è continuato il discorso del Comprehensive Approach e si è anche cercato di girare il collo verso Sud. Nulla da fare. C’è qualcuno che è rimasto orfano della guerra fredda che, dopo un’occhiata distratta, torna subito a rivolgersi verso est. I motivi di preoccupazione, non c’è dubbio, ci sono e sono reali.

Ma è l’insistere a guardare solo in quella direzione che si sta trasformando, se già non lo è, in vero pericolo. Invece, a Varsavia si è preferito cercar di tenere calmi i nuovi alleati dell’est, cui la sindrome da paura dell’orso non è mai venuta meno. Noi, come se fossimo gli unici ad essere interessati a Mediterraneo, Nordafrica e Medioriente, siamo rimasti voce nel deserto, sopraffatti e, con ogni probabilità ben volentieri, abbiamo accettato di rimanere in Afghanistan, di potenziarci per non incorrere in pericoli che si accrescono e dare una sostanziosa consistenza alla nostra presenza in Iraq. In effetti, con la solita piroetta, sotto il profilo militare in Siria e altrove avevamo già preso da tempo le debite distanze dalla lotta armata al Califfo, affidandoci all’azione diplomatica. Sicuramente è giusto così, ma, siccome all’amico Obama non si può dire sempre di no, giocoforza abbiamo accettato di buon grado tutto il resto.

 

Gli accadimenti in Turchia

Da ultimo, veniamo agli accadimenti in Turchia, ormai noti nella loro meccanica operativa. Non sorprende che qualcuno abbia cercato di fermare Erdogan. Lo stesso Sultano non è rimasto molto sorpreso, se all’atto del fallimento dell’azione eversiva aveva già in mano le liste dei proscritti ed ha proceduto con tanta celerità alla loro neutralizzazione. Due, invece, sono le cose che sorprendono davvero.

La prima: l’organizzazione è stata talmente carente da portare al fallimento dell’azione in poche ore. Nel museo monumentale di Anikabir, nella capitale, Mustafà Kemal Ataturk, ”padre dei turchi” ed eroe di Gallipoli, si sarà rivoltato nella tomba. I suoi figli in uniforme, alla testa dei quali aveva abolito il Califfato, laicizzato lo Stato, stabilita la parità dei sessi, istituito il suffragio universale, vietato il velo islamico ai funzionari pubblici, adottato l’alfabeto latino ed il sistema metrico decimale, abolito il sistema penale basato sulla sharia, presi a modello il codice civile svizzero e italiano, oggi non sono stati nemmeno capaci di fare un colpo di stato come si deve. Le fondamenta lasciate da Ataturk forse non erano ancora democrazia, ma, per essere all’inizio degli anni venti, ci si avvicinava parecchio.

La seconda: dopo qualche ora di osservazione, appena c’è stata certezza del fallimento, tutto il Gotha politicamente corretto dell’Occidente, vale a dire Hollande, Merkel, Obama e persino il nostro ineffabile presidente del Consiglio (l’entusiasmo della nostra “presidenta” della Camera era scontato), con enfasi ed una buona dose di faccia di bronzo ha enfaticamente salutato “…il ritorno della democrazia in Turchia”. Cioè, il ritorno di quell’Erdogan che, uno alla volta, stava neutralizzando e sopprimendo tutti quei principi democratici kemaliani dei quali i militari erano stati, costituzionalmente, i fedeli custodi. Ora avrà gioco facile, e si è messo subito all’opera.

 

L’Occidente deve volersi salvare

Concludiamo con un commento generale. Sta venendo il tempo in cui l’Occidente dovrà salvarsi innanzi tutto da se stesso, dalla propria miopia e da quell’utopia la cui somma di principi deve tornare a costituire un flessibile obiettivo cui tendere, non un idolo da adorare. E’ questa un’epoca in cui siamo presi tra molti fuochi. Il primo è quello amico, originato dalle nostre discordie, a causa delle quali continuiamo a farci del male persino nei momenti difficili. Il secondo, è l’uso sistematico di quell’ipocrita linguaggio “politicamente corretto” che ormai, mistificando il significato delle parole, confonde i concetti e rende confuso ogni obiettivo. Terzo, dobbiamo convincerci che la guerra fredda è finita, che il nemico è cambiato e che l’orso, specie quando viene sollecitato dai deboli che si fingono forti, può anche reagire in modo pericoloso. Qualche dimostrazione l’abbiamo già avuta. Quarto, anche la geopolitica del Medioriente sta cambiando, e dobbiamo prenderne atto. Quinto, gli accadimenti di questi ultimi tempi stanno confermando un pensiero del vecchio Bismark: “…. arriverà il momento in cui i deboli potranno prevalere a causa dell’ignavia dei forti”. Ormai ci siamo.

 

Una valutazione globale, senza pretese….

Tentiamo, da ultimo, una valutazione globale. L’Europa, o meglio la Ue, è paralizzata dalle divisioni e dalla rinuncia, ormai esplicita, ad un proprio deterrente militare. Dall’altra parte dell’Atlantico, con Barack Obama alla scadenza del mandato, gli Usa, a prescindere da quale dei due candidati sarà eletto, pur rimanendo inutilmente forti, stanno perdendo credibilità e volontà di intervento. D’altro canto, visti i precedenti, forse è meglio così. Obama li ha trasformati “…in uno Stato come tutti gli altri”, e non fanno più paura a nessuno. In altri termini, hanno perso capacità contrattuale.

Gli altri “grandi” del G.20 hanno ancora i piedi d’argilla e, Cina a parte, resteranno ancora a lungo fuori campo. L’islamismo radicale, dopo tanti fuochi d’artificio, nel tempo è destinato a trasformarsi ed esaurirsi. Al momento, tuttavia, resta un parametro di cui tener conto e con il quale, difendendoci, dovremo imparare a convivere ancora per qualche anno. Le migrazioni non sono emergenza, ma fenomeno strutturale. Un ”piano Marshall” per l’Africa non basta, se, parallelamente, non avviene una trasformazione antropologico-culturale. Il che significa che, a meno di eventi straordinari che forse non dobbiamo augurarci, pur variando di intensità, sono un fenomeno con cui convivere per generazioni. Ci dobbiamo attrezzare seriamente, ancora meglio che per il terrorismo.

Chi, in questo avvilente contesto, appare in costante ascesa è Vladimir Putin, con la “sua” Russia piena di problemi, ma anche di amor proprio e di entusiasmo. Forse non è ancora un “grande”, ma una cosa è certa: di fronte ai nani chiacchieroni, lo Zar appare un gigante. La sua implacabile adattabilità, e la capacità di proporsi nei momenti difficili, quando nessuno lo vuol fare, oggi lo rendono in grado di riempire molti dei vuoti lasciati da questo precario sistema internazionale.

Mario Arpino