di Luigi R. Maccagnani
TURCHIA
Alcuni giorni fa è stato ritrasmetto su La7 il film di Lizzani (1973) “Mussolini ultimo atto”, con Rod Steiger nel ruolo principale; mi ha colpito una scena: quella in cui Mussolini annuncia la decisione di entrare in guerra a fianco dei Tedeschi, ribadendo all’alto funzionario che gli faceva notare come le forze armate Italiane fossero assolutamente impreparate, questa giustificazione:
“…lasciamo da parte i problemi militari e pensiamo ai vantaggi politici…. ed avere la nostra parte di gloria e di guadagno, ma per arrivare a questo obiettivo ho assolutamente bisogno di qualche migliaio di morti…” (https://www.youtube.com/watch?v=lrwIyY7TGzs, nei minuti 14:50-16:10)
Plausibile l’ipotesi, sostenuta dalla maggior parte degli osservatori, che Erdogan sapesse da tempo della preparazione del “golpe” (non sembrerebbe infatti casuale la tempistica del suo avvicinamento ad Israele ed alla Russia) e ne avesse visto una opportunità di “gloria e di guadagno”, vista la sua ambizione, da tempo palese, di voler cambiare il Paese in Repubblica Presidenziale Islamica. Di fatto, la sua reazione è stata assolutamente tempestiva, come la mobilitazione delle forze a lui fedeli e della piazza.
Ne è conseguita -come è noto – un’epurazione durissima, con più di diecimila arresti. Le fotografie pubblicate mostrano trattamenti inumani, e le notizie parlano di decine di migliaia di persone rimosse dai loro incarichi pubblici, tra giudici, costituzionalisti, giornalisti, rettori e professori universitari…tutti appartenenti a quella classe media Turca prevalentemente laica e Kemalista (1).
La Turchia ha subito comunque una notevole evoluzione negli ultimi quindici anni, da una parte confluendo nel trend di impoverimento della classe media come accaduto in numerosi Paesi occidentali, dall’altra manifestando una spinta di urbanizzazione delle popolazioni periferiche più legate alle tradizioni religiose. Al visitatore ricorrente non poteva sfuggire ad Istanbul la trasformazione della società, con la presenza sempre maggiore di donne velate.
(vedi anche Cremonesi: http://www.corriere.it/opinioni/16_luglio_23/anche-laica-ankara-sta-cedendo-erdogan-75fcd1da-5044-11e6-a079-6300f66c3f65.shtml)
Nei giorni precedenti il tentato colpo di stato era stata notata, come sottolinea l’editorialista turco Sukru Kucuksahin, una inedita posizione riconciliante dei dirigenti del partito di Erdogan, il Justice and Development Party (AKP), che auspicava – in concomitanza con l’avvicinamento a Russia ed Israele – un avvicinamento con le opposizioni; il co-fondatore del partito ed ex-portavoce del Parlamento, Cemil Cicek dichiarava: “Ora è tempo di moltiplicare gli amici in casa nostra”. Inaugurando il nuovo slogan “più amici, meno nemici”, anche il Primo Ministro Yildririm, fedelissimo di Erdogan, aveva sostenuto Cicek, ripetendo più volte che “bisogna espandere il cerchio di amicizie”.
Un grande cambiamento, visto che sotto la leadership di Erdogan il partito AKP ha basato la sua azione politica su una forte polarizzazione, identificando come nemici via via i partiti dell’opposizione, la stampa critica, i Curdi…
Cambiamento che ha dato i suoi frutti, tant’è che la mattina dopo la notte del “golpe”, partiti dell’opposizione e media si sono schierati a supporto del Presidente, suscitando gli apprezzamenti del Primo Ministro e dello stesso Erdogan: “L’inizio di un nuovo capitolo…”
Di segnale diverso la durezza della repressione e l’estensione dell’epurazione, come pure il comportamento delle folle scese in piazza a difesa del Presidente, che al grido di Allah Akbar linciavano giovani coscritti per le strade, non certo in difesa della democrazia e dello stato di diritto.
Difficile ora predire quali saranno gli sviluppi futuri, ma sembra che il “il giorno per l’unità e la vicinanza” (il PM Yildirim al parlamento il 18 luglio: “Today is not a day to care about differences in attire…Today is a day for unity and togetherness”) sia in effetti durato poco di più.
In ogni caso, domenica 24/7, si è tenuta nella piazza Taksim, conosciuta per le proteste del 2013, una manifestazione a difesa della democrazia, organizzata dal partito socialdemocratico di opposizione CHP, che ha visto la partecipazione di circa centomila persone, molti i giovani, molte le immagini di Ataturk e le grida “no golpe, no dittatura”. La manifestazione era stata comunque autorizzata dal governo.
- Kemal Ataturk, 1881-1938, fondatore della Repubblica Turca di cui fu primo presidente (1923-1938), abolendo il califfato e laicizzando lo Stato, tra l’altro imponendo il divieto costituzionale per le aggregazioni religiose di formare partiti politici, pur mantenendo l’Islam come religione di stato.
LIBIA
I fatti interni della Libia sono passati in secondo piano, dati gli sconvolgimenti in Turchia e gli eventi terroristici prima in Bangladesh, poi i fatti di Francia e gli arresti in Brasile: rimane attuale il dramma dei migranti, con le numerose morti nel Mediterraneo.
- La Costituzione
Omar Mohamed Ali, membro del CDA (Assemblea Costituente – eletta nel febbraio 2014) ha finalmente mostrato a Tunisi il 21 Luglio scorso la bozza finale della nuova costituzione Libica.
Al momento non si conoscono reazioni ufficiali da UNSMIL o dal Governo di Unità Nazionale, forse un po’ di delusione per gli aspetti scarsamente innovativi: la nuova costituzione sembra piuttosto cogliere valori standard e ci si domanda come mai la sua redazione abbia preso così tanto tempo.
In estrema sintesi:
- Ordinamento dello Stato:
Repubblica parlamentare, nella sua unità territoriale; lingua ufficiale l’Arabo, l’Islam la religione di Stato.
- Il ramo Esecutivo:
Il Presidente, di fatto alla testa del ramo esecutivo, sarà eletto con voto popolare per un massimo di due mandati di cinque anni, nominerà il Primo Ministro ed il Governo, promulgherà le leggi approvate dal Parlamento, avrà funzioni di Capo delle forze armate, e rappresenterà lo Stato. Il governo prepara il budget annuale, che dovrà essere approvato dal Parlamento.
- Il ramo Legislativo:
Il potere legislativo è attributo del Shoura Council (Consiglio di Stato), costituito da una Camera dei Deputati, o House of Representatives, e da una Camera alta o Senato. Il Consiglio di Stato ha anche il ruolo di nominare i vertici delle istituzioni indipendenti, come la Banca Centrale e la National Oil Corporation.
- Il ramo Giudiziario:
La Camera nomina i vertici del Sistema giudiziario, nomine che dovranno essere confermate dal Senato, mentre il sistema di Corti di giustizia sarà diretto da un Alto Consiglio indipendente sia dall’esecutivo che dal legislativo.
- Islam:
L’articolo sulla religione, che forse potrà generare qualche polemica, riporta testualmente “l’Islam sarà la religione di stato, e la Sharia sarà il riferimento per le leggi, in accordo con le sette riconosciute, pur non essendo vincolante nelle sue varie interpretazioni in materia di giurisprudenza”. Vincola invece all’appartenenza alla religione musulmana i funzionari delle varie istituzioni, anche se non è chiaro fino a quale rango o grado.
- Il prossimo passo:
Il Parlamento di Tobruk dovrà tempestivamente organizzare un referendum confermativo della nuova costituzione, la cui stesura non potrà essere modificata in alcun modo e, in caso di rigetto, l’Assemblea Costituente sarà l’unica entità avente titolo di produrre una nuova versione.
- Evoluzione Politica
Forti dissapori sono in atto tra i membri del Gruppo di Dialogo ed il Consiglio di Presidenza e lo stesso Primo Ministro del “Governo di Unità Nazionale (GNU), Faiez Serraj, e tra il Governo “eletto” di Tobruk ed il rappresentante UNSMIL, Martin Kobler.
I primi lamentano l’inefficienza del GNU, che a otto mesi dalla sua formazione e più di tre dall’insediamento in Tripoli, ancora non ha affrontato i problemi del Paese (l’erogazione dell’elettricità, la scarsa liquidità delle banche e la situazione sicurezza). I 22 membri del Gruppo di Dialogo, riunitisi a Tunisi nei giorni scorsi, hanno avvisato il Consiglio che in caso di un mancato cambio di rotta avrebbero emesso un voto di sfiducia, ed hanno preteso incontri regolari e frequenti, per accelerare il progresso dei lavori. Hanno inoltre accusato Martin Kobler di comportarsi come fosse il “Governatore” della Libia e di considerare – di fatto – il Gruppo di Dialogo come insignificante. Si ricorda che il Gruppo di Dialogo iniziò a riunirsi a Skirat, in Marocco, sotto l’egida dell’ONU all’inizio del 2014.
Ancora più forte il dissenso che sta maturando tra Kobler ed il Parlamento – l’ultimo eletto – di Tobruk, con accuse di decadenza da parte dell’uno e di arroganza da parte degli altri. Non si capisce bene, comunque, se il parlamento di Tobruk e il relativo governo guidato da Al Thinni sia ancora “internazionalmente riconosciuto”. D’altra parte, salvo il contrario, l’ambasciatore Dabbashi (HoR) rappresenta ancora la Libia all’ONU, mentre Kobler rivendica l’unicità del “suo” Governo di Unità Nazionale. Al contempo Kobler ribadisce, in una e-mail all’agenzia AP, che il governo di Serraj è l’unico riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza ONU, con la risoluzione 2259, ed ha chiesto agli Stati membri – incluso il governo di Al Thinni- di cessare ogni contatto con istituzioni parallele.
Seif El Islam, il figlio riformista di Muammar Gheddafi. Nel 2011, quando dopo i fatti in Tunisia cominciavano i primi moti in Libia, molti si auguravano che Gheddafi lasciasse il posto al figlio Seif, che da un paio di anni promuoveva riforme liberali. Sarebbe potuta forse essere una transizione indolore, purtroppo non è stato così: Seif si erse a difesa del padre ed è andata come è andata. Seif fu catturato e tenuto prigioniero dalla milizia di Zintan. L’anno scorso fu condannato a morte dal governo parallelo di Tripoli, di indirizzo Islamico, ma la milizia di Zintan, rifiutatone la consegna, sembra ora che lo abbia liberato, e che lo trattenga colà per salvaguardarne la sicurezza personale. E’ possibile che Seif possa ancora avere un ruolo nella Libia di oggi? La maggioranza delle tribù un tempo fedeli al padre potrebbe ancora sostenerlo, visto anche il fallimento, ad oggi, del Governo di Unità Nazionale patrocinato dall’ONU di stabilizzare il Paese.
STATO ISLAMICO
Dopo i numerosi – ricorrenti – episodi di terrorismo, e non solo quelli ad alto impatto mediatico come in Bangladesh e Francia, ma anche le decine di morti in Iraq per una autobomba, o gli episodi passati quasi inosservati in Arabia Saudita e Yemen, vale la pena – penso – rivedere il saggio di Scott Atran, pubblicato su Aeon il 15 Dicembre 2015:
ISIS is a revolution https://aeon.co/essays/why-isis-has-the-potential-to-be-a-world-altering-revolution
(Ripreso nella versione tradotta in Italiano da l’Internazionale nell’Aprile 2016 con titolo “Rivoluzione e Stato Islamico)
Il saggio, del quale consiglio la lettura, è forse una delle analisi più lucide pubblicate dalla nascita del “califfato”, e gli eventi che si sono susseguiti dalla sua pubblicazione ad oggi tendono a dimostrarne la validità
Scott Atran, Presidente e Direttore della ricerca di Artis International – Center for Conflict Studies and Field Research (http://artisresearch.com/general-information/), direttore del reparto di ricerche antropologiche della CNRS, Ecole Normale Supérieure di Parigi, e senior research fellow all’università di Oxford. Pubblica regolarmente sul New York Times e collabora con numerose riviste scientifiche.
ISIS is a revolution
Tutte le rivoluzioni che alterano gli equilibri mondiali nascono nel pericolo e nella morte, nella fratellanza e nella gioia. Come si può fermare questa?
Maximilien Robespierre, On the Principles of Political Morality (1794): “Virtù, senza la quale il terrore è distruzione; terrore, senza il quale la virtù è impotente. Terrore è solo una giustizia immediata, severa ed inflessibile; ed è quindi una emanazione della virtù…”
L’incipit: “Mentre esperti e uomini politici classificavano i recenti fatti in California come una minaccia esistenziale, mentre truppe Francesi venivano schierate a Parigi e la polizia Belga sigillava Bruxelles, e mentre Stati Uniti e Russia intensificavano i loro bombardamenti in Siria a seguito di nuovi massacri perpetrati in nome dell’ISIS, era facile perdere di vista il fatto principale: nel mezzo di pallottole, bombe e bufere, non soltanto stiamo fallendo nel tentativo di fermare la diffusione dell’Islam radicale, ma i nostri sforzi appaiono spesso sortire l’effetto contrario, favorendone la diffusione”
L’analisi di Atran, in chiave antropologica, si basa su tre linee principali. La prima, una serie di interviste effettuate dai membri del team dell’autore, a un vasto gruppo di giovani nei diversi Paesi, dalla Francia al Marocco, dalla Siria all’Iraq ecc, principalmente nella fascia di età che comprende la quasi totalità degli attentatori – circa 25 anni – e di varia estrazione sociale, non solo dei quartieri degradati come le banlieue parigine o i sobborghi marocchini, ma anche giovani di famiglie agiate e con buona scolarità. La seconda, una base storica della nascita dei Paesi moderni del Medio Oriente, dall’accordo Sykes-Picot del 1916, al nuovo ordine imposto da Francia e Regno Unito, nell’immediato della prima guerra mondiale. La terza, un richiamo alle rivoluzioni storiche, dagli eventi risultanti dall’invasione della Giudea da parte di Roma, alla rivoluzione Americana, a quella degli anarchici e dei bolscevichi in Russia, i Giacobini di Robespierre…
La conclusione è che motivazioni basate su onore e valori “sacri” prevalgono su incentivi standard come denaro, promozione o punizioni: nella dichiarazione di Indipendenza del 1776, Thomas Jefferson motivò i suoi rivoluzionari richiamando i valori “sacri e inoppugnabili”: in tal modo essi erano pronti a sacrificare le loro vite, le loro fortune ed il loro sacro onore e riuscirono vittoriosi sull’impero più potente del mondo.
Un’analisi demoscopica condotta dall’ICM, Institute of Conflict Management, indica che almeno un quarto dei giovani francesi di ogni confessione religiosa, e di età compresa tra i 18 ed i 24 anni, ha una opinione “in qualche modo” favorevole all’ISIS.
Di fatto, quello che la nostra comunità considera atti di orribile violenza, per gli accoliti dell’ISIS sono parte di una esaltante campagna di purificazione attraverso uccisioni sacrificali e di auto-immolazione.
L’autore non offre una soluzione, solo un’analisi di quello che l’ISIS costituisce e la considerazione che le bombe lanciate con i droni non sono la risposta.
Le civiltà sorgono e cadono in funzione della vitalità dei loro ideali culturali, non solo dei loro beni materiali.
Luigi R. Maccagnani