di Enrico La Rosa
Il viaggio della “Zaytouna-Oliva”, la nave partita da Barcellona più di un mese fa, il cui equipaggio era formato dalle 13 donne decise ad infrangere il blocco marittimo di Gaza attuato da Israele, si è conclusa miseramente, come prevedibile, con l’intercettazione da parte di unità israeliane avvenuta nel pomeriggio del 5 ottobre e la successiva scorta sino al porto di Ashdod. Tra le 13 donne Mairead Maguire, irlandese e premio Nobel per la pace, intenzionata, con le compagne di viaggio (un’atleta olimpionica, delle giornaliste, una ex diplomatica, un medico e tre donne parte dell’equipaggio) a rompere il decennale blocco israeliano su Gaza e «il silenzio del mondo per quanto riguarda la situazione dei palestinesi residenti nella Striscia di Gaza, e in particolare per quanto riguarda i loro bambini, è sintomo di una preoccupante carenza di princìpi morali ed etici da parte della comunità internazionale. Dobbiamo chiederci perché questo silenzio è durato così a lungo».
Per fortuna, questa volta la missione non si è conclusa nel sangue, come accaduto il 31 maggio 2010, quando un’analoga violazione del blocco fu tentata da una flottiglia di attivisti pro-palestinesi, conosciuta come la Freedom Flotilla per Gaza, con lo scopo di trasportare aiuti umanitari ed altri materiali. Intercettazione di forze navali israeliane nelle acque internazionali del Mar Mediterraneo, nell’ambito dell’operazione navale denominata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) “Operazione Brezza Mari”.
La vicenda dell’ultimo mancato sbarco su Gaza, per fortuna incruento, al contrario del precedente episodio, obbligano a ripercorrere la storia della Striscia e, con essa, sommariamente di tutto il territorio palestinese, ex mandato internazionale della Gran Bretagna.
Mentre le unità della Marina israeliana portavano a termine questa operazione d’interdizione, unità dell’Aviazione hanno sferrato un attacco combinato con le forze di terra contro Gaza. A sentire Mohammed Matter (Gazawi), questi attacchi sono automatici allorché Israele riceva nuove armi (test e collaudi), o ci sia una barca che tenti di rompere l’assedio su Gaza (distrazione e ritorsione), ci sia un’elezione in “Israele” (iniziative elettorali delle destre).
Denunciando con forza «l’atto di pirateria internazionale» commesso da Israele, Zaher Darwish, coordinatore della FF-Italia, aveva scritto che l’imbarcazione «non è diretta in Israele, bensì a Gaza – Palestina: il percorso si è svolto tutto in acque internazionali, e avrebbe dovuto concludersi nelle acque di Gaza, senza toccare quelle Israeliane e senza avvicinarsi alle coste di Israele. Un’azione assolutamente pacifica di alcun pericolo per Israele: una normale barca da diporto che «non trasporta nessun materiale pericoloso né attrezzature atte all’offesa, ma solo 13 donne e il loro messaggio di fratellanza e solidarietà». Le missioni navali della Freedom Flotilla hanno lo scopo dichiarato di richiamare l’attenzione sull’assedio illegale (Articolo 41 della Carta dell’ONU) imposto da Israele alla Striscia di Gaza, «che è una punizione collettiva per due milioni di civili palestinesi rinchiusi in quella che di fatto è una grande prigione a cielo aperto».
Per i più distratti tra i lettori, o per quelli che ancora credono alla favola di Israele unico stato democratico (sic!) della regione, o per quelli che sono ancora fermi all’immagine di “Palestinesi=Terroristi” e non hanno avuto l’opportunità di approfondire, o per quelli che si sono fatti convincere circa la contiguità tra la religione cristiana e quella ebraica ed alla enorme distanza con quella musulmana, in favore di tutti questi nostri lettori, sicuramente un’esigua quantità, si cercherà di ripercorrere i pregressi rigidamente storici della complicata faccenda: fatti e non giudizi! E chi lo fa è certamente fra i meno titolati, ma ne sente la necessità, visto che di persone “a conoscenza dei fatti” ve n’è poche disposte a rischiare in proprio, esponendosi in un compito così pericoloso!
C’è un filo conduttore che lega in modo molto stretto gli avvenimenti seguiti alla caduta dell’impero ottomano, avvenuta con una sommatoria di fatti tra loro complementari nel periodo tra il 1912 ed il 1923, e forse a causa degli stessi. Un filo molto aggrovigliato e pieno di nodi di una matassa che è ancor lungi dall’essere completamente srotolata.
Per dirla con David Fromkin, storico e analista americano, autore del più lucido libro che mi sia capitato di leggere sulle cause e sugli effetti della caduta dell’Impero, una pietra miliare, il libro “La pace senza pace”, edito per la prima volta in Italia da RCS Libri nel 1992, di cui sono condivisibili senza riserve le valutazioni:
634-635 – «La sistemazione del 1922 non coincide con un singolo accordo o documento; essa è il quadro d’insieme scaturito da una serie di leggi, accordi e documenti la maggior parte dei quali porta la data di quell’ anno. Cosi, i confini mediorientali dell’Unione Sovietica furono delineati dalla prima costituzione sovietica, della fine del 1922, e trasformati in precisi confini politici nel quadro dei trattati con la Turchia, la Persia e l’Afghanistan e, in una certa misura, del trattato commerciale con l’Inghilterra, del 1921.
La fine del sultanato ottomano e la nascita di uno stato nazionale turco (limitato alla parte del vecchio impero abitata da genti di lingua turca) furono decise con voto unanime dalla Grande Assemblea nazionale il 1° e il 2 novembre del 1922. I confini definitivi della Turchia furono in gran parte stabiliti in occasione dell’ armistizio concordato con gli Alleati nell’autunno del 1922, e poi dal trattato di pace con gli Alleati, firmato a Losanna l’anno successivo.
I rimanenti ex domini dell’impero ottomano furono spartiti fra la Gran Bretagna e la Francia, per effetto di documenti come il mandato della Società delle Nazioni alla Francia per l’amministrazione della Siria e del Libano (1922), il mandato della Società delle Nazioni alla Gran Bretagna per l’amministrazione della Palestina, Transgiordania compresa (1922), e il trattato del 1922 con l’Irak, che nelle intenzioni della Gran Bretagna avrebbe dovuto avere il valore di un mandato a governare la nuova nazione.
Nell’ambito della propria zona di influenza la Gran Bretagna prese una serie di provvedimenti sotto forma di leggi e dichiarazioni che in parte recano anch’esse la data del 1922. In quell’anno Fuad I fu posto sul trono egiziano, mentre la dichiarazione Allenby del 1922 conferiva unilateralmente all’Egitto lo status di un protettorato formalmente indipendente. Il protettorato iracheno fu sancito dal trattato di quell’anno fra la Gran Bretagna e l’Irak – una nazione che la Gran Bretagna aveva letteralmente creato, e sul cui trono aveva posto un uomo di propria fiducia, cioè Feisal, uno dei figli dell’emiro Hussein. In base al mandato per la Palestina del 1922 e al White Paper di Churchill sulla Palestina, anch’esso del 1922, la Transgiordania si incamminò sulla via di un’ esistenza autonoma rispetto alla Palestina – a un altro figlio dell’emiro Hussein, cioè Abdullah, fu dato il compito di governare la nuova entità politica con una decisione anch’essa del 1922 – mentre a ovest del Giordano furono promessi agli ebrei una «National Home», ai non ebrei il pieno rispetto dei loro diritti. L’indipendenza o l’autonomia dei curdi (uno degli argomenti dei quali si era discusso nel 1921) per qualche ragione scomparve alla vista nel 1922. A quanto pare, nessuno pensò di avere qualcosa da guadagnare da un Kurdistan indipendente o autonomo. E la non-decisione del 1922 fu, a tutti gli effetti, una decisione. Infine, sempre nel 1922, la Gran Bretagna impose a Ibn Saud accordi che stabilirono le frontiere fra l’ Arabia Saudita, l’Irak e il Kuwait.
Così la Gran Bretagna – come la Francia nella propria zona di influenza in Medio Oriente, e la Russia nella sua – creò stati, scelse gli uomini che dovevano governarli, tracciò confini; e tutto ciò avvenne nel 1922 o negli anni immediatamente precedenti o seguenti. Come da tempo si preparavano a fare, le potenze europee avevano preso nelle loro mani i destini dei popoli mediorientali; e lo fecero nell’ ambito di quella che ho chiamato la “sistemazione del 1922”.
* Naturalmente, qualche problema di confine rimase irrisolto. La frontiera fra Turchia e Siria, per esempio, fu definita solo alla fine degli anni Trenta».
638 – «Nel 1922 la Gran Bretagna accettò i1 mandato della Società delle Nazioni a dare attuazione al programma sionista, da essa vigorosamente appoggiato nel 1917 ma per i1 quale, nel frattempo, aveva perso ogni entusiasmo.
Di conseguenza non può suscitare speciale meraviglia che negli anni seguenti i rappresentanti britannici abbiano governato i1 Medio Oriente con poco entusiasmo e poca efficacia. Ciò dipese da un’intrinseca contraddizione insita nella sistemazione del 1922: dopo avere distrutto i1 vecchio ordine e disseminato la regione, dall’Egitto all’Irak, di truppe, carri armati e aerei da combattimento, coloro che governavano la Gran Bretagna imposero al Medio Oriente un assetto al quale essi stessi erano i primi a non credere».
638-639 – «Il Medio Oriente è diventato ciò che è oggi perché le potenze europee vollero ridisegnarlo, e nel contempo Francia e Gran Bretagna non seppero garantire la durata delle dinastie, degli stati e dei sistemi politici da esse instaurati. Durante e subito dopo il primo conflitto mondiale Gran Bretagna e Francia distrussero irrevocabilmente il vecchio ordine della regione; il dominio turco del Medio Oriente arabo subì un colpo dal quale non avrebbe più potuto riprendersi. Per riempire il vuoto che ne seguì crearono nazioni, formarono governi, misero sul trono monarchi, tracciarono frontiere e insomma cercarono di formare un sistema di stati come ve ne sono in tante parti del mondo, ma non tennero nel debito conto le molte forme di opposizione locale a tali decisioni».
L’opportunità politica dei Francesi di mantenere nei territori libanese e siriano la propria influenza, la necessità di mantenere sgombro il passaggio dal Mediterraneo (Egitto) alle Indie da parte dei Britannici, nonché le mire su quella fonte inesauribile di petrolio che stava rivelandosi giorno dopo giorno la regione arabica e irakena ispirarono la politica degli alleati e il descritto riassetto regionale.
L’unica terra non interessata dalla costituzione di un nuovo stato era la “Transgiordania”, l’ampia regione a cavallo del fiume Giordano, dal confine meridionale e occidentale del neo stato siriano al limite settentrionale del neo stato iracheno e del regno d’Arabia concesso a Ibn Saud, alla quale si estendeva il mandato britannico. La mappa riportata di seguito, tratta dal libro di Fromkin già citato, da un’idea precisa della situazione all’inizio degli anni ’20.
Tutto ciò ebbe termine il 15 maggio 1948.
Ma, per capire completamente, è utile dare uno sguardo a cosa successe nella regione sino alla metà del XX secolo.
La prima “petizione” di cui si abbia notizia è quella di Joanna ed Ebenezer Cartwright, puritani inglesi residenti in Olanda, che a metà del XVII secolo richiedono al governo del loro Paese il trasporto in terra di Palestina con proprie navi dei figli e figlie di Israele. Verso la metà del XIX secolo Anthony Cooper, onde favorire il secondo Avvento, auspica il trasporto degli ebrei in Palestina. Petah Tikva, nel 1878, è la prima colonia sionista in terra di Palestina. Nella seconda metà del XIX secolo inizia l’afflusso in Palestina di ebrei, profughi dall’impero russo e soggetti allo Zar. Nel 1882 avviene il primo significativo flusso immigratorio in Palestina di immigranti dell’Europa dell’Est, prevalentemente ebrei. Nel 1896 nel congresso di Basilea da Max Nordau e da Theodor Herzl viene fondato il movimento sionista, del quale quest’ultimo diviene Presidente. Sostiene il diritto degli ebrei di fondare uno stato ebraico. E questo è l’inizio di una guerra cui i contendenti e la società internazionale non sono riusciti ancora a porre fine.
1881 – In Palestina gli arabi musulmani sono circa 400.000, i cristiani circa 42.000 e gli ebrei circa 15.000.
Scrive Jeremy Salt, storico e ricercatore anglo australiano, significativa permanenza lavorativa in Medio Oriente, un’esperienza quale professore associato presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Bilkent University di Ankara:[1] «Alla fine del XIX secolo in Palestina (Siria meridionale) c’era una popolazione di circa mezzo milione di abitanti: non era assolutamente la terra deserta e stagnante descritta dai sionisti e dai cristiani all’estero che caldeggiavano il ritorno degli ebrei in Terra Santa. Agrumi, grano, orzo, uva e olive crescevano in abbondanza. Nelle città e nei villaggi c’erano numerose botteghe, tipiche della società agricola preindustriale: una società a prevalenza islamica (del tutto simile alle comunità mediterranee non urbanizzate del periodo preindustriale e precolonico, NdA). Alcune famiglie patrizie, come i Khalid, potevano ricostruire le proprie origini fino alla conquista islamica del VII secolo. Gerusalemme restò forse il miglior esempio architettonico di città medioevale islamica in Medio Oriente: una città che portava i segni di tutte le dinastie musulmane che l’avevano governata». Questi ebrei, provenienti da fuori, in Palestina costruiscono anche dei villaggi, immersi nella sabbia e in prossimità del mare. Uno di essi, risalente al 1909, costituisce l’embrione della futura Tel Aviv.
1917
Il premier inglese Balfour dichiara che l’Inghilterra favorirà la fondazione di una homeland ebraica in Palestina, cioè di una entità straniera in una parte di territorio non islamico, a titolo di riconoscimento per l’aiuto prestato alle forze dell’Intesa durante la prima guerra mondiale.
1919, inizio
Contrarie all’ipotesi di massiccio insediamento in Palestina, tribù beduine attaccano insediamenti ebraici in Alta Galilea, nella terra di nessuno.
1919, estate
Delegazione americana accerta che la stragrande maggioranza degli abitanti del territorio ad ovest del fiume Giordano desidera o l’incorporamento della Palestina in uno stato siriano o, in alternativa, la costituzione di un’entità autonoma all’interno della Siria. La commissione accerta che più dell’85% della popolazione locale è sfavorevole al programma sionista.
1920, inizio
Predoni arabi penetrano nuovamente negli insediamenti sionisti; vengono uccisi alcuni coloni. Nello stesso periodo indiscrezioni circa la possibilità di violenze arabe a Gerusalemme con l’avvento della primavera inducono i sionisti ad armarsi acquistando armi clandestinamente presso un trafficante armeno.
4/4/1920
Inizio della rivolta araba paventata e Jabotinsky organizza, schiera e impiega milizie armate irregolari. Per completezza, Vladimir Jabotinsky è un giornalista russo, attivista sionista, fondatore della “legione ebraica”, inquadrata nelle forze di Allenby nel 1917, che avrebbe operato successivamente, nel 1918, nella valle del Giordano. Intorno al 1920 matura la convinzione che gli arabi della Palestina non accetteranno mai che gli ebrei possano diventare una maggioranza; scettico sulla possibilità che gli inglesi possano fornire loro protezione, crede che gli ebrei dovranno formare un proprio esercito per proteggersi da soli.
1920
Su una popolazione totale di 673.000, gli ebrei sono già arrivati a 60.000, circa il 10%.
1921
Hanno luogo i primi scontri tra ebrei e palestinesi e la situazione rimane talmente tesa che gli inglesi penseranno nel 1937 di dividere la Palestina in due Stati autonomi, ma i confini scelti scontentano tutti. Anche le successive proposte saranno respinte.
1925
Arrivo in massa degli ebrei, che sono al momento 122.000 e che in seguito aumenteranno ancora di più a causa della politica antisemita del nazismo.
Sino al 1928
L’amministrazione britannica della Palestina mantiene la valenza di un protettorato, nei confronti di uno stato autonomo, non di una colonia. La struttura politica che il “mandatario” ipotizza per il futuro prevede una sostanziale parità tra la componente araba e quella ebrea, nonostante i rapporti di forza sul territorio nettamente a favore di quella araba (tra l’80% ed il 90% del totale in questo momento).
1929
Sollevazione palestinese contro l’ipotesi britannica di spartizione della Palestina che prevede alla fine del mandato una sostanziale parità tra la componente araba e quella ebrea, nonostante i differenti rapporti di forza sul territorio. I Palestinesi, ovviamente, da principio avversano questa ipotesi, mentre i sionisti la sottoscrivono. Ma, presa coscienza del forte incremento in corso dell’immigrazione ebraica e dell’espansione dei loro insediamenti, la dirigenza palestinese cambia avviso e comunica alle autorità britanniche di essere disposta ad accettare la formula come base per i futuri negoziati. I sionisti respingono repentinamente l’ipotesi d’accordo, innescando la sollevazione del 1929. La lobby sionista riesce a influenzare le decisioni del governo inglese, che, inizialmente e sinceramente propenso a soddisfare le rimostranze palestinesi, conferma l’intenzione di applicare le “condizioni Balfour”. Ovvia e violenta la rivolta palestinese (19.04.1936/marzo39), di tale intensità ed estensione sul territorio da richiedere tre anni e una gran quantità di truppe per la sua repressione. Al termine, i capi palestinesi sono esiliati, le forze combattenti palestinesi disarmate e sciolte e molti abitanti dei villaggi arrestati, feriti o uccisi. Circostanza che lascia la componente araba della Palestina pericolosamente disarmata. Tra le insurrezioni del ’29 e del’36 i sionisti cominciano ad elaborare i piani intesi a consolidarsi in Palestina: recependo nel ’37 la raccomandazione Peel di spartizione del territorio e ricevendone una piccola porzione; successivamente, nel 1942, pretendendo tutta la Palestina. Si risparmiano, in quanto esulanti il tema di questo documento, i particolari sulla resistenza armata palestinese, sui metodi e le atrocità della repressione britannica e sulle valutazioni delle commissioni d’inchiesta britanniche inviate in Palestina. Tali aspetti saranno più approfonditamente esaminati in un più consistente lavoro in corso di preparazione. Ci si limiterà a riportare alcune notazioni statistiche, per le quali sarà indispensabile il contributo del citato libro di Salt:
Statistiche dell’immigrazione: «Le statistiche dell’immigrazione e delle proprietà terriere spiegano la rabbia dei palestinesi per ciò che veniva fatto sopra le loro teste. Nel 1930 la popolazione ebraica del territorio mandatario esplose. Il censimento del 1922 indicò una popolazione totale di 752.048 abitanti: 589.177 musulmani, 71.464 cristiani, 83.790 ebrei. Il censimento del 1931 un totale di 1.033.314 abitanti: 759.700 musulmani, 88.907 cristiani e 174.606 ebrei. Il censimento di dicembre 1944, 1.739.624 abitanti: 1.061.277 musulmani, 135.547 cristiani e 528.702 ebrei (con una stima rivista de facto di 553.600 ebrei). Alla fine del 1944, l’aumento demografico “naturale” fu il seguente: musulmani, 96; cristiani, 71 ; ebrei, 26. L’aumento demografico attraverso l’immigrazione: musulmani, 4; cristiani, 29; ebrei, 7448. I dati britannici sull’“immigrazione” ebraica furono i seguenti: nessun dato per il 1919; 5514 immigrati ebrei nel 1920; 12.856 nel 1924; 33.801 nel 1925 e poi un calo fino all’ascesa al potere del governo nazional-socialista in Germania, dopodiché le cifre aumentarono vertiginosamente: 30.327 nel 1933; 42.359 nel 1934 e 61.854 nel 1935, prima di diminuire fino a 29.727 nel 1936. Il rapporto della popolazione arabo-ebraica cambiò dal 91,3/9,7 nel 1919 al 79,8/20,2 nel 1933; 70,0/30,0 nel 1938 e 64,9/35,1 nel 1946. Ciò che la divisione statistica di musulmani e cristiani tende a oscurare è il fatto che i cristiani si opponessero al sionismo con lo stesso fervore dei musulmani.»
Popolazione dei coloni nelle zone rurali: «Per quanto riguarda la popolazione dei coloni nelle zone rurali, sul finire del 1944 soltanto in un sotto-distretto di Giaffa gli ebrei costituivano una maggioranza (dagli 8948 del 1931 ai 53.000 del 1944, contro 36.950 musulmani e 660 cristiani). Ad Haifa c’erano 31.000 ebrei (5308 nel 1931), contro 48.270 musulmani e 2050 cristiani. A Gerusalemme c’erano 3200 ebrei (3559 nel 1931), contrapposti a 63.550 musulmani e 4480 cristiani. Al di fuori delle città, gli ebrei vivevano e lavoravano principalmente negli insediamenti: questi erano aumentati da 5 nel 1882 a 110 nel 1931 , e ad almeno 259 alla fine del 1944»
Statistiche urbane: «Le statistiche urbane mostrano squilibri simili, con l’incredibile eccezione della nuova città di Tel Aviv, dove si contavano 166.000 ebrei, contro 410 musulmani e cristiani. A Gerusalemme, una calamita irresistibile per i coloni, c’erano 97.000 ebrei, contro 30.630 musulmani e 29.350 cristiani. La popolazione del porto arabo di Giaffa, conquistato dalle milizie sioniste prima ancora che venisse proclamato lo Stato di Israele nel 1948, era formata da 28.000 ebrei e da 66.220 musulmani e cristiani.»
1939
A fronte di una popolazione palestinese complessiva di 1.250.000 arabi, gli ebrei hanno già raggiunto il numero di 553.600, pari al 31% circa del totale.
1947
Finita la seconda guerra mondiale, con il mandato britannico in scadenza nell’anno successivo, l’Inghilterra chiese all’Onu di risolvere la questione palestinese. Fu deciso di istituire due Stati separati e di considerare Gerusalemme città internazionale, essendo qui presenti tre religioni. A favore votarono 33 nazioni contro 13 e un assente (Risoluzione n. 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata il 29 novembre 1947).
15.05.1948
Appena partiti gli inglesi, il leader ebraico Ben Gurion proclama lo Stato indipendente di Israele. Il giorno dopo la Lega araba (Egitto, Transgiordania, Siria, Libano, Arabia Saudita e Iraq) dichiara guerra a Israele, non accettando la presenza di due Stati indipendenti. La guerra si conclude a favore degli ebrei, meglio armati (dagli americani, dalla Russia per interposta Cecoslovacchia e da molti Paesi europei, inclusa l’Italia) e organizzati, al contrario dei Palestinesi cui fu imposto un embargo nel campo degli armamenti mai chiaramente motivato. La striscia di Gaza viene affidata all’amministrazione egiziana e la Transgiordania riesce a occupare la maggior parte della Palestina araba, diventando lo Stato di Giordania. Dal canto suo Israele riesce ad annettersi tutto il Negev e la Galilea. Lo Stato di Israele viene riconosciuto immediatamente e nell’ordine dagli Usa e dall’Unione Sovietica, entrambe timorose che possa finire sotto l’influenza della controparte. Viene subito ammesso all’Onu. Nessun Paese arabo lo vuole riconoscere.
Approfondimenti e ricca bibliografia sui preparativi e sullo svolgimento del conflitto, nonché un’approfondita analisi dello stesso sotto il profilo politico, militare, sociologico possono essere consultati su questo stesso giornale, frutto del rigoroso e profondo studio eseguito da Guido Monno, autore degli articoli, consultabili ai seguenti link:
http://www.omeganews.info/?p=2604,
http://www.omeganews.info/?p=2609,
http://www.omeganews.info/?p=2615,
http://www.omeganews.info/?p=2626,
http://www.omeganews.info/?p=2636,
http://www.omeganews.info/?p=2639.
Le due figure riportate di seguito danno un’idea molto precisa dell’avvenuta spartizione e degli abusi compiuti dallo stato di Israele nell’appropriarsi di territorio non assegnatogli.
1947/48
E’ utile, a questo punto della trattazione, riportare alcuni ulteriori dati statistici sulle risultanze delle azioni militari del 1947/48, attraverso le quali Israele espulse i Palestinesi dalle terre assegnate (evacuazione non contemplata dalla risoluzione), svuotò distrusse e ricostruì un gran numero di cittadine e villaggi, si espanse anche fuori dell’area assegnatagli, colonizzandola ed inviandovi la propria gente. In questa ricostruzione ci aiuteranno i dati riportati nei due libri già citati di Fromkin e Salt, insieme al contenuto di “La pulizia etnica della Palestina”, preziosissimo libro pubblicato in Italia da Fazi Editore nell’aprile 2008, scritto da Ian Pappe, brillante storico ebreo ed israeliano, appartenente alla corrente dei nuovi storici israeliani, costretto a lasciare l’università di Haifa, presso cui è stato docente per diversi anni, ed a trasferirsi presso l’Università di Exeter.
Dicembre 1947, inizio mese – Ha inizio la pulizia etnica della Palestina con una serie di attacchi degli ebrei ai quartieri e ai villaggi palestinesi, tanto violenti da causare l’esodo di circa 75.000 persone. Essa prosegue ininterrottamente sino all’intervento delle truppe arabe all’indomani della proclamazione dello stato di Israele e registra, solo in questo periodo, l’eradicazione di 250.000 Palestinesi, la distruzione di 200 villaggi, l’evacuazione di decine di cittadine, veri massacri, il più grave dei quali quello di Deir Yassin del 9 aprile 1948, ben prima del 15 maggio. I capi sionisti, fondatori dello stato d’Israele, sono responsabili e mandanti dell’eliminazione fisica o dell’espulsione di circa 800.000 Palestinesi, pari alla metà della popolazione originaria, comprensiva del massacro di circa 15.000 nativi, della distruzione di 531 villaggi, dello svuotamento di 11 quartieri urbani. Il tutto accompagnato da esecuzioni di massa, stupri, devastazione, saccheggio delle abitazioni, distruzione di interi villaggi e loro ricostruzione con nomi diversi. Generalmente sotto gli occhi indifferenti, conniventi o ignavi degli Inglesi “mandatari”, prima, e dei controllori delle NU, dopo. La Nakba ha inizio, quindi, nel dicembre 1947, non il 15 maggio, ossia non alla proclamazione dello stato d’Israele e all’arrivo degli eserciti arabi. E non riguarda solamente i territori assegnati ad Israele dalla “181”, ma si estende ben oltre, anche nelle aree destinate all’istituendo stato palestinese: istituendo nel 1947/48, istituendo ancora oggi. Queste realtà inconfutabili cancellano il mito israeliano secondo il quale gli “arabi” fuggono quando comincia l’“invasione araba”. Il tutto rigorosamente documentato da testimoni oculari, dagli storici palestinesi e dai nuovi storici israeliani, Ian Pappe in primis, che ha potuto consultare i documenti contenuti negli archivi ufficiali israeliani (Servizi, archivi di stato, altre fonti governative, epistolari ufficiali dei fondatori). In aggiunta a ciò, gli Israeliani saranno gli autori del primo caso nella storia dell’umanità di guerra batteriologica cosciente e premeditata, il 6 maggio 1948, batterio del tifo iniettato nell’acquedotto di Acri, la città dei Crociati. Operazione ripetuta il 27 maggio a Gaza, ma questa volta i due ebrei, scoperti in flagranza di reato dai militari egiziani, vengono giustiziati per direttissima senza la minima protesta ebraica. Negli anni successivi, con l’aiuto francese, Israele svilupperà l’arma nucleare contro il parere americano e con la condanna delle NU, ma senza le conseguenze e l’embargo imposto successivamente a Iran, nord Corea, ecc, in qualche caso per violazioni molto meno gravi. Vane ed inapplicate tutte le delibere dell’ONU a riguardo della pulizia etnica, degli sconfinamenti territoriali e del divieto di rientrare imposto a tutte le vittime della Nakba. L’aspetto tra i più sconcertanti e drammatici di questa tragica storia è la constatazione che l’espulsione dei nativi è voluta e realizzata da una comunità improvvisata, composta di profughi dalle persecuzioni naziste e comuniste, per lo più polacchi, tedeschi, russi in quantità e genericamente slavi, che con il Mediterraneo e la Palestina nulla hanno a spartire. Accertato anche che molti tra essi non fossero neppure ebrei, ma si convertirono per condividere la “terra promessa”, dopo la fuga dai suddetti Paesi.
1950
All’inizio dell’anno i profughi palestinesi sono già un milione. Israele infatti non vuole nel suo territorio una popolazione araba superiore alle 100.000 unità, da utilizzarsi come manodopera a basso costo.
26.07.56
Nasser nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez causando la reazione di Francia e Regno Unito, proprietari della Compagnia, che si concretizza nell’organizzazione di un’operazione militare congiunta contro l’Egitto. Ad esse si unisce Israele, in risposta alla minaccia del Presidente egiziano d’impedire allo Stato ebraico il transito attraverso il Canale di Suez. Lo scontro si conclude con la rapida conquista dell’intero Sinai, da Rafah ad al-‘Arīsh. Il 31 ottobre truppe anglo-francesi bombardano Il Cairo, e il 5 novembre occupano Port Saʿīd. La guerra viene interrotta dall’intervento congiunto sovietico-statunitense, ma nulla è fatto per impedire a Israele di realizzare il suo progetto espansionistico, ottenendo anche di poter navigare tranquillamente nel golfo di Aqaba, essenziale per i suoi rifornimenti, anche di armi e petrolio.
5÷10.06.67
Reagendo alla minaccia di Nasser di chiudere gli stretti di Tiran, Israele attacca l’Egitto senza preavviso e in sei giorni occupa Gaza, il Sinai, la riva orientale del Canale di Suez, la città vecchia di Gerusalemme, tutta la Palestina araba fino alla riva occidentale del Giordano e le alture del Golan in Siria, cacciando oltre mezzo milione di palestinesi dai territori occupati. Dopo il 1967 Israele impone ai territori palestinesi pesanti barriere doganali, bloccando gli scambi commerciali con altri mercati arabi e assume il ruolo di unico partner commerciale e di polo accentratore di quasi tutta la manodopera palestinese, che sopravvive anche grazie alle rimesse degli emigranti e ai finanziamenti degli Stati arabi (nella striscia di Gaza circa il 40% degli abitanti è sotto la soglia di povertà, mentre in Cisgiordania è del 10%).
06÷25.10.73
Attacco improvviso della coalizione Siro-Egiziana, sostenuta finanziariamente e con truppe da altri Paesi arabi e africani, ai danni di Israele, nel giorno sacro dello Yom Kippur. Al termine di alterne vicende, con gli Israeliani in netta ripresa dopo la sorpresa e le perdite iniziali, le ostilità vengono interrotte grazie all’intervento diplomatico degli Usa, con gli accordi di Camp David del 1978. L’Egitto riconosce ufficialmente lo Stato d’Israele e quest’ultimo rinuncia definitivamente al canale di Suez e al Sinai. La Siria, viceversa, non riesce a riprendersi il Golan, occupato da Israele ancora ai giorni nostri.
1980
Israele dichiara Gerusalemme unificata come unica capitale dello Stato ebraico, per poi annettersi l’anno successivo le alture del Golan siriano già occupate.
1982
Inizio di azioni terroristiche in Israele ad opera di profughi palestinesi residenti in Libano; Israele reagisce occupando la zona meridionale del Libano.
1987
Inizio della prima “Intifada”. A Gaza vengono formati nello stesso periodo gruppi radicali di matrice islamica, armati, (movimento Hamas) che non si riconoscono nel troppo morbido OLP.
1990
La Siria nel 1990 impone al Libano la fine della guerra civile e instaura la propria egemonia nel Paese.
1993-2000
Gli accordi di Oslo siglati in questo periodo prevedono il riconoscimento da parte di Israele del mandato dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla striscia di Gaza e su alcune aree della Cisgiordania.
2002-2006
Israele costruisce in Cisgiordania un muro di 360 km che segue il confine del 1967, con ampie deviazioni a suo favore.
2005
I coloni ebrei abbandonano Gaza e la polizia egiziana subentra alle truppe israeliane.
2006
Le elezioni politiche all’interno della striscia di Gaza sono vinte dai radicali islamici di Hamas. Essi non riconoscono lo Stato d’Israele.
27.12.08÷18.01.09
Operazione “piombo fuso” dell’esercito israeliano condotta con il preciso scopo di «colpire duramente l’amministrazione di Hamas al fine di generare una situazione di migliore sicurezza intorno alla Striscia di Gaza nel tempo, attraverso un rafforzamento della calma e una diminuzione dei lanci dei razzi, nella misura del possibile». Durante i 23 giorni della campagna militare sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi (Piergiorgio Odifreddi, Repubblica.it).
2012
Le NU accettano la Palestina quale osservatore, ancora non come membro effettivo.
Attualmente in Israele vive circa il 40% degli ebrei del mondo (7.418.400, pari a 365 ab./kmq). La superficie della Cisgiordania e della striscia di Gaza è di poco superiore ai 6257 kmq, su cui vivono circa 3.800.000 palestinesi, con una densità media di 601 ab./kmq. A causa delle continue guerre con Israele la popolazione palestinese si è dispersa in molti territori: oltre 2 milioni sono emigrati in Giordania, circa 800.000 tra Siria e Libano, oltre 500.000 nei Paesi arabi del Vicino oriente, oltre 500.000 sono sparsi nel mondo; infine vi sono 800.000 unità nella Galilea del centro-nord e nella Giudea meridionale.
Un ultimo documento: le cartine riportate di seguito, molto note e diffuse da siti politici, ma anche dai social, vorrebbero dare un’idea della progressiva sottrazione di territorio a un futuro Stato palestinese. Come osserva argutamente Giovanni Fontana su “post.it” il 19/11/2012, «in queste quattro cartine si usano criterî completamente incoerenti per colorare di verde o di bianco le terre palestinesi e israeliane. In particolare, è ciò che viene definito “terra palestinese” a variare ogni volta al fine di suggerire l’idea di questo scenario fittizio: nella prima mappa è “terra palestinese” qualunque posto dove non ci siano ebrei (ma magari neanche palestinesi); nella seconda si considera “terra palestinese” quello che l’ONU aveva proposto alle due parti; nella terza si considera “terra palestinese” quella che era occupata dalla Giordania; nella quarta si considera “terra palestinese” quella che Israele riconosce come tale».
Spiega ulteriormente Fontana:
IMMAGINE UNO (1946) – La prima immagine di quella mappa, del ’46, considera “territorio palestinese” tutto quello che non è abitato da ebrei, anche le zone disabitate, cioè la maggior parte, come tutto il deserto del Negev (andato poi a Israele proprio perché disabitato). Se si evidenziassero come territorio palestinese solo i villaggi palestinesi e come ebreo tutto il resto, verrebbe una mappa uguale e contraria. Tutto ebreo – tutto bianco – e poche macchie arabe. Sarebbe, ovviamente, una frode anche quella.
IMMAGINE DUE (1947) – L’unica onesta. È il progetto di partizione della Palestina, la risoluzione 181 del novembre ’47, che – occorre ricordarlo – Israele accettò e Stati Arabi e palestinesi non accettarono. Se entrambe le parti avessero accettato la partizione, ora avremmo un territorio diviso a metà fra Palestina e Israele.
IMMAGINE TRE (1948) – Innanzitutto si parla di 1949-1967, quando invece è semplicemente l’esito della guerra che gli Stati Arabi dichiararono a Israele, e vinta dagli israeliani. Perciò è la situazione del 1948. Ed è quella attualmente riconosciuta dalla comunità internazionale. Al contrario di ciò che sembra suggerire la mappa, non c’è alcuna evoluzione dal ’46 al ’67: nel ’49, all’indomani della guerra, siamo già in questa situazione.
Anche qui, se uno volesse usare lo stesso criterio a parti invertite, e disegnare una mappa di quello che sarebbe stato l’esito se gli Stati Arabi avessero vinto la guerra, dovrebbe disegnare una mappa completamente verde: 100% di territorio palestinese, 0% di territorio israeliano. Solo che, a far così, ci si renderebbe conto che Israele, vincendo la guerra, ha sottratto ai palestinesi – con mezzi ben più che discutibili – il 20% del territorio rispetto alla 181; ma se gli israeliani avessero perso la guerra, Israele avrebbe perso, non il 20, ma il 100%. Naturalmente non è così, né in un senso né nell’altro, che ragiona chi vuole la pace.
IMMAGINE QUATTRO (1993) – La più bugiarda di tutte, che gioca sull’equivoco di cosa può voler dire “terra palestinese” nella maniera più brutale e menzognera, sostituendo a “cosa è terra palestinese” o “cosa la comunità internazionale considera terra palestinese”, addirittura “cosa gli israeliani considerano terra palestinese”. Ciò che è più offensivo è che, se quella fosse pacificamente la “terra palestinese”, la pace si farebbe domani, tradendo le aspettative di quattro milioni di palestinesi.
Se queste fossero le richieste dei palestinesi, cioè ritrarsi in un territorio fatto di enclavi e senza soluzione di continuità, e concedere a Israele più della metà delle proprio terre post-’48 (quindi l’80% del territorio mandatario), l’accordo sarebbe già firmato: neanche il più cinico degli israeliani, neanche Avigdor Lieberman, potrebbe sperare di meglio (per dire, a Camp David-Taba, nel 2000-01, gli israeliani avevano proposto ben più del doppio di questo territorio).
Quell’immagine è un incomprensibile miscuglio della Zona A e Zona B degli accordi di Oslo del 1993 (fra l’altro considera già palestinese anche la Zona B, quando essa è tuttora sotto dominio militare israeliano). In realtà, i palestinesi rivendicano come propria – e io credo legittimamente – molto di più di quell’immagine: per lo meno la zona C degli accordi di Oslo, come viene riconosciuto loro dalla comunità internazionale. Per giunta, la mappa sbaglia la data (2000 anziché 1993), probabilmente confondendo gli accordi di Oslo con i non-accordi di Camp David.
Ciò che più indigna è che, adottando il punto di vista del più falco degli israeliani, questa mappa considera gli accordi di Oslo come il punto di arrivo di una progressiva involuzione, anziché come l’unica concessione che i palestinesi hanno ottenuto negli ultimi sessant’anni, e l’unico spazio di autogoverno che sono riusciti a ritagliarsi».
Ed abbandonandoci all’unica considerazione/valutazione dell’intero articolo, crediamo che il delitto certamente più efferato all’interno di questa storia, la cui fine non è dato vedere e che si esaurirà solo quando la comunità internazionale occidentale saprà riacquistare in proposito autonomia e lucidità di pensiero, è consistito nell’avere inferto ad altri le sofferenze patite tre anni prima, non cento o mille anni prima: tre/quattro anni! Come può alloggiare una tale perfidia e brutalità in chi è stato appena vittima dello stesso trattamento?
Come riferisce in data 6 ottobre un organo che non è dato capire bene se sia un blog o un giornale, il cui nome è “Focus on Israel”, certamente un portavoce autorevole fra quelli in lingua italiana consultabili sul web, che si autodefinisce «sito di controinformazione indipendente, per monitorare i media italiani promuovendo i pochi contenuti validi che parlano in modo obiettivo di Israele e degli ebrei» (visita del14/10/2016, ore 0730), il Foglio del 4 ottobre ha così sintetizzato alcuni numeri afferenti al difficile rapporto tra Israele e le NU:
2.342, il numero delle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’Onu che fanno riferimento ai territori amministrati da Israele dal 1967 come “occupati”. Il termine appare nel 90 per cento dei documenti dell’Onu che vertono su Israele;
530, il numero di volte in cui Israele è indicato come “potenza occupante” nelle risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu;
513, il numero di risoluzioni dell’Assemblea generale dell’Onu che utilizzano il termine “grave” per descrivere le azioni di Israele, contro un totale di 14 per tutti gli altri conflitti che coinvolgono l’intera gamma di presunte o evidenti violazioni dei diritti umani;
273, il numero di volte che il termine “insediamento” è stato usato alle Nazioni Unite per descrivere le comunità civili israeliane create al di là delle linee di armistizio dopo la guerra del 1967. In nessun altro conflitto nel mondo che coinvolge un territorio conteso è stato applicato il termine “insediamento”;
12, il numero di risoluzioni con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu quest’anno ha condannato gli attentati terroristici in Francia, Sinai, Libano, Mali, Tunisia, Turchia, Iraq, Siria, Nigeria, Burkina Faso, Somalia e Sudan. Ma non una sola volta la vita degli israeliani uccisi dai terroristi è stata riconosciuta da questo Consiglio: nessuna condanna, nessuna espressione di solidarietà, nessuna espressione di preoccupazione;
1, Israele è l’unico Paese membro cui viene costantemente negata l’ammissione in un gruppo regionale, che è la struttura organizzativa attraverso la quale gli stati possono entrare a far parte di organismi e comitati delle Nazioni Unite. I Paesi arabi si rifiutano ancor oggi di permettere l’ingresso di Israele nel gruppo regionale asiatico, il raggruppamento geopolitico naturale di Gerusalemme. Israele è anche l’unico Paese al mondo che compare nell’ordine del giorno permanente del Consiglio Onu per i diritti umani;
0 (ZERO), il numero di volte in cui l’occupazione militare dell’Indonesia a Timor Est, della Turchia nel nord di Cipro, della Russia in aree della Georgia e dell’Ossezia, del Marocco nel Sahara occidentale, del Vietnam in Cambogia, della Cina in Tibet, dell’Armenia in aree dell’Azerbaijan come il Nagorno-Karabakh e della Russia in Ucraina e Crimea, è stata condannata alle Nazioni Unite. L’Onu non ha chiamato nessuno di questi Paesi “potenza occupante”. Mai, nemmeno una volta.
L’organo ebraico di controinformazione ipotizza un atteggiamento antisemita dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
è molto più probabile e plausibile che la spiegazione dei numeri riportati dal Foglio risieda nei modi in cui si è realizzata e nel sangue di cui si è macchiata l’espansione nel tempo dello stato israeliano con iniziative univoche e tollerate dagli Usa e da chi lo considera l’unico Paese democratico della Regione!
Enrico La Rosa
[1] Salt J., The Unmaking of the Middle East. A History of Western Disorder in Arab Lands, 2008, The Regents of the University of California, p. 118-119