Palestina, lo stato che non ci sarà? Le reazioni a tre settimane dall’incontro Trump-Netanyahu

di Luigi R. Maccagnani

Lo scorso 15 febbraio, nella conferenza stampa congiunta, a margine della prima visita a Washington del leader israeliano (significativamente a meno di un mese dall’insediamento del nuovo presidente americano), Donald Trump e Benjamin Netanyahu hanno commentato la situazione in Medio Oriente, ed in particolare la questione palestinese.

Qui di seguito i punti salienti della dichiarazione di Trump:

Iran: l’intesa sul nucleare mediata dall’amministrazione Obama, “uno dei peggiori accordi mai visti”.

Palestina: la creazione di due stati Israele-Palestina non più l’unica possibile, come sostenuto dalla comunità internazionale (sei risoluzioni del UNSC, sessantadue riunioni del Quartetto per la Pace): “sono aperto alla soluzione “due stati”, come pure a quella di “un solo stato”, la decisione spetta alle due parti, non mi sento vincolato da posizioni del passato”.

Insediamenti: Netanyahu, dopo un colloquio telefonico con Trump ad una settimana dall’insediamento di quest’ultimo, ha dato l’avvio alla costruzione di 6000 nuove unità abitative in territori palestinesi: il presidente americano durante la conferenza suggerisce al leader israeliano di “rallentare”.

Ambasciata: dopo la preoccupata reazione internazionale alla dichiarata intenzione di spostare la sede dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, il presidente americano ha rinviato la decisione dichiarando di “starci comunque pensando molto seriamente”.

La posizione di Netanyahu durante la conferenza è stata accomodante, senza spingere troppo né sulla questione Iran, né sugli insediamenti. Sarebbe interessante sapere cosa i due si siano detti in privato.

Il rapporto tra i due leader sarà verosimilmente favorito anche dal ruolo del genero di Trump, Jared Kushner, nominato dal suocero Senior Advisor alla Casa Bianca per le questioni medio-orientali.

Jared Kushner. 36 anni, di famiglia ebrea, magnati in campo immobiliare e frequentati da tempo da Donald Trump nell’ambito della comune attività imprenditoriale; nel 2009 sposa Ivanka Trump, figlia di primo letto del presidente americano. La storia americana dei Kushner ha inizio nel 1949, con l’arrivo del nonno paterno Joseph, sopravvissuto all’olocausto ed immigrato dalla Bielorussia, ed è Joseph Kushner a dare nascita ad un impero immobiliare – ora la holding Kushner Companies – che ad oggi conta, tra proprietà, sviluppo e management di più di 20.000 complessi multifamiliari, oltre un milione di metri quadri di spazi uffici, più aree industriali e commerciali in almeno 5 Stati. Artefice dell’espansione il padre di Jared, Charles, CEO della società dal 1985, fino a quando ha passato il testimone al figlio Jared (a seguito di una condanna per evasione fiscale).

Non risultano particolari collegamenti di Jared Kushner con Israele, ma il padre Charles ha un record di sostanziosi investimenti immobiliari nel Paese, oltre a generose donazioni in beneficienza e una conseguente rete di conoscenze altolocate.

Visto da Israele. Nulla da celebrare in Israele per il caldo abbraccio di Trump a Netanyahu”, scrive Akiva Eldar nel suo editoriale del 21 febbraio su Al Monitor: difficile negare il valore che un’amicizia personale tra il primo ministro israeliano ed il presidente americano possa avere nel rapporto tra un piccolo Stato e la maggiore potenza mondiale.

Certo, fa notare l’editorialista, se la posizione di Trump eviterà in futuro una risoluzione del Consiglio di Sicurezza contraria -come la 2334 del 23/12/2016 – agli insediamenti israeliani, altre sue decisioni, come quelle interpretate tout-court come anti musulmane, o il rapporto con Australia, Europa e Nato, possono causare un irrigidimento della comunità internazionale nei confronti dello stesso Israele. Un esempio: la crisi con il Messico a seguito del tweet del 28 gennaio u.s., in cui Netanyahu avallava “entusiasticamente” la costruzione del muro al confine USA-Messico.

A rafforzare l’incertezza e la perplessità sulla vera direzione che la nuova amministrazione statunitense prenderà, non solo verso Israele ma nell’intero scenario mediorientale, sono le stesse azioni del presidente, spesso contradditorie, aggressive e a volte “interpretate” e/o “corrette” dai suoi stessi funzionari, che sembrano affannarsi a smussarne gli spigoli.

Un’indagine demoscopica condotta nell’immediato dell’incontro di Washington DC (http://www.pcpsr.org/) indica che il 55% degli israeliani sarebbe favorevole alla soluzione dei due stati, mentre per i palestinesi i favorevoli sarebbero il 44%. Il condizionale è d’obbligo: la domanda del sondaggio viene probabilmente percepita come ipotetica, entrambe le parti sono infatti molto molto pessimiste sulla reale possibilità che ciò avvenga, oltre ad una totale diffidenza e timore reciproci, ed al fatto che il pensiero della gente comune non sempre coincide con quello di chi istituzionalmente li rappresenta.

Visto dai palestinesi. Dal 1967 al 2016, sei risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno dichiarato gli insediamenti israeliani in territorio palestinese non legali; dal 2002 al 2016, il cosiddetto Quartetto per la Pace in Medio Oriente (UN, EU, USA e Russia), si è riunito 62 volte cercando di promuovere una soluzione “a due stati”, e la continuazione/ripresa dei negoziati tra le due parti, oltre a reiterare via via la condanna dei nuovi insediamenti di Israele; due Conferenze per la Pace a Parigi, nel 2016 e 2017, cui hanno partecipato nella prima edizione 28 nazioni, nella seconda più di 70, stessi temi, stessi risultati. Si segnalano anche due analisi condotte dall’Ufficio per la Coordinazione degli Affari Umanitari dell’ONU, nel 2005 (aggiornato nel 2009) per Gaza ed in generale, con il rapporto Bertini, per i territori occupati. Dati questi precedenti, i palestinesi in generale hanno poca fiducia nella capacità (o volontà?) della compagine internazionale di promuovere efficacemente una soluzione definitiva, e la posizione di Trump viene generalmente considerata in linea con quanto avvenuto negli anni; preoccupa piuttosto la possibilità che la nuova amministrazione americana sospenda gli aiuti umanitari, in un momento di grave crisi economica per l’Autorità Nazionale Palestinese – PNA, mentre già prima dell’incontro Trump-Netanyahu era stata presa in considerazione la possibilità di presentare un’istanza al Tribunale Internazionale dell’Aia per chiedere sanzioni contro l’espansione degli insediamenti. Offensivo invece, come molti ritengono, il veto della nuova amministrazione americana alla nomina di Salam Fayyad quale rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la questione libica (UNSMIL), per la sola ragione che è “palestinese”: già primo ministro dell’Autorità Palestinese dal 2007 al 2013, Fayyad gode reputazione di persona trasparente ed affidabile: era probabilmente fra le persone più idonee a sostituire in questo momento Kobler come SRSG.

Ma il problema palestinese non è solo nel rapporto con Israele, o la scarsa efficacia delle iniziative internazionali, bensì la frammentarietà insita nella stessa compagine palestinese: esistono almeno tredici fazioni politiche e/o militari nate dopo l’istituzione, nel 1964, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e, anche raggruppandole sotto le tre maggiori associazioni, Fatah, Hamas per Gaza ed Hezbollah dal Libano, sono scarsamente d’accordo tra loro e tantomeno capaci di portare avanti un progetto comune.

In particolare, dall’agosto 2007 Fatah ed Hamas si contendono il ruolo di rappresentanti ufficiali del popolo palestinese, la prima con il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese avente come presidente Mahmoud Abbas (conosciuto anche come Abu Mazen), il più attivo a livello internazionale, mentre la seconda, che rappresenta la striscia di Gaza, è guidata dal neo eletto Yahya Sanwar, con un passato militare ed un lungo periodo nelle prigioni israeliane, dal 1988 al 2011, quando fu rilasciato in seguito ad uno scambio di prigionieri.

Hezbollah, di riferimento sciita piuttosto che sunnita come le altre due entità, ha sede in Libano.

Infine la situazione geografica: il territorio “palestinese”, insediamenti a parte, non è continuativo, ma composto da enclaves (cfr. la mappa post guerra dei sei giorni, 1967).

Interessante, in questo complesso scenario, la posizione dell’Iran che, dopo l’ordine esecutivo sull’immigrazione, emanato da Trump il 27 Gennaio, e la dichiarazione alla conferenza stampa del 15 Febbraio contro l’intesa sul nucleare, è entrato in gioco, ospitando a Teheran, il 21-22 febbraio, una conferenza cui hanno partecipato diverse fazioni palestinesi come Fatah, Hamas, Islamic Jihad e il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, mentre da parte iraniana sono intervenuti – tra gli altri – sia la massima autorità religiosa, Ayatollah Khamenei, che il presidente Rouhani.

L’Iran, rientrato di fatto nello scenario internazionale nel luglio 2015, dopo l’Accordo sul Nucleare, potrebbe pesare significativamente, sia come importante sostegno finanziario e militare a favore di una piuttosto che un’altra fazione palestinese, sia come attore nel più ampio contesto mediorientale.

Luigi Maccagnani