22/11/2017 – L’AJA, Ratko Mladic, 75enne “boia dei Balcani”, responsabile del genocidio di Srebrenica, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale internazionale delle Nazioni Unite per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra.
Si chiude, almeno per il momento, e solo limitatamente agli aspetti giuridici, la storia della strage di Srebrenica, piaga ancora purulenta nella coscienza della Serbia e spina nella memoria di molte famiglie bosniache private di tanti cari, il cui ricordo immaginiamo sia ancora vivo nella memoria dei superstiti.
Storia di un generale serbo che, per il suo operato, è stato definito “macellaio di Srebrenica” o “boia dei Balcani”:
Parallela e molto diversa la storia di un altro famoso generale serbo, Jovan Divjak, scrittore jugoslavo, bosniaco dal 1992, strenuo difensore di Sarajevo e della Bosnia-Erzegovina dalle truppe di aggressione serbe.
Oggi, in qualità di guida dell’associazione di impegno sociale denominata Obrazovanje gradi Bih (“L’istruzione costruisce la Bosnia”), ha affidato le sue memorie di quel periodo al libro “Sarajevo Mon amour”, pubblicato in diverse lingue all’estero . Arrestato dalla polizia serba nel marzo 2011, con addebiti relativi ai fatti bosniaci, è stato successivamente prosciolto per la totale infondatezza delle accuse.
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La problematica non è nuova per le pagine di <omeganews>.
Il giornale, forte della testimonianza di uno degli scrittori dell’epoca, Guido Monno, condivise il 7/3/2011 i suoi dubbi, espressi in una franca lettera al Direttore, che riportiamo di seguito.
http://www.omeganews.info/?p=197
Il generale Jovan Divijak
7 marzo 2011
Caro direttore,
se lo spazio del giornale lo consente, vorrei raccontare in poche righe di un incontro della mia vita, con una persona davvero speciale.
Ho avuto il piacere di conoscere il generale Jovan Divjak a Sarajevo a cavallo dell’anno 2000. Mi fu presentato da un’amica che avevamo in comune, Nadira Sehovic.
Divjak ci ricevette nel suo piccolo studio, ove gestiva un’organizzazione che aiutava gli orfani di guerra. Era fiero di quello che stava facendo e del fatto che il suo obiettivo fosse dare un po’ di serenità a ragazzi che la guerra aveva lasciato orfani non solo dei genitori, ma anche delle aspettative di vita. Dialogammo in francese e con quel po’ di serbo- croato (ora si chiamerebbe bosniaco) che stavo imparando, anche se dovetti spesso ricorrere all’aiuto di Nadira; comprendere una lingua è avvicinarsi all’anima di un popolo. Il Generale cercava attraverso piccole cose, di incoraggiare gli orfani ad affrontare un futuro che ai loro occhi appariva terribile. Chi sia stato in quella splendida città che era ed è Sarajevo, e ne abbia conosciuto gli abitanti, la cultura e la serenità, particolarmente negli anni in cui gli accordi di Dayton cercavano di produrre degli effetti, non potrà scordarsi gli orfani. Ne ho avvicinato diversi, di tutte le etnie, accomunati da una tragedia comune, e passati attraverso esperienze terribili.
Jovan Diviak cercava di fare del suo meglio per riportare questi ragazzi alla normalità. Era stimato da tutti, a Sarajevo, per la sua umanità, cultura e aspirazione ad una Bosnia multietnica e multiculturale. Era stato fra i militari di origine serba della Jugoslovenska Narodna Armija (JNA), come allora si chiamava, a transitare nelle fila dell’esercito bosniaco. Era famoso, tra l’altro, per due motivi: aver dato della scimmia a Mladic[1] ed aver restituito i gradi all’allora presidente della Repubblica di Bosnia, Alija Izetbegović, accusandolo di non adottare politiche equanimi all’interno della neonata repubblica.
Ho avuto l’impressione di un uomo che tentava di creare una repubblica multietnica e libera, in cui le compagini nazionaliste che si contendevano il potere perdessero consensi. In Bosnia i tentativi del consesso internazionale non hanno sortito i risultati sperati. La privatizzazione forzata, vista come panacea di tutti i mali, ha di fatto permesso a grosse industrie europee di impossessarsi di risorse a basso costo, non favorendo in alcun modo lo sviluppo economico nazionale. I tentativi di ricreare un tessuto multietnico in alcune zone ove le evictions avevano di fatto creato territori uniformi sotto il profilo etnico non hanno funzionato. Hanno resistito quelle aree ove il sentimento comune di appartenenza ad una società più che ad un’etnia si è rivelato molto forte, come Tuzla. Numerosi sono stati i tentativi di persone con impostazione liberale e multiculturale di far superare i drammatici momenti e solchi scavatasi da una guerra tremenda, fratricida, troppo presto scomparsa dalla memoria collettiva europea perché si potesse costruire una società nuova. Spesso tali idee sono state frustrate da un nazionalismo parossistico, in cui si riconoscono le identità etniche.
Vengo ora a sapere che è stato arrestato in Austria[2] a seguito di ordine di cattura emesso dalla magistratura serba, in quanto si sarebbe macchiato di crimini di guerra nel 1992 a Sarajevo.
Non so se Jovan Divjak sia veramente colpevole di quanto accusato. In assenza di elementi per poter esprimere un giudizio, e sino a prova contraria, rimango convinto dell’onestà morale ed intellettuale dell’Uomo e della sua innocenza.
Sono gli immancabili strascichi di ogni guerra. E non posso fare a meno di pensare al dramma di quella guerra visibile, nella Sarajevo conosciuta all’epoca, nel paesaggio stesso e nei lugubri segni rossi di pittura sui marciapiedi a significare il luogo di alcune tra le più tragiche stragi e i morti di quella guerra; nella Mostar separata da un muro fisico costituito dai fabbricati crivellati di colpi lungo le rive della Neretva o nell’impressione drammatica del famoso ponte distrutto alla cui vista le lacrime salivano agli occhi di chi come me è abituato a pensare ai ponti come a strutture che uniscono. Ed in tanti altri luoghi di questa splendida terra in cui parte del mio cuore è rimasto.
Non posso non pensare agli sguardi di quei bambini orfani ed all’amore dei loro insegnanti e assistenti. Ed all’espressione felice e determinata di Jovan Divjak quando pensava a quello che aveva fatto e a quello che aveva in animo di fare per loro.
Spero che Lei sia in grado di uscire da questa storia a testa alta, come ha sempre fatto, generale Divjak.
Guido Monno
[1] Fatto riportato anche nella prefazione scritta dal giornalista e scrittore Paolo Rumiz al libro “Sarajevo mon amour” di Jovan Divjak
[2] http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/04/news/divjak_arresto-13184793/
http://www.repubblica.it/esteri/2011/03/07/news/divjak_no_estradizione-13290994/
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Successivamente, il 5!12/2012, omeganews pubblicò un articolo di Veronica Garasi, contenente interessanti considerazioni su alcuni aspetti della questione balcanica.
Eccolo, qui riproposto:
http://www.omeganews.info/?p=1639
SARAJEVO, BOSNIA-ERZEGOVINA TRA MULTICULTURALISMO E RADICALISMO
5 dicembre 2012
di Veronica Garasi
L’attentato del 28 ottobre del 2011 contro l’ambasciata americana a Sarajevo ha riportato nuovamente l’attenzione sul radicalismo in Bosnia-Erzegovina. Al fine di comprendere il fenomeno del radicalismo è necessaria una conoscenza storica di questo Paese, il quale è da sempre stato intimamente legato alla religione musulmana.
Durante il dominio Ottomano comprendente gli anni dal 1463 al 1878, infatti, la religione musulmana era considerata più quale un vero e proprio principio di coesione sociale, anziché una mera religione. Successivamente, con il dominio dell’Impero Asburgico, si registrò il riconoscimento di alcune comunità religiose, quali la comunità cattolico romana, la comunità cattolico greca, serbo ortodossa, evangelica ed infine quella islamica. La religione musulmana si vide privata del suo secolare primato, e molti bosniaci per reazione si impegnarono nella creazione di una gestione degli affari musulmani separata dalla gestione dello Stato. Sarà in seguito alla caduta della monarchia asburgica avvenuta nel 1918 che si registreranno ulteriori cambiamenti. Ricordiamo infatti l’anno 1930, quando il Re del Regno di Jugoslavia Aleksandar Karadordevic richiese una gestione unificata degli affari religiosi per tutti i musulmani del Paese, in conformità con la propria ideologia “unitarista”. Ma non possiamo esimerci dal citare anche le conseguenze post 1945 che misero a punto una virata politica del regime socialista, il quale, se fino a prima si era chiamato fautore di una gestione degli affari religiosi unita, successivamente si dovette rifare al principio secondo cui “la religione è affare privato dei cittadini” tanto che si attuò una separazione tra Stato e religione.
Sarà propriamente la guerra in Bosnia-Erzegovina a mostrare la palese tensione tra i bosniaci ed i musulmani nel paese. Questi ultimi si dicevano intenzionati a porre in atto una vera e propria opera di politicizzazione e rivitalizzazione del Paese, con l’appoggio di ONG del Medio Oriente.
Non poco significativi sono i dati che risultano dal censimento avvenuto nel 1991, che documentano il multiculturalismo del Paese stesso, il quale vede la religione musulmana professata da una larga maggioranza, seguita da una presenza rilevante di ortodossi e cattolici. Tuttavia la convivenza tra bosgnacchi, serbi e croati ha potuto mantenersi “pacifica” fino al 1991. Ad oggi, nella quotidianità, la coabitazione di queste diverse culture è stata e continua ad essere possibile grazie al rispetto del principio di rapporto di buon vicinato. Ma le divergenze tra queste culture sorgono quando si opera un confronto a livello politico, con conseguenti tensioni e conflitti.
Due grandi correnti religiose contraddistinguono oggi il radicalismo in Bosnia-Erzegovina, si tratta della corrente wahabita e della corrente salafita.
La prima prende il nome da Wahab, teologo nato nell’odierna Arabia Saudita, sostenitore di Allah quale unico Dio; si scagliava fortemente contro l’iconografia denunciando la tendenza politeista imputabile all’Islam moderno. Seppur pochi siano i seguaci della corrente fondamentalista wahabita, questa, grazie alla lettura in chiave nazionalista della tradizione e della cultura musulmana, e grazie anche alle diverse crisi economiche e sociali, ha potuto riscuotere maggiori consensi ed attrarre seguaci, soprattutto fra i più giovani.
La corrente salafita, anch’essa musulmana, si definiva inizialmente quale un movimento riformista ma con il tempo è divenuta sempre più sinonimo di fondamentalismo. Sostenitori del Corano e dalla Sunna, quale codice di comportamento, i Salafiti si distinguono in differenti correnti che si identificano nel Salafismo rivoluzionario, in quello di predicazione ed in quello politico.
Ebbene il radicalismo in Bosnia-Erzegovina, sta minando il secolare esempio che questo Paese ci ha mostrato per mezzo secolo, ossia quello di una convivenza civile e possibile. Allora ci chiediamo: potremmo ancora definire Sarajevo come la nuova Gerusalemme d’Europa? Il radicalismo è veramente una minaccia per la democrazia?
Sarajevo è una città martire di guerra, una città in cui i palazzi sono ancora segnati dalle ferite del conflitto. A distanza di vent’anni dalla guerra la Bosnia-Erzegovina rimane ancor oggi un dilemma, e le 11.541 sedie rosse vuote disposte nell’aprile di quest’anno sulla strada principale di Sarajevo disegnavano una linea rossa che attraversava una città ferita, stanca, che ha pagato con moltissime vite umane gli orrori della guerra. Il radicalismo per Sarajevo, come per tutta la Bosnia-Erzegovina è sempre più una reale minaccia per la democrazia.
Nella prospettiva di una eventuale futura adesione nell’Unione Europea, si può oggi sperare in cambiamenti reali, in linea con gli Accordi di Stabilizzazione e Associazione firmati nel giugno del 2008, ma il cammino sembra molto lento, e la strada verso una reale integrazione rimane decisamente impervia.
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Qualche giorno dopo, la Redazione del giornale sentì la necessità di pubblicare un articolo di più ampio respiro, nel quale la questione balcanica fu inquadrata all’interno di una certa narrazione mediterranea.
Di seguito il testo dell’articolo:
http://www.omeganews.info/?p=1647
Violenza mediterranea, politica, etnica e religiosa
9 dicembre 2012
By Enrico La Rosa
Qualche considerazione sulle origini storiche
L’ultimo articolo di Veronica Garasi sulla crisi bosniaca ci da lo spunto per qualche considerazione generale sulle origini del terrorismo mediterraneo, ammesso che sia possibile risalire alla origine di una delle attività ricorrenti del genere umano, sotto ogni latitudine.
Il terrorismo, in generale, è una faccia del male, è un’attività contro l’umanità, è sicuramente una manifestazione negativa dell’uomo. Riesce ad attrarre qualche scusante quando viene esercitato in guisa di unica possibile contrapposizione ad un invasore o a un tiranno. Non è giustificabile neppure in una siffatta occasione, ma, al tribunale della “coscienza”, può sperare nella benevolenza di qualche attenuante, comunque ininfluente sul giudizio finale.
Il terrorismo di matrice islamica, propria delle componenti “fondamentaliste” della complessa nebulosa musulmana, è, anch’esso, una attività da condannare senza riserve. Se ci chiedessimo quale sia stata la sua origine, sarebbe molto difficile fornire risposte sicure. Una delle poche certezze consiste nella paternità del termine “fondamentalismo”, nato nel 1920 negli Stati Uniti d’America, allorché i teologi cristiani conservatori, per contrastare l’affermarsi delle teorie evoluzioniste, promossero la pubblicazione di libricini che riaffermassero i principi fondamentali della dottrina cristiana; questi libri si chiamavano “The Fundamentals” e questo atteggiamento di tipo reazionario fu battezzato “fondamentalismo”, per la prima volta nella storia dell’umanità ad opera di settori appartenenti alla religione cristiana. La visione “fondamentalista” nel mondo cristiano è figlia dell’intransigenza calvinista e luterana e del radicalismo dei comportamenti e delle dottrine di area “mitteleuropea“. Ci riesce difficile concepire una simile visione della vita e dei dogmi in un mondo variegato e plastico, forse anche troppo, forse troppo incline al compromesso, come quello mediterraneo.
Ma questo non è un articolo a sfondo etico, o filosofico, o antropologico. Non ne abbiamo competenza ed è nostra intenzione percorrere semplicemente qualche sentiero ‘storico’. Per cui, tornando alle ipotesi del radicamento dell’integralismo islamico, è cosa davvero molto difficile risalire alle sue origini storiche e motivazionali. Certamente lo ha favorito l’infausta ed irresponsabile gestione che fecero dei territori dell’ex impero ottomano gli anglo-francesi intorno agli anni ’20 del secolo passato, nella totale indifferenza dell’alleato americano, nel cieco e sistematico disprezzo della visione italiana e tedesca e nella totale indifferenza verso le istanze delle popolazioni e delle classi dirigenti locali. Certamente ha influito la dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917, che, nella veste di ministro degli Esteri di S. M. britannica, scriveva al Barone Lionel Walter Rothschild, in qualità di principale esponente della comunità ebraica inglese, assicurando che “Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni“. Un’altra circostanza influente è certamente stata il non avere represso con sufficiente durezza le intemperanze politiche e le azioni militari di Vladimir Jabotinsky, attivista sionista di origine russa e fondatore della Legione Ebraica inquadrata nelle forze di Allenby.
Tanti altri danni sono stati commessi in quegli anni dal comportamento irresponsabile e fortemente utilitaristico degli alleati franco-anglo-americani, causa di nefaste conseguenze sui futuri assetti del Mediterraneo, spesso irreversibili, e sui destini del mondo intero sotto il profilo della pace e degli equilibri economici. La sede e gli spazi del giornale non ci consentono ulteriori approfondimenti, tranne segnalare che certamente non ha scoraggiato il nascere dell’estremismo islamico l’imposizione “atipica” ed unilaterale dello Stato d’Israele, né la mancata restituzione dei territori occupati nel 1967, in dispregio delle risoluzioni delle NN.UU.
Ma, per capire a fondo la situazione odierna ed eventi più prossimi a noi, come quelli che si sono consumati in Bosnia, non ci si può non soffermare sui germogli degli eventi di oggi, ossia su quanto accaduto tra gli anni ’70-80.
Anche in questo periodo gli errori commessi dagli alleati anglo-americani si sono ritorti su loro stessi e sulla stabilità del Mediterraneo, ma nessuna Corte internazionale di giustizia si sognerà mai di emettere nei loro confronti accuse in merito alle numerose stragi che il loro comportamento irresponsabile e superficiale ha causato.
Esaminiamo la cornice spazio-temporale e ci riserviamo di soffermarci, successivamente, sul contenuto del quadro. Andiamo intanto a vedere gli eventi che andavano maturando nella Regione nel periodo citato:
– 1/9/69 – Libia – Deposizione di re Idris. Il Paese, ribattezzato Repubblica araba di Libia, viene governato da Muhammar el-Gheddāfī. Il 2/3/77 viene proclamata la Jamāhīriyya (repubblica delle masse).
– 16/1/1979 – Iran – Lo scià è costretto a fuggire mentre Khomeyni instaura una “repubblica islamica”, diventandone la guida spirituale. La responsabilità degli anglo-americani, in questo caso, è una realtà storica. Se nel 1953 non avessero congiurato per affossare Mossadeq, vero leader che da troppi anni era mancato all’Iran, fautore di una linea autonoma e nazionalista, autore dell’evacuazione dei Britannici dall’insediamento petrolifero dell’isola di Abadan nel settembre 1951, non si sarebbe avuto il rientro e l’assunzione del potere dell’ayatollah Khomeyni, che accorre dalla Francia per scacciare il corrotto Scia, Reza Pahlavi.
– 7/11/87 – Tunisia – Il generale Zine El-Abidine Ben Ali, primo ministro dal 1º ottobre, depone il presidente Bourguiba per senilità: un vero e proprio colpo di stato, “medico”.
– 24/12/79 – 15/02/89 – Guerra russo-afghana – Peshawar, Cia e Scotland Yard, Arabia Saudita, Europa e connivenze – Secondo quanto riportato in molti dei volumi di retrospettiva storica e documentale sui fatti d’Algeria, con particolare riferimento al contenuto del libro «Les Afghans Algériens – De la Djamaâ à la Qa’îda», di Mohamed Mokeddem, pubblicato nel 2002, e all’articolo «Permissivismo di Londra sulle reti di sostegno» comparso sul quotidiano algerino El Watan in data 2-3 febbraio 1998 a firma di Salima Tlemçani, giornalista algerina di rigorosa onestà e di sicura attendibilità, si può affermare che la casa reale saudita si fece promotrice del reclutamento di giovani provenienti dai Paesi musulmani destinati a supportare sul campo i fratelli musulmani in difficoltà. Gli oneri derivanti dall’operazione furono interamente sostenuti dal Paese saudita: 3000 giovani furono inviati a combattere la guerra santa in Afghanistan. Prima di giungere a destinazione, essi facevano tappa a Jeddah, dove venivano presi in consegna dalla CIA o da Scotland Yard. A Peshawar i «combattenti» venivano addestrati dai servizi americani e britannici a maneggiare armi e a fabbricare ordigni esplosivi rudimentali. E’ stato insegnato loro come fosse possibile e facile fabbricare dal nulla una bomba o un lancia-granate. Furono, inoltre, addestrati alla condotta della guerriglia urbana ed all’esecuzione di attentati con incursioni micidiali dirette verso singoli obiettivi. L’impiego sul campo, l’addestramento alle tecniche di combattimento ed una certa attitudine all’audacia vengono inculcate a questi combattenti da Oussama Ben Laden.
Il loop si richiude in Algeria, dove questi giovani fanno ritorno a guerra finita, imbevuti di ideologie rivoluzionarie nel nome di Allah, ispirati dalla riuscita dell’avventura khomeynista, impossessatisi dell’arte del combattimento e di una certa familiarità con armi ed esplosivi, investiti dall’onda d’urto della tragedia politico-sociale-economica algerina, disoccupati ancora più di quando erano partiti, pieni del rancore proprio di tutti i reduci, disadattati e spaesati, in una parola interpreti dello scontento popolare, che ritengono di dovere e potere facilmente cavalcare, interpretare ed estirpare.
Impressionante l’escalation dell’islamizzazione radicale in Algeria, in sintonia con le tappe sopra elencate: il 4 ottobre 88 iniziano le manifestazioni contro la penuria di alcuni beni di prima necessità. I dimostranti chiedono anche più giustizia. Scoppia la rivolta del pane che mette a nudo il grande malessere esistente nella maggioranza della popolazione; il 18 febbraio 89 presso la moschea Es-Sunna di Bab El-Oued, presso cui predica l’imam Ali Belhadj, viene fondato il Fronte Islamico di Salvezza (F.I.S.); il 14 settembre 89, a seguito dell’approvazione a mezzo di referendum della nuova costituzione che introduce il multipartitismo, viene legalmente riconosciuto il FIS, Fronte Islamico di Salvezza; il 21 dicembre 89 si ha una manifestazione di donne a favore della sharia; il 20 aprile 90 si ha una manifestazione ad Algeri a favore del FIS; il 12 giugno 90 si svolgono le elezioni per il rinnovo delle Assemblee Regionali e Comunali. Il FLN (ex partito unico) perde diversi collegi. Il FIS vince con oltre 3 milioni di voti. il neo costituito Fronte Islamico della Salvezza conquista la maggior parte dei comuni e delle wilaya (prefetture); il 26 dicembre 91 il FIS vince il primo turno delle elezioni legislative, che vengono interrotte dopo il primo turno, in reazione alla inaspettata netta prevalenza del FIS ed alla possibilità di una maggioranza assoluta di questo partito nella futura Assemblea legislativa; 11 gennaio 92, il Presidenta Chadli viene costretto dai militari a dimettersi; 12 gennaio 92, l’Alto consiglio di sicurezza annulla le elezioni legislative; 14 gennaio 92, prende il potere l’Alto Consiglio di Stato (HCE) presieduto da Mohammed Boudiaf, richiamato dal Marocco ove si era autoesiliato fino dal 1968; 4 marzo 92, l’ Alto consiglio di sicurezza annulla le elezioni legislative; 4 marzo 92, messa al bando del FIS; 15 luglio 92, Madani e Belhadj (n. 1 e n. 2 del FIS) condannati a dodici anni; 26 agosto 92, attentato all’aeroporto di Algeri: 9 morti, 128 feriti; 1 ottobre 92, promulgazione della legge antiterrorismo.
A questo punto fu chiaro ai gruppi armati che le cose in Algeria avevano subito un inatteso rallentamento e che le prospettive temporali per l’instaurazione di una repubblica islamica si dilatavano sensibilmente.
Molti di questi combattenti accorsero, allora, in soccorso dei “fratelli” bosniaci, nella loro lotta regionale. L’intera vicenda balcanica si era andata complicando parecchio a causa del fallimento dei tentativi di separare pacificamente popoli dalla convivenza problematica eppure spesso fortemente mescolati sul territorio. E’ risaputo che durante i fatti di Bosnia-Erzegovina erano presenti molte cellule di combattenti <algerini>. Come è altrettanto riscontrabile la decisione di alcuni di essi di stabilirsi alla fine della crisi in Bosnia, dove attualmente vivono da residenti.
E’ questo il quadro complessivo nel quale scoppiò la crisi bosniaca del 91/95, l’assedio di Sarajevo del 92/96 e l’atroce massacro di Srebrenica del luglio ’95, genocidio e crimine di guerra. La durezza del conflitto essenzialmente etnico, lo scontro serbo-croato e la resistenza contro la repressione serba da parte dei Kosovari albanesi, con tutto quello che ne conseguì, sono stati fenomeni i cui effetti resero ingestibile la situazione, anche in virtù dell’infiltrazione nell’area di componenti esterne ad alto potenziale destabilizzante, quali il terrorismo islamico in Bosnia-Erzegovina e la mafia russa in Montenegro. Si ha anche ragione di credere che attraversassero l’intera area, con complicità e connivenze anche visibili, le linee di rifornimento degli stupefacenti afghani trasportati via terra verso l’Europa.
La crisi bosniaca segnò l’esordio operativo della multinazionale del terrorismo islamico, una sorta di <Internazionale Islamista>, virtuale e mai proclamata, che, negli anni successivi, si è ricompattata diverse volte ed in varie parti del mondo.
Enrico La Rosa
Nota:
Le foto dal n. 1 al n. 6 sono immagini storiche tratte dal catalogo di foto di Michael von Graffenried, distribuito dalla Fondazione Mohamed Boudiaf, tratto dall’opera dello stesso autore intitolata “Algérie, photographies d’une guerre sans immages“.
Per l’esattezza:
Foto n. 1 – <Manifestazione del FIS, dicembre 1991>
Foto n. 2 – <Il quartiere Raridi (الغاريدي) dopo l’attentato contro le famiglie delle forze di sicurezza>
Foto n. 3 – <Hassan al ba’ia’,(حسن البائع) vittima di una bomba esplosa sotto il banco degli ortaggi>
Foto n. 4 – <Nel cimitero di “ Al alia” caduti, parenti dei gruppi armati vengono a visitare la tomba di uno dei loro sulla la quale è scritto: “ Martire della patria algerina”>
Foto n. 5 – <“Patriot”, a Iqujd, in Algeria, 1994>
Foto n.6 – <I giovani, il prato rosa e un fucile da caccia>, Algeria, 1994
Foto n. 7 – <Red chairs are displayed along a main street in Sarajevo as the city marks the 20th anniversary of the start of the Bosnian war on Friday>, April,6, 2012. Photo: AP/Amel Emric, tratta dal sito Internet <http://www.scotsman.com/the-scotsman/international/in-pictures-sarajevo-marks-siege-of-city-20-years-on-with-red-line-1-2220902>