di Luigi R. Maccagnani
Dopo il veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza di lunedì 18 dicembre, sulla decisione del presidente Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto Gerusalemme quale capitale dello stato di Israele, Turchia e Yemen (la prima che ospita il summit dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, la seconda come presidente di turno del gruppo dei paesi arabi all’ONU) hanno sollecitato una riunione di emergenza dell’Assemblea Generale, come previsto dalla risoluzione 377-1950.
La procedura evocata (http://legal.un.org/avl/ha/ufp/ufp.html) consente di convocare una riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per valutare una questione e concordare una misura condivisa su di un evento “critico per la pace mondiale”, e per cui dal Consiglio di Sicurezza non sia scaturita una posizione unanime tra i membri con diritto di veto, USA-Cina-Francia-Germania-Regno Unito. Le decisioni dell’Assemblea Generale, qualora convocata in base alla suddetta risoluzione, non hanno valore vincolante, costituiscono solo una “raccomandazione” espressa dall’Assemblea dopo aver valutato sia il merito della questione sia la motivazione del veto che ne ha bloccato l’iter al Consiglio di Sicurezza: una raccomandazione non vincolante – appunto – ma sicuramente di notevole peso politico.
Nella riunione del 21 dicembre, 128 nazioni hanno condannato la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme – implicitamente prima, ma in seguito esplicitamente – come capitale dello stato di Israele, con riferimento alle precedenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sullo stato giuridico di quella città; a favore della decisione di Trump hanno votato nove paesi (USA ed Israele naturalmente, poi Guatemala, Honduras, Marshal Island, Micronesia, Nauru, Palau, Togo); gli astenuti sono stati 35, tra cui Messico, Polonia, Romania e Ungheria.
Da notare il voto di condanna dell’Arabia Saudita, che con l’amministrazione Trump ha sviluppato in questo ultimo periodo una relazione privilegiata, tanto da lasciar credere che fosse in linea con Trump su Gerusalemme. Né i 128 sono stati frenati dalle “minacce di ritorsioni economiche” degli Stati Uniti, che hanno ripetuto più volte attraverso le parole del loro rappresentante, Ambasciatrice Nikki Haley, che avrebbero tenuto conto del voto a loro sfavore modificando – per esempio – la loro politica di aiuti.
La reazione di Israele è stata immediata: Netanyahu si è detto disgustato dalla decisione, che comunque secondo lui non avrà conseguenze, tanto da affermare, in una intervista alla CNN del 23 dicembre, che già diverse nazioni gli avrebbero confermato l’intenzione di spostare la loro ambasciata a Gerusalemme. Di fatto, diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – peraltro vincolanti – sull’illegalità degli insediamenti israeliani in territorio palestinese, sono state bellamente ignorate. La Casa Bianca comunque conferma, alla vigilia di Natale, la decisione di considerare Gerusalemme capitale dello Stato di Israele, palesemente infischiandosene della risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite ad essa contraria, mostrando freddezza ed indifferenza all’opinione di pur importanti partners degli Stati Uniti.
Nel frattempo, dal 6 dicembre, data dell’annuncio di Trump sullo spostamento dell’ambasciata, sono continuate le proteste palestinesi sia nella striscia di Gaza che in Cisgiordania, con scontri con l’esercito israeliano e diversi morti, mentre i leader palestinesi rifiutano di incontrare rappresentanti statunitensi o i cosiddetti mediatori del processo di pace.
Controverse anche altre posizioni del presidente americano in politica estera (e non solo): di questi giorni l’altolà della Russia nei confronti dell’iniziativa USA di fornire armi pesanti all’Ucraina, per non parlare della posizione americana nei confronti della NATO o le mosse di Trump nel teatro asiatico. In Medio Oriente, inoltre, dove Trump è stato particolarmente attivo con forniture di armi speciali all’Arabia Saudita (ci si interroga su quale sia il suo rapporto con il 31enne erede al trono saudita Mohammad Bin Salman, e sul ruolo del genero del presidente, il 35enne Jared Kushner).
Jared Kushner: di famiglia ebrea sopravvissuta all’olocausto, il nonno Joseph emigrò negli Stati Uniti dalla Bielorussia nel 1949, ponendo le basi di un impero immobiliare poi sviluppato dal padre di Jared, Charles Kushner. Coinvolto in scandali per finanziamento illegale a candidati politici, evasione fiscale e corruzione di testimoni, Charles Kushner ha passato al figlio Jared le redini dell’impresa miliardaria “The Kushner Companies” nel 2008. Nominato Senior Advisor della Casa Bianca all’istallazione del suocero come presidente degli Stati Uniti il 20-01-2017, Jared Kushner è stato molto attivo in Medio Oriente, apparentemente con delega completa da parte di Trump.
Non risultano frequentazioni particolari del giovane Kushner in Israele, o comunque nel Medio Oriente, prima di divenire Senior Advisor, tuttavia il padre Charles è molto conosciuto in Israele, ed in particolare a Gerusalemme, avendo investito nel campo immobiliare ed essendo stato particolarmente attivo in progetti di beneficenza e filantropia. Una connessione?
AGGIORNAMENTO AL 26 DICEMBRE
Il Guatemala, che già aveva votato a favore di Gerusalemme capitale, ha annunciato, il 25 dicembre, di voler seguire gli Stati Uniti e che quindi sposterà la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Per entrambi i paesi la data del trasferimento non è ancora stata decisa.
Si ricorda che il Guatemala è all’interno del programma USAID, con un contributo nell’anno fiscale 2016 di circa 98 milioni e mezzo di dollari.
Contestualmente l’ambasciatrice americana all’ONU, Nikki Halei, ha annunciato che per l’anno fiscale 2018-19 gli Stati Uniti taglieranno di oltre 285 milioni il loro contributo alle Nazioni Unite, adducendo a motivo continue inefficienze e sprechi, ma chiaramente come palese ritorsione alla risoluzione dell’Assemblea Generale sullo stato di Gerusalemme.
Difficile stabilire quanto questa riduzione incida sul totale contributo degli USA all’ONU: al di là della partecipazione alle ordinarie spese di gestione, stimata intorno ai 5-600 milioni di dollari per anno fiscale, e a quello per le spese di peacekeeping che supera i 2 miliardi di dollari, gli USA contribuiscono, finanziando in quota-parte, a molte altre attività delle Nazioni Unite. Il Dipartimento di Stato ha dichiarato, negli anni, importi dai 4,5 ai 6 miliardi di dollari (spesso comunque accumulando “debiti” – rispetto all’impegno preso – anche di 1,5 miliardi/anno).
Luigi R. Maccagnani
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