Antiche sentinelle affacciate sul mare
Tratto da “Il Manifesto” del 18.3.2011 di Maurizio Giufrè
Il reportage di un architetto che, avendo fatto parte dell’équipe inviata più volte in Libia per collaborare a interventi di restauro dell’edilizia fascista, racconta le meraviglie di Cirene, l’Atene d’Africa, dell’antica città romana di Sabratha, fondata dai fenici, e delle imponenti e lussuose costruzioni di Leptis Magna
Sulle coste della Tripolitania e della Cirenaica si alternano terminal petroliferi e piccoli villaggi di pescatori, aree militari severamente protette e vivaci centri urbani ma, soprattutto, su quelle sponde di sabbie e rocce tenere resistono all’erosione del tempo e ai cataclismi, non solo naturali, vaste e importanti aree archeologiche di straordinario valore storico e artistico. Sabratha, Leptis Magna, Cirene, Apollonia sono le località più note che già l’Unesco, nel 1982, dichiarò patrimonio dell’umanità e che con molte difficoltà sono state tutelate fino a oggi dal Dipartimento delle Antichità con le poche risorse messe a loro disposizione dal colonnello Gheddafi. È stata una fortuna avere visitato le antiche vestigia romane e greche della Libia poco prima che esplodesse la guerra civile, il cui esito resta incerto. Gli scontri si svolgono soprattutto nelle aree costiere libiche, e non si può non includere nei nostri pensieri anche quel ricco e unico patrimonio monumentale così fragile e vulnerabile rappresentato dalle antiche vestigie della nostra «quarta sponda».
Da Tripoli a Sabratha
La specificità di questo enorme patrimonio archeologico è la sua collocazione geografica, che non è isolata bensì integrata alla vita agricola e incrocia i modesti commerci dei centri urbani sorti nelle loro vicinanze. Piuttosto, la coesistenza con quelle rovine è avvenuta tra l’indifferenza e l’ignoranza che un po’ dovunque hanno compromesso il paesaggio circostante con un’edilizia povera e autocostruita. Nulla poi di così diverso da ciò che è successo da noi e in anni non troppo lontani: Agrigento docet, come anche Pompei. La strada trafficatissima da Tripoli per Sabratha è una fila interminabile di costruzioni basse e arrangiate che, come trincee, sbarrano lo sguardo verso la campagna e all’interno delle quali si svolge ogni genere di commercio; quando terminano è facile, compiendo una modesta deviazione, trovarsi davanti l’ingresso che immette nell’antica città romana, già colonia fenicia, di Sabratha. Il museo romano, restaurato due anni fa con il contributo dell’Eni dopo un lungo periodo di abbandono, è una architettura del razionalismo italiano dei primi anni ’30, testimonianza dell’impegno degli archeologi italiani che dal 1920 hanno scavato e ricostruito molto in questo sito. È nel museo che si conserva il mosaico pavimentale della Basilica giustianea (I sec. d.C.), che Cesare Brandi definì «la più bella opera d’arte, in via assoluta, che sia superstite in Tripolitania», non capendo come un simile capolavoro potesse essere stato pensato per un piano terra come non accadde né a Santa Sofia né a San Vitale. È però il teatro romano (risalente al 119 d.C.) il monumento che per la sua mole catalizza l’attenzione del visitatore. Italo Balbo volle che fosse ricostruito con solerzia dagli archeologi Giacomo Giusti e Giacomo Caputo ma quanto fedelmente è oggetto di qualche dubbio. Il teatro emerge su una distesa di rovine sparse sul terreno con la sua scena composta da tre ordini di colonne architravate che si infrange sul fondale azzurro del mare. Un’alta recinzione metallica lo circonda sul retro dell’emiciclo: la sola protezione in un’area dove i reperti marmorei affiorano sul bagnasciuga, i mosaici si distendono come tappeti all’interno delle rovine delle terme e delle domus e le colonne, in fila o a gruppi, sono come inutili sentinelle su un orizzonte che adesso immaginiamo attraversato dall’aviazione della Gran Jamahiriya diretta a bombardare gli insorti.
Nel riaprire la mappa di Leptis Magna, che ho acquistato con altri modesti documenti nell’unico polveroso bookshop disponibile sul posto, crescono le preoccupazioni sui rischi che corre il patrimonio archeologico libico. A Leptis più del sessanta per cento dei reperti sono lì, ancora sul posto, ma soprattutto impressiona la sua estensione, tanto che sempre Brandi scrisse – quando la vide per la prima volta – «è una cannonata» anche per chi «viene da Roma, e conosce Ostia e sa a memoria Pompei».
La città fondata anch’essa dai fenici come Sabratha divenne «magna» dal 193 d. C. con Settimio Severo, che era nato lì. In soli quindici anni questo imperatore «militare» ne fece il trionfo dell’arte tardoromana. Collocata a ridosso del centro abitato di Al-Khums e poco distante da un polo industriale di stoccaggio di gas o petrolio visibile dal suo porto insabbiato – una prova di quali siano le autentiche ricchezze del paese – Leptis Magna rappresenta un impresa edilizia e artistica di singolare originalità. La pianificazione urbanistica Severiana ingloba i quartieri punici in prossimità del porto e amplia la città con un polo monumentale composto da un foro con basilica, un ninfeo e un’imponente via colonnata, finendo così di arricchire di prestigiosi edifici la città augustea. Tra questi l’Arco di Settimio Severo è insieme al Teatro il più noto. I suoi timpani mozzati, i massicci pilastri decorati di bassorilievi che sorreggono la cupola, in sintesi la sua «bizzarria plastica», ci distraggono dal pensare alla complessa impresa che, alla fine degli anni ’60, ha impegnato gli archeologi Sandro Stucchi e Lidiano Bacchielli nel compito di riconsegnare l’originaria forma (anastilosi) a quel monumento ridotto in rovina. L’importanza di Leptis Magna la colse con precisione Ranuccio Bianchi Bandinelli quando intuì che le sue «costruzioni di ampiezza e lusso architettonico inusitati» avevano origine in modelli importati dalla Grecia, dalla Siria e da Afrodisia e lavorati sulla costa libica da maestranze locali. La serie di invenzioni plastiche e figurative che sono riscontrabili ad esempio nelle paraste della Basilica Severiana, pur legate alla tradizione ellenistica, grazie alla loro sensibilità e eleganza figurano al tempo stesso come il superamento e l’anticipazione dell’arte bizantina. C’è da augurarsi davvero che ci sia consentito ancora continuare a studiare Leptis Magna, perché rappresenta un laboratorio unico al mondo per l’arte e l’architettura tardoantica.
Unica è anche Cirene, denominata l’Atene d’Africa, posta su un vasto altopiano davanti al mare, con ai lati e ai fianchi il deserto che la separa dal continente africano e che l’ha sempre resa, fin dalla sua fondazione nel 631 a.C. da parte di coloni terei, sponda insulare della Grecia. Lo studio scientifico della complessa mappa di Cirene da parte degli archeologi italiani risale alla prima decade del secolo scorso, anche se è dal Settecento che se ne conoscono le rovine. Salire sull’Acropoli da nord con alle spalle il mare e Apollonia comporta la meraviglia di attraversare una vasta distesa terrazzata di tombe rupestri (VI sec. d.C.) con prospetti architettonici che sono solo l’anteprima di uno spettacolo eccezionale, che si gode tra i resti del Santuario di Apollo, chiuso sul lato occidentale dal Teatro Greco e su quello orientale dalle Terme, avendo alle spalle la Grotta Oracolare. Da subito il viaggiatore ha chiaro il fatto di trovarsi al centro di una stratificazione progressiva e densa non solo di blocchi di pietre, ma di miti e leggende che trasudano dalla quantità di altari, reciti, sacelli eretti ovunque dentro e fuori una quantità di templi e santuari per una moltitudine di divinità accolte tutte tra l’Acropoli e l’Agorà, così come i primi greci fondatori di Cirene seppero convivere con le tribù libye.
Una sfida recente
Quella di Cirene fu il modello di una «fondazione pacifica» come accadde in altre parti del Mediterraneo: in Sicilia, a Megera Iblea, Posidonia o Marsiglia. È difficile, guardando alle testimonianze dell’antichità, orientarsi senza sgomento nella guerra civile libica, tra le violenze e le paure che oggi vive la popolazione, pur considerando la sua storia recente e le sue tradizioni tribali. Così com’è arduo immaginare l’isolamento e la solitudine della Libia, epicentro – nell’antichità – del più vasto scambio culturale e commerciale del Mediterraneo.
Nel 2007 Saif al-Islam Gheddafi firmava la «Cirene Declaration» e istituiva la «The Green Mountain Conservation e Development Authority» per avviare lo sviluppo e la gestione di un Parco Nazionale comprendente le aree archeologiche di Cirene e Apollonia, oltre che per promuovere il turismo culturale e ambientale affermando «un nuovo modello socio-economico». Norman Foster si impegnò a redigere tre progetti pilota dichiarando: «C’è stata data una sfida: stabilire un modello sostenibile per lo sviluppo futuro, che sarà sensibile alla storia della Montagna Verde e alla sua conservazione». In quattro anni tra velleità e cinismo nulla è successo, anzi si è scatenato l’inferno.