di Daniela Felisini
Il mio intervento non può che iniziare riprendendo un concetto che è stato già illustrato da altri studiosi con diverse prospettive disciplinari: il mare è una straordinaria risorsa per l’umanità, un teatro di eventi e processi di grande rilevanza geopolitica e geoeconomica.
In particolare, il processo di globalizzazione vede il mare tra i suoi protagonisti. Conferisce, infatti, al mare una grande centralità, sia per la dimensione dei flussi di merci e di persone che vi si muovono, sia per la rilevanza delle infrastrutture e degli investimenti che lo interessano.
Negli ultimi anni gli storici economici e di impresa, come io sono, dedicano al mare una rinnovata attenzione, con convegni internazionali di grande respiro; solo per citare il più recente, la European Business History Associationha dedicato nel 2018 il suo convegno annuale al mare, in particolare a navi e porti, e lo ha svolto in Italia (poiché è a rotazione tra i Paesi membri), ad Ancona[1].
Il mio breve intervento verterà sul rapporto tra mare e processo di globalizzazione. È un argomento talmente vasto che ho scelto di mettere a fuoco due punti specifici: la rivoluzione del trasporto via container e la nuova strategia cinese della “via della seta”, riferendomi al suo itinerario marittimo.
In prospettiva storica, nella prima ondata di globalizzazione dell’età industriale, quella svoltasi tra fine Ottocento e primo Novecento, le innovazioni nel sistema dei trasporti giocarono un ruolo fondamentale: l’acciaio sostituì il legno nella costruzione degli scafi e il motore sostituì la vela nella trazione. Due elementi che diedero una spinta poderosa alla navigazione marittima, in particolare oceanica. Vi fu anche la diffusione di navi dedicate a trasporti particolari, come le navi frigorifere e le prime petroliere. Non dimentichiamo che nel paradigma tecnologico della seconda rivoluzione industriale – in cui si innestava quella prima ondata di globalizzazione – uno dei dispositivi più importanti era il motore a scoppio. Siamo dunque in presenza di innovazioni legate strettamente al mare e che modificano la geoeconomia del mare dell’epoca[2].
Proponendo un parallelo con la fase attuale, è importante guardare con attenzione alla rivoluzione dei trasporti via container. Qualcuno dice inventato già da un ingegnere italiano all’inizio del Novecento, ma più comunemente attribuito a Malcom McLean, un uomo d’affari statunitense che negli anni Sessanta operava nel trasporto stradale, il trasporto via container ha conosciuto da allora una crescita notevolissima, tanto da essere considerato la “spina dorsale” logistica della globalizzazione dai geografi francesi Frémont e Soppé[3]. Lo storico della tecnologia, l’americano Daniel Headrick, si è spinto sino a definire la containerizzazione come l’innovazione tecnologica più importante del Ventesimo secolo, in quanto ha agito da propulsore di un processo così cruciale come la globalizzazione[4].
Non so se condividere appieno questa definizione circa “the box“, che suona un po’ eccessiva, ma certamente il successo della containerizzazione è stato enorme e le conseguenze sul piano economico sono state notevolissime[5]. Prima di tutto ha consentito la drastica diminuzione del tempo speso nei porti da una nave che trasporta merci varie: una nave tradizionale spende in porto il 40% del totale del tempo, quella portacontenitori meno della metà, ossia circa il 17% del totale del tempo, e ciò la porta a svolgere in un anno un traffico molto maggiore e quindi di ammortizzare in maggior misura i costi fissi.
A fronte degli ingenti investimenti richiesti per le attrezzature di navi e porti, la containerizzazione ha ridotto i costi di carico/scarico e immagazzinamento, e ha portato allo sviluppo di nuove catene logistiche del trasporto e della intermodalità.
Inoltre, essa ha avuto conseguenze fondamentali nello sviluppo del commercio mondiale – cresciuto in media quasi due volte più rapidamente della produzione mondiale nel primo quindicennio del XXI secolo – e nell’integrazione dei mercati internazionali[6]. Il costo del trasporto incide meno sul prezzo finale di un prodotto e quindi la distanza fra luogo di produzione, dove magari il costo della mano d’opera è più basso o le materie prime sono più ampiamente disponibili, e il mercato dove viene venduto conta sempre meno.
In tal modo il trasporto via container ha favorito la costituzione di nuove catene produttive e distributive globali, che situa i diversi processi nelle località più convenienti. In certa misura ha stravolto le geoeconomie esistenti. Si tratta dunque di un’innovazione che interessa una molteplicità di attori, con conseguenze anche sociali, e che vede nel mare, nei porti e nelle navi, uno scenario fondamentale.
Vorrei passare brevemente al secondo punto, ossia l’itinerario marittimo della OBOR, One Belt, One Road, la nuova strategia globale cinese. È un programma infrastrutturale cui la Cina dedica la massima attenzione. Vi ha già investito 70 mld di $ e prevede di investirne altri 130 sino al 2020. Non solo consentirà al Paese di smaltire le proprie eccedenze in alcuni settori e di accedere a nuove fonti di approvvigionamento energetico, ma soprattutto attraverso di essa la Cina punta ad una fenomenale penetrazione economica, politica e persino culturale nelle aree interessate. È un disegno egemonico, e passa anche per il mare. Uno dei corridoi è via mare, la Maritime Silk Road: un network di porti e infrastrutture che connetterà la Cina al Sud-est asiatico, al sub-continente indiano, all’Africa orientale e al Mediterraneo, passando per il raddoppiato canale di Suez, attraverso una pluralità di scali intermodali strategici e di carico medio superiore a tutte le altre rotte del traffico globale.
Il Mediterraneo, con al centro l’Italia, è considerato il naturale punto di arrivo della Via della seta marittima. Gli investimenti cinesi in Spagna, Italia, Grecia, Turchia e Israele confermano l’attenzione di Pechino. Grazie a un’aggressiva politica di fusioni e acquisizioni, diverse compagnie armatoriali cinesi sono riuscite ad assicurare la loro presenza in alcuni dei principali scali commerciali che servono il bacino mediterraneo, di cui si conferma la crescente centralità nella geoeconomia globale. In particolare, è significativa l’acquisizione di oltre il 60% del Porto del Pireo da parte di COSCO Shipping(il gigante del trasporto marittimo controllato dal governo cinese). D’altra parte, non dimentichiamo che l’Unione Europea è il principale partner commerciale della Cina e che nel 2016 il 64 % del commercio tra UE e Cina è passato via mare[7]. Quel mare che nel XXI secolo è interessato da quattro fenomeni tra loro interconnessi: il raddoppio del Canale di Suez e l’allargamento di quello di Panama, il crescente gigantismo navale e le nuove grandi alleanze nell’industria dello shipping.
Si tratta di fenomeni che impressionano per la dimensione delle risorse impegnate e la quantità di persone direttamente e indirettamente coinvolte. Da storica non dimentico mai la lezione di Marc Bloch, il quale scrivendo nel pieno della seconda guerra mondiale, insegnò che è sempre dell’uomo in carne ed ossa che dobbiamo occuparci[8]. Fenomeni così vasti e profondi da essere persino inquietanti, ma che proprio per questo ci spingono a prestare sempre maggiore attenzione alla geoeconomia del mare.
Daniela Felisini (*)
(18 ottobre 2018)
(*) La professoressa Daniela Felisini, Ph.D. Jean Monnet, è docente presso l’Università Tor Vergata di Roma, presso il Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società.
[1]European Business History Association, 22nd Annual conference (Ancona, 6-8 september 2018), The firm and the sea: chains, flows and connections . Vedi: http://ebha18.univpm.it/
[2]J. Osterhammel, N.P. Petersson, Storia della globalizzazione, Bologna, il Mulino, 2005; Storia Economica, a cura di T. Fanfani, McGraw-Hill, Milano- New York, 2010.
[3]A. Frémont, M. Soppé, Transport maritime conteneurisé et mondialisation , in “Annales de géographie” , 2005/2 n° 642.
[4]Headrick D., Technology: a world history, Oxford University Press, New York, 2009.
[5]M. Levinson., The Box: How the Shipping Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger, Princeton University Press, 2006.
[6]K. H. O’Rourke, J. Williamson, When did globalization begin?, in “European Review of Economic History”, 2002, 6.
[7]O. Demoures, Pechino, il partner indispensabile, 16 giugno 2017, https://voxeurop.eu/it/2017/ue-cina-5121158
[8]Esemplari in tal senso le parole di Marc Bloch: “Ora, homo religiosus, homo œconomicus, homo politicus – tutta questa litania di uomini in –us, di cui potremmo allungare a piacere l’elenco – sarebbe pericoloso prenderli per qualcosa di diverso da quel che essi sono in realtà: fantasmi comodi a patto di non divenire ingombranti. Il solo essere di carne e ossa è l’uomo, l’uomo senza aggettivi, che ricongiunge in sé tutto quanto”, vedi M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di Storico, Einaudi, Torino, ed. 1976, p. 132.