di Fabrizio Ciocca
In questo particolare periodo storico, caratterizzato dall’avvento dei social nella comunicazione e, pertanto, dalla possibilità degli utenti di interagire direttamente e immediatamente con gli autori delle notizie, commentarle, criticarle, creare dibattiti on-line su particolari tematiche, è sempre più difficile orientarsi per capire quale sia la reale entità di un fenomeno sociale. Questo perché viviamo in un’era dove appunto tutto viene amplificato, spettacolarizzato, introiettato nella pubblica opinione senza “filtri”: il lettore di un giornale on-line o l’utente medio di Facebook spesso non ha letteralmente il tempo materiale per affrontare con atteggiamento critico i contenuti che gli vengono proposti.
Le fake-news infatti traggono linfa propria da questa “pigrizia critica” di non porre la giusta attenzione alla fonte delle notizie, alla credibilità dell’autore, al tipo di dato riportato.
In questo scenario, internet diventa una sorta di “mercato delle idee” dove ognuno sceglie quella che più gli piace, dove ogni teoria o opinione ha lo stesso valore di quella di un qualificato studioso, che magari ha impiegato mesi di ricerche per giungere a determinate analisi.
A supporto del ragionamento in questione si prendano ad esempio due fenomeni a cui i mass-media dedicano e hanno dedicato negli ultimi anni massima attenzione: i fenomeni migratori dall’Africa e gli attacchi terroristici che hanno colpito l’Europa.
Per quanto riguarda le migrazioni africane, contrariamente a quanto si pensa, la stragrande maggioranza degli africani che emigra rimane all’interno del proprio continente.
Il rapporto ONU International Migration nel 2015 ha stimato in 191 milioni i migranti nel mondo (soggetti che vivono in un paese diverso da quello dove sono nati, a vario titolo e con motivazioni diverse); di questi, solo 17 milioni erano africani, di cui il 70% era migrato all’interno dell’Africa e solo il 12% si trovava in Europa.
Ancora, tra i primi 20 paesi al Mondo con il maggior numero di concittadini emigrati, per trovare un paese africano dobbiamo scendere al diciottesimo posto: l’Egitto, con 3 milioni di concittadini emigrati, preceduto per esempio da alcuni paesi europei quale Regno Unito (con 5 milioni di emigrati), Germania e Polonia (entrambi 4 milioni).
Si tenga presente inoltre che in Italia, solamente nel 2017, sono 250 mila i connazionali che hanno lasciato il Paese, pari allo 0,45% della popolazione italiana complessiva: applicando la stessa percentuale alla popolazione africana, avremmo 5,4 milioni di africani emigrati dal proprio paese verso altre nazioni o continenti nello stesso, cosa che invece non è avvenuta.
Le migrazioni in Africa, come detto, sono per la maggior parte interne, quasi sempre a causa di conflitti, guerre civili o peggioramento delle condizioni vita a seguito di cambiamenti climatici importanti. Ovviamente, essendo l’Africa un continente di un miliardo e 200 milioni di persone, apparentemente sembra un continente con una forte “propulsione migratoria”, ma il valore percentuale della popolazione migrante all’interno del Continente, negli ultimi 30 anni è stabile al 3%, come illustrato in figura.
L’Africa non è quindi un continente che emigra, contrariamente a quello che nell’immaginario collettivo si è portati a credere: ciò che è mutato sono le «narrazioni» delle migrazioni, che, nei contenitori social, troppo spesso vengono raccontante enfatizzando concetti quali quello dell’“invasione africana”, che di fatto non trova nessun riscontro nei dati reali.
Per quanto riguarda invece il terrorismo, anche in questo, in una prospettiva troppo “eurocentrica”, spesso si è portati a credere che è un fenomeno che colpisce solamente o principalmente l’Europa, e che gli attentati che hanno colpito in questi anni Parigi, Bruxelles o Londra riguardano solo città europee, a cui istintivamente ci sentiamo legati come ‘Occidentali’ che condividono stessi valori e principi comuni.
In realtà, analizzando i dati dal 1970 al 2017 del Global Terrorism Database messo a punto dalla Maryland University, si osserva che il terrorismo, inteso come “l’uso minacciato o effettivo della forza e della violenza illegale da parte di un attore non statale per raggiungere un obiettivo politico, economico, religioso o sociale attraverso la paura, la coercizione o l’intimidazione”, a livello planetario ha provocato circa 410 mila morti e 527 mila feriti.
Tuttavia, tra i primi 15 paesi con maggior vittime da terrorismo, non vi è nemmeno un paese europeo: al primo posto infatti si trova l’Iraq, con oltre 70 mila vittime, seguito dall’Afghanistan (33 mila), Pakistan (22 mila), Nigeria (21 mila).
Non solo: se fino ad oggi sicuramente i gruppi jihadisti sono stati tra i movimenti terroristici più attivi e letali nel provocare il maggior numero di perdite civili in azione terroristiche (in primis Isis, Taliban e Boko Haram), nel biennio 2016-2017 dei 50 mila morti nel Mondo a causa del terrorismo, circa 40 mila sono musulmani: ossia l’80% di tutte le vittime.
A ciò si aggiunga che una recente ricerca dell’Alabama University ha rilevato che gli attacchi dei jihadisti ricevono solitamente negli Stati Uniti una copertura mediatica del 357% maggiore rispetto ad attacchi terroristici compiuti da altri estremisti di vario genere.
Inoltre, gli attacchi terroristici commessi da estremisti jihadisti hanno ricevuto 105 titoli mentre tutti gli altri hanno ricevuto in media 15 titoli.
Questo trend è riscontrabile, seppur in assenza di dati puntuali, anche nei mass-media ‘nostrani’: una forma di comunicazione che tende a dare maggiore risalto ad attacchi terroristici quando i colpiti siamo “noi” e meno spazio quando i colpiti sono gli “altri” (un caso per tutti: nell’ottobre del 2017 un terribile attentato rivendicato da Al-Shabab ha colpito Mogadiscio, la capitale della Somalia, provocando oltre 500 morti eppure lo spazio su i giornali italiani e social fu quasi nullo).
Siamo quindi di fronte ad un problema di percezione distorta: credere ad una realtà parziale o non sempre veritiera e basare i propri atteggiamenti e comportamenti su tale realtà ‘artefatta’.
È necessario quindi un’inversione di rotta: andare oltre le opinioni consolidate, gli stereotipi e le generalizzazioni, a cui spesso anche i mass-media fanno riferimento, ma riuscire a presentare e spiegare in modo analitico i fenomeni sociali nella loro complessità, in una prospettiva globale, alla pubblica opinione ma anche ai decision-makers.
Fabrizio Ciocca
(*) Fabrizio Ciocca, alla sua prima collaborazione con <omeganews.info>, è sociologo, un master in sistemi urbani multietnici e diversi corsi di formazione su geopolitica, globalizzazione e diritti umani. Studioso dei fenomeni migratori, è autore in particolare di vari articoli e pubblicazioni sulle comunità islamiche in Italia, tra cui “Musulmani in Italia. Impatti urbani e sociali delle comunità islamiche a Roma” (Meltemi Linee, 2018) e “L’Islam italiano: un’indagine tra religione, identità e islamofobia” (Meltemi Linee, 2019)