11 maggio, aggiornamento delle crisi mediterranee

di Luigi R. Maccagnani

E sono 12 i venerdì in cui gli algerini hanno riempito le strade e le piazze per chiedere un drastico cambio nella gestione del paese: il gambitdi Gaid Salah non sta convincendo la popolazione.

ALGERIA

I vertici militari hanno controllato sin dall’indipendenza del 1962 il governo del Paese: dal supporto a Ben Bella, primo presidente 1963, poi l’ascesa del colonnello Boumédiène, con un colpo di stato nel 1965, poi il sostegno a Bouteflika nel 1999, alla fine del terrorismo interno di matrice FIS durato nove anni.

Con un alto livello di corruzione endemico nel Paese, la presidenza di Bouteflika ha cominciato a tentennare già dal 2010 quando investigazioni condotte dai servizi di informazione portarono ad un rimpasto nella Sonatrach (ente petrolifero di Stato) e al coinvolgimento del ministro dell’energia, amico personale del Presidente.

La storia recente è nota: ritirata il 2 aprile la candidatura di Bouteflika al suo quinto mandato, il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Gaid Salah, invocando l’articolo 102 della Costituzione, nomina un governo di transizione e fissa per il 4 luglio prossimo nuove elezioni presidenziali.

La piazza risponde con scetticismo, ed invoca l’articolo 7 della Costituzione: la Sovranità è del popolo!

Ai venerdì di protesta della popolazione, si aggiunge il martedì degli studenti, entrambi in piazza anche dopo l’inizio del Ramadan!

D’altra parte, chi sarebbero i candidati per le nuove elezioni? Tre i nomi prevalenti che circolano:

Ali Benflis, 75 anni e già capo del governo dal 2000 al 2003, poi candidato di facciata alle elezioni presidenziali che hanno confermato Bouteflika, del partito Avanguardia delle Libertà; Ali Ghadiri, 65 anni, generale in pensione; Abderrazak Makri, 59 anni, del Movimento della Società per la Pace – affiliato ai Fratelli Mussulmani. Non proprio paladini di quel grande rinnovamento voluto dalla popolazione.

Alle proteste popolari il “potere” – e i vertici delle forze armate – rispondono con durezza aggrappandosi ostinatamente al loro ruolino di marcia con il governo di transizione guidato da Bensalah ed il programma di nuove elezioni presidenziali 4 luglio prossimo, e non esitano ad insinuare – vedi l’editoriale della rivista mensile dell’esercito – El Djeich (https://www.reflexiondz.net/EDITORIAL-DE-LA-REVUE-D-EL-DJEICH-L-ANP-denonce-un-plan-machiavelique_a55765.html) – che la protesta popolare sia sobillata da manipolatori il cui scopo è di portare il Paese verso l’anarchia ed il caos. E sotto le proteste pacifiche sta montando una certa collera.

LIBIA

Nei giorni scorsi, tra conferme e smentite, è circolata la notizia che due pescherecci italiani fossero stati intercettati da motovedette libiche (presumibilmente quelle donate da noi per il controllo migranti) per essere poi confiscati in quanto in acque a “titolarità esclusiva” libica per attività di pesca; intervenuta un’unità della marina italiana che ha scortato le due barche in acque italiane.

Lasciando al penoso bisticcio tra i due ministri italiani, il dibattito sulla veridicità dell’incidente – tra l’altro in un momento “delicato” della situazione libica – la cosa in sé non sarebbe inusuale: è dalla fine degli anni ottanta che barche da pesca italiane – gli armatori di Mazara del Vallo conoscono bene il problema – vengono sequestrate dai libici per attività di pesca in acque ritenute sotto la loro esclusiva giurisdizione.

Tutto è cominciato quando la Libia, a fronte degli accordi UNCLOS (UN Convention on the Law of the Sea) ha dichiarato il Golfo della Sirte come “Historic Bay”, le sue acque quindi considerate interne, spostando di conseguenza il limite territoriale a 12 miglia nautiche –non dalla costa, ma dalla linea che unisce i due limiti del golfo (vedi immagini). 

I vari “agreements”, come quello di New York del 1995 (Conservation and Management of Straddling Fish Stocks and Highly Migratory Fish Stocks – leggi tonno) non sono mai stati ratificati dall’Italia, tanto meno dalla Libia, mentre il riconoscimento dei limiti delle varie aree reclamate dalla Libia sono state riconosciute solo da Tunisia e Malta.

Non si capisce il senso della mozione del Parlamento Europeo, del 2018, per una “resolution” sull’allargamento della zona di pesca – specialmente al tonno – entro la zona reclamata dalla Libia – come compenso per aver ricevuto dal Paese sostanziali aiuti dalla comunità europea (vengono menzionati 70 milioni di Euro) ?!

Nel frattempo, mentre la LNA del maresciaallo Haftar e le milizie cosidette di riferimento al GNA continuano a combattere intorno a Tripoli, con ormai qualche centinaio di morti (nella maggioranza tra i combattenti) e non ancora in vista una risoluzione, Fayez Serraj, il presidente del Governo di Accordo Nazionale (sic!), si è cimentando in un tour delle capitali europee per cercare un sostegno. 

Pima tappa Roma, dove ha incontrato il Presidente del Consiglio Conte; non sono trapelate indiscrezioni sul contenuto dell’incontro, tantomeno un comunicato ufficiale.

Poi Berlino con la Merkel, la cui posizione è stata sintetizzata con il richiamo all’incontro Serraj-Haftar ad Abu Dhabi nel febbraio scorso in cui si dissero d’accordo su 8 punti: 1 – Libia unita e democratica; 2 – fine della fase di transizione gestita da governi deboli, e istituzioni di dubbia legittimità; 3 – unione delle istituzioni statali, come ad esempio la Banca Centrale e la NOC; 4 – finirla con gli insulti reciproci; 5 – elezioni parlamentari e presidenziali entro fine 2019; 6 – trasferimento di poteri pacifico; 7 – separazione dei poteri; 8 – di continuare il dialogo.

Infine a Parigi con Macron: il comunicato che ne è seguito indica che, nell’unirsi alla Germania ricordando gli accordi della riunione di Abu Dhabi, Macron chiede un cessare il fuoco incondizionato sulle linee di fronte attuali, sotto supervisione internazionale, implicando un consolidamento del territorio acquisito ad oggi da Haftar. Posizione, questa della Francia, apparentemente condivisa in diverse capitali europee.

D’altra parte a questo punto sembra abbastanza irrrealistico chiedere ad Haftar di tornarsene in Cirenaica (Claudia Gazzini, International Crisis Group – citata da politico.eu).  Giorni dopo il rientro di Serraj, il ministro dell’Economia e Industria del GNA a Tripoli ha emesso una direttiva dando a 40 società internazionali, incluso la Total, un periodo di grazia per “regolarizzare” i loro contratti di lavoro nel Paese.

L’Italia se ne sta ben lontana: a Tripoli, nonostante le dichiarazioni di Conte da Pechino di stare “non con Haftar e non con Serraj”, la posizione dell’Italia viene percepita più vicina al GNA (ed al Qatar, a loro vicino), e le società italiane non sembrano coinvolte.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha convocato – su richiesta UK – una riunione a porte chiuse per discutere della situazione in Libya per giovedi 16 maggio p.v., ma Salame (UNSMIL) non avrà molto da mostrare: di fatto nei 4 anni di questo governo riconosciuto dalle Nazioni Unite ben poco è stato ottenuto, anzi è opinione dei più che le milizie della zona di Tripoli si siano rafforzate, abbiano aumentato i profitti dai loro traffici illeciti ed abbiano “infiltrato” con loro uomini le stesse istituzioni statali di riferimento al GNA; anzi, si può notare una certa condiscendenza dello stesso Serraj (forse per la sua stessa sicurezza, si ricorda che nel primo anno del GNA, era confinato nella base militare di Abu Sitta), per non parlare delle nefandezze nei centri di detenzione come rilevate periodicamente da UNHCR, IOM e WHO: nessun controllo da parte del PC-GNA-UNSMIL di queste milizie. Il Consiglio di Sicurezza ne prenderà atto? 

TURCHIA

Le moschee sono le nostre caserme, le loro cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette ed i fedeli i nostri soldati(“The mosques are our barracks, the domes our helmets, the minarets our bayonets and the faithful our soldiers”: Recep Tayyip Erdogan,).

Con questa citazione, nel dicembre 1997, l’allora 43enne sindaco di Istanbul rinnegò la laicità dello stato sostenuta dal fondatore della Turchia moderna Kemal Ataturk.

Erdogan è stato co-fondatore, nel 2001, del Justice and Development Party (AKP), di indirizzo islamista, ed è stato funzionale al successo del partito nelle elezioni politiche del 2002, che ottenne una chiara vittoria consentendo ad Erdogan di diventare Primo Ministro nel marzo 2003, posizione che ha mantenuto per i due termini consentiti dalla Costituzione, scalando popolarità e influenza all’interno del partito stesso.  Al termine del suo doppio mandato come primo ministro, il 28 agosto del 2014 è stato eletto Presidente della Turchia. Nel 2018 è stato rieletto per un secondo mandato. In questi 15+ anni Erdogan ha lavorato per accentrare su di sé sempre maggior influenza e potere; molto attivo anche nella politica estera, ha portato la Turchia ad un ruolo primario sia nel Medio Oriente, specialmente in Siria, ma anche nel Nord Africa. Internamente, ha contrastato duramente ogni opposizione e critica al suo operato.

Il 31 marzo scorso si sono tenute nel paese elezioni amministrative, e forse qualche malessere per la sua gestione comincia a serpeggiare, ed il suo partito ha dato segni di cedimento.

AKP ha perso il controllo in 6 delle 10 più importanti aree metropolitane del paese, che sono andate al partito di opposizione CHP (Republican People’s Party), che nelle elezioni precedenti -2014 – controllava la sola città di Izmir. Non solo, anche dove AKP ha mantenuto la maggioranza, i suoi risultati sono calati del 10-14%.

Particolare la situazione ad Istanbul, dove alle elezioni del 31 marzo scorso il partito di Erdogan ha subìto una modesta ma bruciante sconfitta (CHP 48,80% vs AKP 48,55%), tanto più sentita in quanto la città ritenuta turfdel Presidente e del suo partito e dove in precedenza AKP aveva ottenuto sempre una significativa preminenza. Questa sconfitta non è stata accettata: ed il “Supreme Electoral Council” ha accettato il ricorso dell’AKP ed annullatoi risultati del 31 marzo indicendo nuove elezioni nel distretto per il 23 giugno p.v.

Molto imbarazzo nel Paese, e non solo, ed anche un crollo nel valore della lira turca, per quello che viene interpretato come una ultima dimostrazione della drammatica svolta autoritaria di Erdogan.

Evidente negli ultimi anni una fragilità del sistema economico del Paese che avrebbe probabilmente bisogno di riforme strutturali, anche la lira turca continua a perdere valore nei confronti del dollaro USA, ma la percezione della società civile sembra essere che per combattere questo malessere il governo si focalizzi su misure a valore populista piuttosto che sulle necessarie riforme.

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Turchia – Scheda Paese

Popolazione: 80.8 milioni (censimento 2017); superficie: 779.991,72 Kmq.

Fasce di età (stime 2017):       0-11 anni: 19,0%

                                                12-17 anni: 9,5%

                                                18-34 anni: 26,7%

                                                34-64 anni: 36,2%

                                                65 e oltre: 8,6 %

Disoccupazione:                     14,7% (dic. 2018, dato milanofinanza.it)

            Giovanile (15-24 anni): 26,7% 

Dependency ratio:                   49,85%, in funzione dell’alta disoccupazione giovanile

Urbanizzazione:                      62,25%

Educazione (UNESCO):       il 25% dei giovani in età scolastica frequenta l’università

Prodotto Interno Lordo:       in termini reali: 3.700 miliardi di lire turche, al cambio circa 784 milioni di USD).

                                              in termini di purchasing power parity è stimato intorno ai 2,140 miliardi di USD

Scambio commerciale:         L’Italia si conferma come 5° partner commerciale con la Turchia, con un valore totale -2018- di19,8 miliardi USD: 10.154 milioni di export, e 9.566 milioni di import. Principali voci di export verso la Turchia sono autoveicoli, macchinari e materie plastiche. Oltre 1400 aziende italiane operano nel paese.

Luigi Maccagnani