di Elisa Bertacin
Ci risiamo. Ancora una volta, nel vivo di una situazione conflittuale, occorre riparlare di disinformazione mediatica. Questa volta sul banco degli imputati troviamo, tra gli altri, uno dei network informativi ritenuto tra i più neutrali, credibili ed affidabili a livello globale, grazie alla quasi totale assenza di censure e pregiudizi: Al Jazeera. Nata nel 1996 e da subito contraddistintasi per l’assenza di filtri, Al Jazeera è stata spesso accusata dai decisori occidentali di essere collusa con i gruppi estremisti e terroristici, soprattutto perché non ha posto limiti e divieti alla trasmissione dei messaggi di Osama bin Laden e di al-Qaeda. Tuttavia, l’emittente è riuscita nel corso degli anni e, soprattutto, grazie alla copertura di eventi quali l’operazione statunitense Desert Fox del 1998 contro l’Iraq e la seconda intifada palestinese nel 2000, nonché grazie ad interviste e filmati in esclusiva, a guadagnarsi la fiducia delle Opinioni pubbliche pressoché in tutto il mondo (grazie anche al lancio del canale Al Jazeera English).
Eppure anche questa fonte consolidata nel mondo dell’informazione globale è finita sotto accusa, sebbene sia stato dato poco risalto a questo elemento. Assieme all’emittente concorrente, Al Arabiya, durante la crisi libica, Al Jazeera ha dimostrato ancora una volta come i mass media possano funzionare come canale di diffusione di disinformazione e propaganda. A livello accademico, si è ben consapevoli di tale potenzialità. Gli studi e le teorie sulla propaganda e sulla comunicazione politica sono molteplici, ma anche sul piano storico gli esempi non mancano: da ultime, le campagne contro l’Iraq (nel 1991 e nel 2003) e quella contro la Serbia di Milosevic (1999). Volendo trovare degli elementi comuni tra questi episodi del recente passato e l’attuale crisi libica, ci si potrebbe soffermare su tre fattori ricorrenti: la campagna di demonizzazione del nemico, la caratterizzazione dell’intervento armato come unica soluzione possibile e l’appello alla protezione dei diritti umani, come ulteriore fattore legittimante l’intervento. Essi possono essere chiaramente identificati all’interno delle principali tecniche di produzione della propaganda, definita, quest’ultima, come l’attività di diffusione di idee ed informazioni allo scopo di indurre specifici comportamenti o attitudini. In tutte le società contemporanee, la resistenza psicologica alla guerra (o comunque, in senso più generale, all’uso della forza) è così radicata e consistente che diventa necessario, in certe situazioni, dipingere un conflitto come un atto di pura difesa, contro un aggressore “rude, crudele, minaccioso, pericoloso ed assassino”, che ha arruolato migliaia di mercenari centrafricani per reprimere le proteste. In questo modo, etichettando negativamente il nemico, demonizzandolo, per l’appunto, si rende possibile la nascita di un giudizio di condanna, anche senza nessuna prova di merito.
Al Arabiya ha riferito di 10.000 vittime e 50.000 feriti in dieci giorni di rivolte, causati dai bombardamenti e dal fuoco indiscriminati sulla folla in protesta. Tutti i principali giornali e mezzi di informazione occidentali non hanno esitato un attimo a diffondere cifre, immagini, video e testimonianze, senza preoccuparsi di verificarne la veridicità e l’attendibilità, ma limitandosi ad utilizzare formule quali “sembra che..”, “si dice che…”, “testimoni affermano che…”, le quali, tuttavia, non vengono colte nella maggior parte dei casi dal lettore medio, che si concentra sul contenuto in sé e non sulla forma. Commenta Angelo del Boca, massimo storico del colonialismo italiano ed esperto di Libia: “Non si può parlare di 10.000 morti e 50.000 feriti. Ma scherziamo? 50.000 feriti non ci stanno in tutti gli ospedali del Medioriente. Sono cifre false e tendenziose”. Eppure tali smentite passano inosservate, restano nella stanza dell’oblio, diventando un link tra tanti nel vasto mare di Internet, in attesa che qualche scettico decida di andare un po’ più a fondo, guardando oltre quelle clamorose cifre. La fonte di al Arabiya? Un tale Sayed Al Shanuka (o El-Hadi Shallouf), presentato come componente libico della Corte Penale Internazionale, e dunque attendibile senza ombra di dubbio. Peccato che dopo pochi giorni sia arrivata puntuale la smentita ufficiale della stessa Corte Penale, la quale nega l’esistenza stessa di questo signore nel suo organico: “The ICC wishes to clarify that this person is neither a staff member nor a counsel currently practicing before it, and by no means can he speak on behalf of the Court. Any declaration he made is given solely in his personal capacity” (http://www.icc-cpi.int/NR/exeres/8974AA77-8CFD-4148-8FFC-FF3742BB6ECB.htm).
Ancora una volta, sono bastati semplici scatti a suscitare scalpore e a trasformare un’insinuazione in verità. Ed ancora una volta, la smentita di tali informazioni, supportata, tra l’altro, dai report dei satelliti russi che controllano l’area dall’alto, è passata silenziosa, tra le righe di pochi giornali ed articoli. Timido è l’accenno fatto dall’inviato di Repubblica a Tripoli, Vincenzo Nigro, il quale nel reportage del 25 febbraio, “Nella città assediata dove regnano i miliziani”, scrive: “Un libico, arrivando con noi in aereo, guardava le foto delle fosse in cui sono state sepolte alcune delle vittime. “Non è una fossa comune, è uno dei cimiteri di Tripoli, vicino al mare, si vedono anche le sepolture più vecchie in secondo piano”. Ma ormai è chiaro: nella guerra contro Gheddafi ci sono tante notizie diffuse senza controllo, rilanciate e trasformate in fatti veri.”.
Tra l’altro, se osserviamo attentamente la seconda foto, si possono notare elementi del tutto discordanti dalla nozione stessa di fosse comuni: di solito, esse vengono realizzate in tempi brevi, non presentando strutture “architettoniche” precise; inoltre, essendo “comuni”, generalmente appaiono come cavità di notevoli dimensioni che, visto l’uso, vengono di solito scavate in luoghi nascosti e poco visibili. Bene. Analizziamo ora la seconda foto riportata da One day on Earth. Innanzitutto, la cosa più evidente è che si tratta di fosse individuali, e non di una grande fossa comune indiscriminata. In secondo luogo, si può vedere come tali fosse abbiano una seppur rudimentale struttura “architettonica”, fatta di pietre e mattoni sulle pareti, nonché – come si nota in lontananza – di una lapide di copertura. I più attenti potranno constatare oltretutto la presenza di un minareto, quasi ad indicare un luogo “sacro”. Trattasi semplicemente di un cimitero sulle coste della Libia, dove vengono sepolte le vittime che purtroppo spesso contraddistinguono i viaggi della speranza di molti migranti.
In conclusione, non si vuole assolutamente negare né la gravità delle vicende della guerra civile che sta travolgendo la Libia in questi giorni, né che il regime del Colonnello Gheddafi si sia macchiato in più di quarant’anni di gravi crimini e violazioni dei diritti umani. È molto probabile che in futuro di fosse comuni vere, dove sono state seppellite migliaia di ribelli, se ne troveranno; si produrranno prove tangibili ed inoppugnabili dell’uso indiscriminato della forza e delle violenze sulla popolazione civile da parte delle milizie del regime. Lo scopo, piuttosto, è di suggerire una maggiore consapevolezza di quanto sia necessario guardare, leggere ed ascoltare le notizie con un senso critico più razionale e meno emotivo. Poche volte ci si rende conto di quanto sia paradossale il fatto che spesso siano proprio associazioni ed ONG che promuovono la protezione dei diritti umani a fare pressione sui governi e sulla comunità internazionale affinché si intervenga di forza in modo rapido, deciso e pulito in certi contesti di crisi. E per fare ciò, la propaganda, veicolata dai mass media e dai network globalmente riconosciuti ed accreditati, non fa altro che rendere meno amara una medicina che, altrimenti, sarebbe difficile da prendere ed accettare.
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