di Angelo De Giuli
Capita spesso di ascoltare o di pensare ai prodotti della nostra terra, o – come usa dire oggi – i prodotti a chilometro zero.
Pensiamo sinceramente che non è detto che i nostri prodotti siano migliori o meglio conservati o meglio assortiti di quelli prodotti o confezionati da altri.
Non sempre!
Ma, almeno, rispondono a quel complesso di qualità mineralogiche dei terreni, alle tecniche manifatturiere consolidate in secoli di pratica e perfezionamenti ed alle tempistiche naturali cui i nativi sono stati allevati, alle quali probabilmente (non siamo specialisti, beninteso!) si rifà la composizione del DNA dei citati nativi.
Con quest’articolo De Giuli apre gli occhi a quanti tra noi non hanno sufficientemente riflettuto su queste problematiche.
Parcheggio la macchina e mi affretto verso l’entrata del supermercato, alle 20:30 chiude ed io, come tutte le volte mi rimprovero, sono sempre con l’acqua alla gola. Dunque: devo comprare pane, latte e pasta.
Mi dirigo al banco del pane e trovo solo quello confezionato. Prendo tre sacchetti, ciascuno contenente una baguette. Rimango piacevolmente sorpreso al contatto con le confezioni: sono ancora abbastanza calde.
La sollecita banconiera mi sorprende alle spalle: “Appena uscito dal forno! Sforniamo pane ogni ora!”.
Rincuorato per aver trovato velocemente un tipo di pane che mi aggrada, stringo leggermente una baguette per godere della morbidezza del pane appena sfornato. Non ha la stessa fragranza dei prodotti del panettiere dal quale mi servo di solito, a poche centinaia di metri da casa mia, ma sembra buono. Incuriosito, giro l’etichetta per vedere chi lo produce, ed ecco una prima sorpresa. Prodotto da forno precotto e surgelato in Slovenia; grano di provenienza Non UE, macinato in Slovenia; prodotto decongelato e dorato presso il punto vendita (il supermercato).
Il tempo di riporre il panino nel carrello e mi ritrovo di fronte allo scaffale del latte. Devo sbrigarmi, ma c’è l’imbarazzo della scelta! I colori della bandiera italiana stampata su alcune confezioni attirano la mia attenzione. Però, com’è che il “100% latte italiano” costa il doppio di altre marche e confezioni? Forse è per via della marca famosa o di una particolare qualità? Mi incuriosisco e prendo velocemente un brik senza bandierina italiana: Prodotto e confezionato in Francia. Ma come può essere che nonostante il trasporto da chissà quale zona di Francia, questo latte costa meno, quasi la metà di quello nazionale?
Via, c’è poco tempo: prendo quello 100% italiano e mi affretto al reparto pasta.
Ormai la curiosità è troppo forte! Prendo alcune confezioni di diverse famose marche italiane e controllo le informazioni relative a provenienza del grano, macinatura e produzione. Grano di provenienza “UE” e “Non UE”, macinato all’estero, prodotta nello stabilimento di … (Italia).
Va bene, non ho tempo di selezionare una pasta 100% italiana: afferro una confezione, vado alla cassa, pago e torno a casa. Ma c’è qualcosa che mi lascia perplesso e …
Insomma! Abito al centro della Pianura Padana, nel bel mezzo di campi di riso, frumento, mais, ogni due chilometri c’è una fattoria con bovini e capre … ed al supermercato sono sommerso di identici prodotti proveniente da territori lontani centinaia, migliaia di chilometri! E non sono di qualità superiore a quanto prodotto intorno a me!
Improvvisamente riaffiorano i ricordi di alcune lezioni di Strategia Aziendale, delle quali l’estrema sintesi stava in un passaggio: “… la globalizzazione rappresenterà una grande opportunità per imprese e consumatori. L’ampliamento dei mercati … le economie di scala … la crescente liberalizzazione del commercio mondiale porteranno ad un più elevato grado di concorrenza che genererà un incremento di efficienza nell’allocazione dei fattori produttivi. … Minori costi di produzione, migliore efficienza distributiva e maggiore concorrenza sui mercati finali creeranno una pressione sui prezzi al dettaglio e … il consumatore finale guadagnerà in potere d’acquisto, potrà scegliere tra una più ampia gamma di prodotti, si moltiplicherà l’offerta in generale e …”.
Trenta anni fa la globalizzazione rappresentava l’eccezionale occasione per l’umanità di accrescere notevolmente il livello di benessere generale, per tutti e ovunque nel mondo.
Eppure, ho l’impressione che qualcosa non sia andato nella direzione immaginata dagli economisti di allora. Oppure, non si diede risalto a conseguenze già allora note agli studiosi ma, per qualche ragione, non furono considerate degne di essere spiegate agli studenti.
È mia personale convinzione che quelle teorie erano di carattere prettamente economico, strumenti validi per il settore imprenditoriale (per imprese più o meno di grandi dimensioni), ma da integrare con analisi di taglio politico. Soprattutto, mancavano di analisi relative alle conseguenti dinamiche dei rapporti commerciali internazionali e di indagini sociali per cercare di prevedere eventuali asimmetrie temporali tra le trasformazioni negli ambiti sociali, giuridici ed istituzionali a fronte di fenomeni economici che, per loro natura, sono caratterizzati da una capacità di produrre i propri effetti ben più veloce rispetto ai risultati delle azioni dei governi.
Bene le reminiscenze universitarie, ma la realtà è che i supermercati sono stracolmi di prodotti alimentari provenienti da ogni angolo della Terra, nonostante intorno a casa mia vi siano distese notevoli di coltivazioni degli stessi alimenti, tipici della zona.
Risulta dunque naturale chiedersi dove vada a finire tutto il ben di Dio che mi circonda, se nei supermercati ne trovo solo una esigua percentuale. Peraltro, a prezzi mediamente più alti dei prodotti di provenienza straniera.
Con una sistematica verifica su tutti gli scaffali, è facile rendersi conto che questa situazione è riscontrabile non solo per cereali ed ortofrutta, ma per tutti i prodotti in circolazione.
Considerando il regime di libera circolazione delle merci tra le Nazioni, si può accettare l’ipotesi che anche in altri Paesi si verifichi la stessa situazione.
Ma qual è il senso di ciò? E’ una domanda che si fa strada nella mente in modo automatico, perché nel frattempo tornano alla mente le immagini delle arance di Sicilia distrutte, del latte degli allevatori padani e dei pastori sardi versato per strada, le notizie relative al riso qualità Indaca, di produzione asiatica, che invade l’area con il 50% della produzione europea di riso Carnaroli, Arborio e Baldo (ossia la zona che va da Vercelli, Pavia fino alla foce del Po), e così si potrebbe continuare a lungo.
Certamente i rapporti di forza tra produzione e distribuzione influiscono sulla tipologia e provenienza di prodotti offerti, con ampia segmentazione in base a qualità e prezzo. Ma non è l’aspetto economico l’oggetto della presente riflessione. L’osservazione di questa realtà porta spontaneamente a considerare l’effetto principale della globalizzazione dei comportamenti di consumo e le sue subdole conseguenze.
La globalizzazione, con i suoi processi di uniformazione dei mercati e di specializzazione geografica della produzione, tende a marginalizzare quelle attività (di consumo e di produzione) che, per gli specifici territori, hanno rappresentato l’eredità a noi consegnata dalle generazioni passate in termini di tradizioni, culture popolari, saggezze e storie umane. Eredità di elementi che, tutti insieme, rappresentano la saldatura tra una popolazione ed un territorio, costituiscono la specificità di una comunità, di una Nazione.
Questa eredità così ricca e variegata è fatta di prodotti, tecniche di produzione, sapori unici, biodiversità e piatti tipici, leggende, tradizioni e culture locali, ricordi familiari. Tutto insieme questi elementi confluiscono, amalgamati, in un unico concetto: l’identità di un popolo.
Negli ultimi decenni l’Italia ha investito molto nella creazione del Made in Italy, dell’immagine e della reputazione del cibo italiano. La genuinità e qualità dei prodotti agricoli, i metodi tradizionali della loro trasformazione, i controlli di vari Enti, sono i fattori di successo del marchio Made in Italy o Italian food.
Ma tutto questo Made in Italy, mi chiedo, per chi è? Gli articoli con etichetta “Prodotto Italiano 100%” sono ormai considerati di fascia alta, con prezzi dalle 2 alle 4 volte superiori alla media (basta fare un confronto dei prezzi delle varie etichette di latte o frutta), la maggior parte degli stessi prodotti sono a chiaro marchio di importazione, mentre altri mostrano sulla confezione sia un bel nome italiano sia l’indicazione di provenienza e produzione estera.
Io, e milioni di altre persone, siamo nati e cresciuti in questo Paese, l’Italia, abbiamo studiato nelle sue scuole e lavoriamo sul suo territorio. Ovunque volgiamo lo sguardo c’è qualcosa che ci parla di del Paese considerato culla e custode di quella arte, cultura e storia a fondamento della civiltà Occidentale. Ma un valore simile è avvertito dai cittadini di molte altre aree del mondo: Cina, Sud America, Giappone, India, Paesi Arabi, i Paesi Africani. Tutti i popoli sono frutto della combinazione di storie, culture, tradizioni, miti, mille altri fattori ed un territorio. Tutti i popoli hanno dunque un rapporto intimo e sacro con quell’unico territorio, con la loro Patria, la terra dei loro padri.
L’unicità di cui si sta scrivendo è individuata dal combinarsi di ambienti naturali, stili architettonici, letterature, tradizioni popolari e culinarie che si richiamano evoluzioni culturali e fatti storici nell’ambito dei quali le popolazioni locali ebbero il ruolo di soggetti attivi, artefici della loro trasformazione.
Tornando per un istante alla mia dimensione locale, risulta veramente difficile trovare prodotti provenienti dal territorio limitrofo alla mia residenza. Anche per individuare i prodotti al 100% provenienti dal territorio italiano bisogna impegnarsi, e non poco. Soprattutto si deve essere disposti a spendere un sovraprezzo proprio per il fatto di comprare un prodotto nazionale.
Ad osservare gli scaffali, sembra che l’offerta sia composta, in media, da un prodotto italiano (a prezzo di solito più alto) e da cinque prodotti esteri, più convenienti. Frutti, cereali, formaggi, carni e salumi, ed altri alimenti dei dintorni sono spariti dagli scaffali: le derrate offerte arrivano da terre lontane, spesso da molto lontano. Varietà di mele, ciliegie, fragole e altri frutti, tipici di queste terre, non sono più disponibili: si trovano sui banchi dei supermercati solo altre qualità degli stessi frutti. E lo stesso vale per la maglieria, i saponi, utensili e mille altre categorie merceologiche.
Di fatto i canali distributivi, che necessitano di grandi quantità di beni sempredisponibili, negli anni hanno determinato la sostituzione di alimenti un tempo prodotti nei campi circostanti con le grandi produzioni concentrate in aree geografiche specializzate. Sostanzialmente il prodotto è standardizzato in quelle pochissime varianti che il sistema produzione – distribuzione decide di offrire, sono quelle per le quali i margini di guadagno ne giustificano la presenza sul mercato.
E così, addio ai gusti tipici delle nostre campagne.
E, in certi casi, addio anche alle piante di quei frutti ormai dimenticati. Addio ad un tipo di ciliegio che in questo angolo del Parco del Ticino, e solo in questi pochi chilometri quadrati, si era sviluppato e diffuso in tutti i cortili e campi. Venuto meno il mercato per le sue ciliegie, anche la popolazione di piante si è ridotta al lumicino.
Le ciliegie che si possono trovare in questa zona ormai sono le stesse che trovi in centro a Milano, a Genova, a Napoli, probabilmente anche a Londra. Niente di diverso, sicuro che gli standard di prodotto saranno gli stessi.
Però, non tutti i prodotti locali sono estinti. Ci sono e li puoi trovare, però a due condizioni: la prima, è che devi essere disposto a pagare un prezzo superiore; la seconda, ti richiede la disponibilità a dedicare del tempo per recarti a quel negozio specializzato che ha fatto di tal prodotto una nicchia di mercato.
Riportando l’argomentazione ad un livello globale, tutti ed ovunque ci ritroviamo inconsapevolmente a consumare quei prodotti che il sistema ha selezionato per noi, quelli che il meccanismo di indirizzo del comportamento dei consumatori, la globalizzazione dei consumi, ha dichiarato economicamente degni di essere prodotti e venduti.
Ecco che, nel medio periodo passato, prodotti agricoli e artigianali, pietanze locali e tutti i ricordi dei nostri avi sono quasi scomparsi: sovrastati e sostituiti nel nostrolife styledall’avanzare delle produzioni organizzate e definite in base alle logiche economiche e finanziarie del sistema consumistico, di cui la grande distribuzione organizzata è uno degli attori principali.
Conseguentemente ci abituiamo, giorno dopo giorno, ai gusti di altri territori (e altri territori ai gusti della nostra zona), si perdono i ricordi delle nostre pietanze tipiche, soppiantati da stili alimentari simili in tutto il mondo. Fin dalla giovane età, diventiamo l’individuo di cui necessita il consumismo: il consumatore liberamente condizionato di cui ho scritto nell’articolo “La contemporanea società consumistica: liberi cittadini o consumatori liberamente condizionati?” (http://www.omeganews.info/?p=4201). Il consumatore “cittadino del mondo”, nel medio periodo né italiano, arabo, cinese, messicano o altro, bensì consumatore conformato agli standard globali.
E’ così che, da cittadino e consumatore italiano, se non sto molto attento a dove e come compro, rischio di mangiare una pietanza simbolo della mia Patria, la pizza, preparata con farina di grano canadese macinato in Est Europa, mozzarella di latte francese, prosciutto cotto derivato da carni provenienti dalla Danimarca, passata di pomodoro cinese o africano. Sono un cittadino e consumatore italiano orgoglioso di degustare la pizza italianafamosa in tutto il mondo!
Sarà un piccolo dettaglio, quella della provenienza degli ingredienti, ma inevitabilmente il gusto leggermente cambia, e nel tempo il gusto di questa “pizza globalizzata” sarà lo standard generalmente riconosciuto del gusto della vera pizza italiana.
Questo esempio vale non solo per i prodotti alimentari ma per tutti i settori merceologici ed industriali, è un fatto non limitato all’Italia bensì comune a tutto il mondo.
È il risultato del processo di omologazione dei consumi (e standardizzazione del comportamento dei consumatori) tramite una progressiva marginalizzazione di tradizioni e culture tipiche dei singoli popoli, soccombenti dinanzi alla forza delle logiche economico-finanziarie guidate da economie di scala, sinergie e massimizzazione di efficienza ed efficacia nell’impiego di capitale (in parole povere, del profitto). Un processo non inaspettato, bensì pianificato e scientificamente in corso di realizzazione, come già evidenziato nell’articolo menzionato in precedenza.
Una omologazione di culture e comportamenti indotta dall’attuale concetto di globalizzazione, che in Occidente e in altre aree cosiddette sviluppate ha già modificato significativamente il modo di vivere delle varie comunità. Basta osservare come negozi, ristoranti, palazzi e nuove case siano simili a Milano, Roma, Palermo, ma anche a Parigi, Londra, New York ed in qualsiasi altro centro di rilevanza economica del mondo; stessi prodotti, stessi alimenti, stessi materiali, qualche variante (poche) di design, stessi libri e film ovunque si vada.
In queste aree del mondo il processo di omologazione si è concretizzato in modo relativamente graduale e senza contestazioni particolarmente accese: qui si è assistito ad una fase di esaltazione della modernità prima ed una sopportazione senza rimostranze di rilievo ora. Il motivo sta nella percezione delle società occidentali in merito a questi sottili cambiamenti: una trasformazione di usi e costumi propinati, propagandati e poi accettati quale prodotto del nostro modello di evoluzione economica e culturale. Siamo cresciuti e ci siamo sviluppati in questo sistema, quindi lo accettiamo più o meno volentieri perché è frutto del nostro passato prossimo. Un sistema che garantisce un enorme potere a chi lo governa, un modello sociale della cui superiorità i popoli occidentali sono profondamente convinti. Per noi, sudditi del consumismo, il sistema capitalistico rappresenta la moderna civiltà che ha elevato l’uomo a livelli di benessere (prettamente materiale, direi) mai visti nella sua storia.
Forte di questa convinzione e del potere economico di cui dispone, l’Occidente sta esportando, direttamente o meno, questo modello socioculturale verso aree meno sviluppate del globo.
Sintetizzando l’esempio della pizza globalizzata e il processo di omologazione di cui sopra, si pone una questione epocale, che solo ad una interpretazione superficiale si potrebbe definire pura speculazione teorico-sociologica. Esemplificando sulla mia persona, le riflessioni precedenti mi impongono di rispondere a questa domanda: sono Italiano perché nella mia quotidianità si rinnovano e rivivono in concreto quei millenni di cultura, di arte, di tradizioni, di gusti che hanno contraddistinto l’idea stessa della nazione Italia, oppure sono italiano solo perché sono nato entro i confini geopolitici dello stato Italia?
Il dilemma nasce anche da una miriade di eventi che nulla hanno a che fare con le nostre tradizioni. Ad esempio, in Italia da qualche anno si festeggia Halloween tanto quanto il Carnevale. Si pone dunque sullo stesso piano la festa di Halloween, di origine celtica-gaelica che deriva il suo nome dall’antico irlandese e significa approssimativamente “fine dell’estate”, con valenze religiose specifiche del mondo anglosassone e data fissa il 31 ottobre, ed il Carnevale, dal latino carnem levare (“eliminare la carne”), che indica il banchetto che si teneva l’ultimo giorno di Carnevale (Martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima (caratterizzandosi così quale ricorrenza collegata alla religione Cristiana), con data variabile in funzione di quella della Pasqua.
La celebrazione in egual modo delle due tradizioni può essere interpretata in due modi, ma conduce alla stessa deduzione.
Può essere che nel tempo buona parte degli italiani si siano convertiti alle tradizioni celtiche, oppure sia Halloween che il Carnevale non hanno più alcun legame con religioni, tradizioni e culture, divenuti entrambi solo un’occasione di divertimento come tante altre.
Posto che non c’è evidenza di una conversione di massa ai riti celtici in Italia, la diffusione di Halloween è da ricondursi piuttosto al successo delle azioni di marketing volte a creare una nuova occasione di spesa. Solo una nuova ricorrenza commerciale, niente di più e niente di meno. Capace però di modificare il contesto culturale di una nazione, portandola verso un festeggiamento globale di una ricorrenza a lei estranea ma equiparata a quelle tradizionali. Una festa che il consumismo ha inserito nei calendari delle celebrazioni in moltissime nazioni.
Riprendendo il discorso delle caratteristiche della contemporanea globalizzazione, essa si è originata in casa nostra, nell’Occidente capitalistico, e si è sviluppata innestandosi su valori e visioni sociali in gran parte simili nei vari Paesi europei ed anglosassoni. I popoli hanno digerito senza molte difficoltà questo effetto del progresso coniugandolo in una nuova filosofia di vita. I cittadini delle nazioni appartenenti alla Unione Europea incominciano a considerarsi cittadini d’Europa, ed in alcune Nazioni il concetto di Patria si sta affievolendo, essendo divenuto sinonimo di un’epoca di arretratezza culturale e politica. Le lingue nazionali ormai sono secondarie rispetto alle lingue del business (inglese, tedesco, cinese, russo …), tanto che si moltiplicano i corsi universitari in lingua inglese. Lingue straniere studiate non per curiosità verso culture diverse da quella di origine, ma apprese perché strumento fondamentale per inserirsi nel mondo del lavoro e degli affari. Questo è solo un dettaglio, ma credo che abbia un significato rilevante nel capire come si stia evolvendo il processo europeo di integrazione.
L’omologazione del consumo porta con sé l’affievolimento del senso di appartenenza ad una comunità, sminuisce il senso di nazione ed alimenta la convinzione di essere cittadini del mondo. Questi effetti derivano tanto dal lato del consumo quanto dall’altro processo tipico della globalizzazione: la specializzazione geografica della produzione. La combinazione di questi due processi conduce all’assoggettamento della Politica alla Economia, così come già disquisito nel sopra citato articolo. Un esempio di questa sottomissione si può ravvisare nella politica estera di tutti gli Stati, politiche condizionate dai dati (ossia dagli interessi dei primari gruppi economici) di import/export.
Ma se si volesse abbinare queste deduzioni al processo di espansione della globalizzazione in atto verso aree del mondo in via di sviluppo o ad uno stadio economico ancora più arretrato, credo ne scaturisca una incognita di carattere politico e sociale di importanza primaria. Così come mi sono chiesto cosa significa essere italiano, sicuramente anche in altri Paesi, di culture molto diverse da quella Occidentale, ci saranno persone che si porranno lo stesso quesito. Ma quale sarà la reazione di queste persone, di società così diverse dalla nostra attuale? Quello che noi pensiamo essere la società moderna, superiore a quelle finora esistite ed esistenti in termini di diritti e benessere, che effetti sociopolitici produrrebbe se dovesse progressivamente alterare le tradizioni e le specificità di popoli e territori?
La globalizzazione che lambisce Paesi economicamente più deboli ed in situazioni sociali precarie, se non regolata e mitigata da una forte Politica internazionale di sviluppo di queste aree, con l’obiettivo principe focalizzato sul massimo rispetto della loro cultura e struttura sociale, si tradurrebbe in una nuova forma di colonizzazione che, proprio perché di carattere non militare, produrrebbe effetti irreversibili sui loro equilibri sociali e relativa tenuta in termini di civile convivenza.
I primi, negativi effetti già sono sotto gli occhi di tutti; la migrazione, lo sfruttamento di risorse da parte di multinazionali estere e relativi espropri, la fuga delle persone istruite verso i Paesi sviluppati. Essi sono solo fenomeni anticipatori di sommovimenti ben più gravi e di forte impatto anche sui Paesi sviluppati. Ciò che accadrà all’Africa mediterranea produrrà un forte impatto sui Paesi mediterranei dell’Unione Europea.
Se non ci sarà una correzione etica nell’agire economico generale, anche il tradizionale cuscus tunisino diventerà, come la pizza, globalizzato. Ma non sarà un progresso. Al contrario, avremo perso qualcosa: il sapore tipico del cuscus originario.
Portando a livello politico l’esempio del cuscus, se non proteggiamo i Paesi più deboli dagli effetti della globalizzazione e del consumismo ci ritroveremo con i “soliti noti” ancora più ricchi e potenti, una moltitudine di persone povere e senza prospettive così come sono ora, ed un mondo intero impoverito di culture e tradizioni, più uniforme e meno interessante.
In ultima analisi: abbandonare (principalmente) l’Africa nelle grinfie del capitalismo e consumismo in salsa Occidentale significa rassegnarci a ricevere sui territori europei prossimi alle coste nordafricane, in maniera più o meno volontaria, una moltitudine di persone provenienti da diverse culture e con un’unica prospettiva futura: adeguarsi a vivere secondo standard occidentali e mortificare nel tempo le proprie culture di origine. Moltitudini in terre straniere, assoggettate a leggi, usi e costumi a volte in contrasto con le loro consuetudini.
Che danno leggere quella semplice etichetta sulla confezione della baguette!
Mi lascia l’amara sensazione che, senza un diverso approccio culturale verso i nostri “dirimpettai” mediterranei, passeremo alla Storia come la generazione che ha creato le condizioni per lo sviluppo di una società che non sarà più occidentale, nemmeno araba, e neppure euro-mediterranea.Sarà una indistinta popolazione che perde nel tempo le sue molteplici anime, sospinta alla ineluttabile omologazione dal consumismo, potente signore delle coscienze di un regno che diverrà di ancora più ampi confini.
Angelo De Giuli