di Angelo De Giuli
Negli ultimi mesi le cronache internazionali hanno portato alla ribalta eventi ambientali e climatici di portata mondiale. Ne sono esempi gli incendi diffusi nelle foreste amazzoniche, che hanno preoccupato le diplomazie di numerosi Stati, e le conseguenti manifestazioni in tutto il mondo di sensibilizzazione verso i cambiamenti climatici. La grancassa mediatica ha doverosamente inseguito gli eventi e, contemporaneamente, ha cercato di evidenziare i motivi, le cause sottostanti i fatti riportati. I notiziari e la stampa mondiali hanno dato ampio spazio ai risultati di ricerche, studi, previsioni, statistiche ed altro materiale scientifico prodotto da innumerevoli istituzioni ed università di tutto il mondo, con il quale si pone in evidenza una certa responsabilità della mano dell’uomo riferita alla evoluzione climatica in atto. Nel corso delle ultime settimane gli stessi organi di informazione riportano posizioni divergenti, sostenute da scienziati che ritengono gli attuali cambiamenti climatici derivanti da normali evoluzioni delle dinamiche del nostro sistema solare, le quali determinano, in maniera ciclica, ere caratterizzate da temperature più fredde seguite da altre con temperature più calde.
Naturalmente si sta sviluppando un contraddittorio tra le due scuole di pensiero, con i soliti corollari di tentativi di reciproca delegittimazione e scambi di accuse di strumentalizzazioni varie.
Un elemento, però, sembra mettere d’accordo tutti: la distruzione della foresta amazzonica, di quella sub-sahariana e di tante altre è ritenuta un danno importante all’equilibrio dell’atmosfera terrestre ed un grave pericolo per la vita, così come la conosciamo, sul pianeta Terra.
Dunque, non c’è accordo sulle cause dei cambiamenti climatici, ma c’è una generale condivisione in merito al tipo di danni derivanti dalla progressiva distruzione delle grandi aree forestali del mondo. E questo è già un notevole risultato!
Inoltre, tutti concordano nell’individuare la principale causa della deforestazione in una precisa attività umana: trasformare aree forestali in campi per l’agricoltura intensiva, miniere di superficie, piantagioni monocoltura.
Non a caso opinione pubblica e governi di quasi tutto il mondo accusano il Brasile di lasciare mano libera ai latifondisti che, con incendi dolosi, sottraggono spazi alla foresta per ampliare principalmente le piantagioni di soia.
Questo è solo un esempio (se ne potrebbero presentare a centinaia), ma è istruttivo nel suo evidenziare come contrapposti interessi economici, politici e sociali condizionano la discussione in atto. In generale, chi ritiene l’uomo responsabile dei cambiamenti climatici è avversato da chi lo considera innocente, tutti concordano sul fatto che la deforestazione ha effetti sul clima globale, nessuno smentisce che siano uomini ad appiccare incendi nelle foreste e che, quindi, siamo in presenza di una delle innumerevoli e deleterie attività umane … ma per interessi opposti non ci può essere alcun accordo sulla responsabilità umana ed il tutto con gran disturbo di scienziati, professori, ricercatori e tante altre comparse.
Ognuno di noi, nel tempo, trarrà le proprie conclusioni in merito.
A mio avviso, il punto carente di profondità di analisi è un altro e consiste nella domanda: quali sono gli arcani meccanismi di un sistema che spinge alcuni agricoltori di un determinato Paese a bruciare sempre più vaste aree di foreste?
Prima di avviare l’ambizioso tentativo di approfondire le dinamiche alla base di questi comportamenti sconsiderati, riassumiamo il senso della comunicazione giornalistica a spiegazione di questi atti. La ribalta, in questo momento, spetta al Brasile ed alla Amazzonia in particolare, dunque seguiamo questo caso.
I media ci raccontano che ogni anno, in modo incrementale, una parte di foresta amazzonica brucia. Anno dopo anno, l’area complessiva di questo polmone del mondo si riduce ad un ritmo pressoché costante. E questo è risaputo da anni; ogni tanto qualche ecologista o scienziato ce lo ricordano, ma normalmente non conquistano le prime pagine dei giornali. Per qualche “oscuro” motivo, il 2019 ha registrato un incremento del numero di incendi ed una accelerazione del processo di disboscamento oltre la media degli anni precedenti (quasi che questa media di distruzione sia cosa normale …). Ecco dunque che scatta l’allarme mondiale, con ferme e perentorie condanne politiche internazionali nei confronti del governo brasiliano. L’accusa consiste nel tollerare che le esigenze economiche del settore agricolo prevalgano sulla necessità di tutelare il patrimonio boschivo, considerato di vitale interesse per tutta l’umanità. In effetti il Brasile ha, nella produzione di soia, un interesse strategico per la sua stabilità economica in quanto essa è componente base dei mangimi destinati agli allevamenti intensivi di bovini e suini. Tali allevamenti sono un altro comparto vitale dell’economia carioca. Nel corso degli anni il Brasile si è specializzato nella produzione di cereali da mangime, ed in quella della soia in particolare. Per il Brasile, il primo mercato di esportazione di soia e di animali da macello (suini in primis) è quello cinese, la cui crescita è prevista in aumento nei prossimi anni, trainata dal continuo incremento dei consumi di carne suina. Un dato riportato nel documento di Coldiretti L’impero dei maiali, la suinicoltura in Cina (1), indica che il consumo pro capite cinese di carne suina è pari a 39 kg annui (superiore a quello statunitense e cinque volte maggiore del consumo pro capite nella Cina del 1979).
Dunque, la deduzione logica comunicata dai media di tutto il mondo è stata: poiché in Cina i consumatori domandano sempre più carne di maiale e la produzione cinese di suini richiede sempre maggiori quantità di soia per mangimi e animali, gli interessi della finanza globale e del governo brasiliano hanno necessità di ampliare la produzione di soia e bestiame. L’agricoltura brasiliana, che ha già saturato i terreni adatti a queste attività, si ritrova costretta a recuperare nuovi territori sottraendoli alla foresta amazzonica.
Il messaggio finale, plasmato dalla sintesi e semplificazione tipiche del linguaggio giornalistico, presso il pubblico appare il seguente: i consumatori cinesi, con le loro crescenti richieste di carne suina, alimentano le brame della finanza globale ed inducono i latifondisti a distruggere le foreste brasiliane. Dunque, l’ingordigia dei consumatori cinesi sarebbe il mandante di questo crimine contro l’umanità.
Ecco servito in pasto ai lettori il colpevole ed il suo movente! Tutto molto semplice ed immediato, senza troppe filosofie!
Ma le cose stanno proprio così? Siamo sicuri che le cause di questa distruzione non siano altre, meccanismi non immediatamente individuabili perché caratterizzati da molteplici diramazioni (economiche, sociali, culturali, politiche ed altre) che si perdono, affondano nei meandri della Società Mondiale?
Proviamo ad impostare un ragionamento di più ampio respiro, richiamando le osservazioni sul sistema socioeconomico contemporaneo espresse negli articoli precedenti dello scivente, e tentiamo un’analisi multidimensionale di questo fenomeno secondo l’impostazione teorica suggerita al termine dell’articolo “Dalla Globalizzazione all’Omologazione. Gli effetti stravolgenti del Consumismo e la necessità di una Scienza del Sistema Umano” (http://www.omeganews.info/?p=4226).
I media affermano che i consumi cinesi di prodotti suini sono in aumento. E’ vero, varie fonti lo confermano. Ma come e perché aumentano? Come sono cambiate le abitudini alimentari cinesi?
Da una attenta lettura dell’analisi della Water and Food Security (2), basata su dati della FAO risalenti al 2012, si evince una tendenza nei prossimi anni ad una progressiva urbanizzazione della società cinese, con al seguito due rilevanti conseguenze.
La prima. Lo sviluppo economico degli ultimi anni ha visto un forte progresso del settore dei servizi, con una conseguente crescita del numero degli occupati nel terziario. Le società operanti nel settore dei servizi generalmente prediligono stabilire nei centri urbani e loro immediate vicinanze le proprie sedi, gli uffici e le logistiche. Ne sta tuttora conseguendo un inarrestabile concentramento di persone nelle aree urbane, a discapito dei territori rurali ed interne dello Stato cinese. La continua e crescente richiesta di servizi a supporto dello sviluppo industriale ha portato all’espansione di un ceto medio, ampio e benestante, concentrato principalmente nelle aree urbane.
La seconda conseguenza. La forte urbanizzazione e relativa concentrazione di ricchezza, combinati con l’apertura della società cinese all’incontro di culture di altri popoli, hanno determinato una rapida evoluzione delle abitudini alimentari dei cinesi residenti negli agglomerati urbani (nelle aree rurali e periferiche dell’Impero Celeste permane, invece, la millenaria tradizione alimentare).
Per comprendere la portata di questo fenomeno, è utile ricordare brevemente alcune caratteristiche fondamentali della tradizione alimentare cinese, che trae ispirazione dalla antichissima teoria dell’armonizzazione dei cinque sapori (dolce, acido, amaro, piccante e salato), formulata nel periodo della dinastia Shang (1.600 a.C. – 1.046 a.C.). Grande influenza sul regime alimentare è stata poi esercitata dalla religione buddista la quale, pur non codificando espressi precetti sull’alimentazione, ha indirizzato la popolazione verso comportamenti alimentari che prevedevano una certa “separazione di classe” nel consumo dei vati tipi di alimenti. Così, l’Imperatore aveva diritto alle carni di bovini, di montone e di maiale; i signori feudali potevano consumare carni bovine; i ministri erano autorizzati a degustare il montone ed i suini; i generali ed alti ufficiali potevano accedere al pesce; il popolo ed i bassi ranghi dell’esercito si potevano nutrire essenzialmente di prodotti vegetali e, occasionalmente, di qualche tipo di carne (fonte: Water and Food Security (2)).
Questa sommaria suddivisione si creò non solo a seguito di indicazioni religiose o convenzioni sociali, ma anche a causa delle diverse disponibilità economiche delle varie classi sociali, così che il consumato ordinario di un rango superiore rappresentava l’eccezionalità per quelli inferiori. Nei secoli la struttura feudale della società fu superata, ma le antiche regole sono sopravvissute fino ai tempi recenti come tradizione alimentare comune a gran parte del territorio cinese.
Dunque, siamo in presenza di elementi di diversa natura (antropologica, religiosa, sociale ed economica) che hanno plasmato la tradizionale cucina cinese, dove la carne suina costituiva un prodotto marginale in termini di quantità impiegata, ma era segno distintivo di rango e agiatezza. Una interazione di fattori che ha condizionato il regime alimentare cinese sino agli anni 1950 circa, ossia sino a quando due importanti eventi storici (nel 1978 e nel marzo 2019) hanno innescato il processo che, modificando gli equilibri sociali ed economici, tuttora agisce spingendo i consumatori cinesi verso un nuovo modello alimentare nel quale, ora, spicca il ruolo centrale delle carni (la suina in particolare).
Il 1978 è l’anno della definitiva apertura della Cina al commercio mondiale, è l’inizio di una fase di sviluppo che, fino ai giorni nostri, ha segnato tassi di incremento molto consistenti. Gli anni ’70 vedevano ancora una economia caratterizzata da una agricoltura di tipo principalmente familiare, diffusa su tutto il territorio, con rari casi di coltivazioni ed allevamenti intensivi. Stando alla ricerca di Stefano Liberti (I signori del cibo, 2016) (3), in quegli anni la presenza del maiale in Cina era quantificata in un maiale a famiglia, la quale consumava carne suina pochissime volte all’anno (si stima una media di due volte l’anno). Il maiale aveva la principale funzione di eliminare, cibandosene, i rifiuti alimentari del nucleo familiare e trasformarli in sostanze concimanti da riutilizzare nelle coltivazioni.
La strategia politica del governo cinese impostata tra gli anni ’70 e ’80, tesa a rendere la Cina una potenza economica di livello mondiale, ha determinato una continua e progressiva migrazione di persone dalle aree rurali verso le metropoli, con conseguente abbandono del modello di coltivazioni ed allevamenti diffusi e riduzione del numero di individui con possibilità di autoprodurre il proprio fabbisogno alimentare. Contemporaneamente la popolazione urbana esplodeva, rendendo necessario provvedere al suo sostentamento con un nuovo sistema agricolo di tipo industriale.
Dal 1978 il reddito pro capite cinese, in media, è cresciuto in modo esponenziale, ma non in maniera uniforme sul territorio. Ancora oggi vi sono vaste aree interne con redditi medi di pura sussistenza, mentre nelle città si concentra la maggior parte dei cittadini con redditi medio alti. La crescente ricchezza ha permesso ad una sempre più ampia platea di cittadini di diversificare ed arricchire la propria dieta, e la carne di maiale, in questo processo, ha assunto una valenza sociale che, si potrebbe affermare, supera l’importanza del suo apporto nutrizionale.
La storia dell’industrializzazione della produzione di carne suina è ben documentata da S. Liberti nel suo libro (3), a cui rimando per eventuali approfondimenti.
Quello che invece è rilevante per il nostro metodo di analisi è l’aspetto comportamentale dei consumatori cinesi, ben evidenziato dallo stesso Liberti: il consumo di maiale è diventato, negli ultimi tre decenni, un carattere distintivo dello status di benestante, irrinunciabile per potersi identificare come appartenente alla classe medio alta cinese. Il maiale dunque quale simbolo di benessere, di successo, di riconoscimento sociale. In questo processo decennale si intravvede l’opera di tutte le dinamiche economiche, comunicative, sociali ed individuali descritte nei precedenti articoli (http://www.omeganews.info/?p=4201; http://www.omeganews.info/?p=4217; http://www.omeganews.info/?p=4226), tanto che questo caso, del mercato suino, è un tipico esempio di prodotto del nuovo fenomeno che si è denominato “Omologazione”. Tra poco ritorneremo su questo pensiero.
La seconda data saliente è, invece, assai recente: inizio 2019. Una nuova, sottile, strategia in ambito sociale e religioso è stata definita e resa operativa dal governo centrale per mezzo dell’Ufficio Affari Religiosi, e consiste nel condizionare le confessioni religiose praticate in Cina. Ossia, il potere governativo riconosce il diritto ad esistere delle varie confessioni, purché adattino i loro insegnamenti in funzione degli obiettivi politici, economici e sociali del Governo, accettino di essere “osservate” da funzionari pubblici e non pongano questioni etiche, religiose o filosofiche che contrastino, in qualsiasi modo, le linee politiche del Partito Unico.
Questa iniziativa non è un fatto di poco conto, in relazione al tema di questo scritto. La tradizione alimentare cinese fu sostenuta, approvata, anche dai suggerimenti comportamentali del buddismo, come detto in precedenza. Dunque, condizionare la dottrina religiosa buddista consente al governo di far passare un messaggio a lui gradito in merito alle preferenze dei consumatori. Nel caso delle carni suine, il governo potrà, in breve, eliminare le residue tracce dei tradizionali consigli di consumo legate alle classi di appartenenza che ancora persistono nella società cinese, specialmente nelle popolazioni non residenti nei grandi agglomerati urbani. In poche parole, l’Autorità centrale si riserva il potere di rimuovere i retaggi storici che, seppur con ridotti effetti, potrebbero frenare i consumi di uno dei settori strategici dell’economia cinese: la filiera del mercato della carne suina.
Siamo dunque giunti ad un primo punto cruciale: il settore della carne, quella suina in particolare, è uno di quelli che, nell’economia cinese, gioca un ruolo vitale. Non solo per l’economia, ma anche per la politica e la reputazione del governo. Sì, perché come ben spiega Liberti (3), il maiale rappresenta soprattutto la capacità del Partito Unico di provvedere al benessere del suo popolo, è il simbolo della ricchezza della Cina moderna. Talmente è importante che, sempre secondo l’autore citato, il prezzo della carne suina è costantemente monitorata dal governo e calmierato tramite l’opportuna gestione di scorte strategiche, conservate in appositi centri di stoccaggio dotati di enormi congelatori.
E qui inizia a delinearsi il senso di questo lungo excursus storico del maiale. Questo nobile animale racchiude in sé vari aspetti della cultura popolare cinese, racconta delle origini contadine, di una struttura sociale rimarcata anche dal tipo di cibo consumato dalle varie classi, ricorda alcuni insegnamenti della religione buddista; in poche parole, il maiale rappresenta un forte legame con il passato e la storia della Cina. … e questo legame l’Omologazione non lo tollera, deve essere spezzato!
La Cina in cui i contadini allevavano pochi maiali per famiglia, utilizzati per l’autoconsumo ed allevati all’aperto, liberi di nutrirsi secondo la loro natura, la Cina che viveva di una cultura plurimillenaria, ecco, quella Cina non esiste più. E’ un Paese che ormai presenta le stesse caratteristiche dell’Occidente, dove un potere assolutistico, con azioni felpate, sta cancellando velocemente ogni traccia delle antiche tradizioni, delle diversità culturali e religiose.
Anche in questa antichissima nazione l’Omologazione sta vincendo la sua guerra di conquista, sovrascrivendo l’originaria filosofia di vita dei cinesi.
Lo sviluppo economico imposto dal Partito Unico ha sospinto centinaia di migliaia di cinesi dalle originarie zone rurali verso le città, li ha sradicati da attività locali per impiegarli nei siti produttivi delle grandi industrie, estirpando una identità millenaria e sostituendola con una indistinta idea di appartenenza (obbligata) alla “comunità della Ragion di Stato”, con l’obiettivo di prevalere nel club delle economie avanzate.
Ma questa transizione a tappe forzate verso il modello dell’economia avanzata, ha creato la necessità di provvedere al sostentamento di milioni di persone che, lasciati i villaggi di campagna, ora lavorano nell’industria e nei servizi, al momento i settori più redditizi. Una transizione che, con l’apertura della Cina al sistema economico mondiale, ha portato la società cinese ad adottare progressivamente gli stessi stili di vita dei Paesi Occidentali, favorendo i meccanismi propri del Consumismo al fine di affermare erga omnes la capacità dello Stato di garantire il benessere dei suoi cittadini, e conseguentemente, il suo crescente potere.
Il bisogno di garantire l’approvvigionamento di una popolazione sempre più urbanizzata ha spinto il governo ad industrializzare e concentrare le filiere del comparto suino in pochi operatori, operanti sotto il suo diretto coordinamento strategico. Sulle modalità di intervento, di sviluppo delle aziende di settore e loro organizzazione, rimando al citato libro inchiesta di S. Liberti (3). Da esso recuperiamo, però, anche l’informazione cruciale per riprendere la riflessione critica sui messaggi giornalistici di cui in apertura di questo articolo. Entro il 2020 il mercato cinese della carne suina dovrà essere controllato da quattro grandi gruppi, così come stabilisce l’obiettivo strategico di settore determinato dal governo.
E tutto ciò con buona pace per i fautori del libero mercato!
Ad oggi, tra questi gruppi spicca la WH Group-Shuanghui: leader planetario della filiera del suino.
Considerando le dimensioni della Cina, in modo spontaneo si è portati a credere che la produzione per il vasto mercato interno sia il motivo della enorme dimensione di questo gruppo. Ma anche in questo caso la realtà è un po’ differente da quanto percepiamo.
La WH Group-Shuanghui è proprietaria anche della Smithfield, di gran lunga la numero uno dei produttori di maiali del Nord America, e della Campofrio, stessa caratura in Europa.
Acquisizioni relativamente recenti, che dimostrano con i fatti la strategia globale del gruppo, dichiarata dall’addetto stampa a S. Liberti (3): controllare il mercato mondiale del maiale, acquisire le migliori tecnologie, vendere un prodotto che sia all’avanguardia. Una strategia che ha insospettito anche il governo americano in occasione dell’acquisizione della Smithfield, il quale istituì una commissione per appurare il vero senso di questa operazione.
Le acquisizioni di cui sopra hanno anche un altro scopo: disporre del diritto di commercializzare in Cina i vari prodotti (tutti, indifferentemente dal luogo di produzione) con un marchio straniero (in questo caso, americano); i consumatori cinesi si fidano maggiormente dei marchi esteri, per loro essi sono sinonimi di più elevata qualità.
Una tecnica di commercializzazione, questa, che ribadisce come si sia in presenza di un esempio di Omologazione, con una multinazionale che agisce sul mercato sfruttando a pieno la combinazione di Globalizzazione e Consumismo.
A tal fine vale la pena evidenziare un dettaglio della strategia di vendita del gruppo WH Group-Shuanghui. Le confezioni di tutte le linee di prodotto hanno rappresentazioni che richiamano fiori, verdure e altro, ma mai elementi che colleghino visivamente il prodotto all’animale. Il consumatore non deve pensare all’animale ed alle sue condizioni di vita in allevamento; deve concentrarsi sulla soddisfazione di acquistare quel prodotto ed alla sua utilità. Un dettaglio comunicativo non trascurabile, in quanto è il classico esempio di trasformazione di un prodotto tradizionale, con un significato intrinseco, in merce, indistinta ed anonima. Merce, come può essere un cubo di acciaio o un sacco di cemento: non importa dove e come sia prodotta, è sufficiente che risponda a determinate specifiche e costi il meno possibile. Marketing, pubblicità e marca saranno i suoi unici elementi distintivi rispetto ad altre merci.
In questo processo di mercificazione si esprime tutta la forza impositiva del Consumismo, con la collaborazione della capacità condizionante del marketing e l’ignava complicità dell’indifferenza dei consumatori. Un tema questo che si ricollega con quanto già descritto in articoli precedenti.
L’evidenza della trasformazione del maiale (inteso come prodotto) in merce è un tassello fondamentale della comprensione del meccanismo politico economico che porta, in modo superficiale, ad un collegamento automatico tra la distruzione della Amazzonia e il consumo di carne in Cina.
La mercificazione dei prodotti è un elemento fondamentale per il pieno funzionamento del fenomeno Omologazione: il consumatore deve essere reso indifferente alla “storia” del bene acquistato, che sia persuaso solo del fatto che per essere felice ed appagato deve poter consumare senza vincoli di sorta. Che il maiale sia autoctono o meno è indifferente; che viva all’aperto, libero di mangiare ciò che la natura gli offre oppure nasca, viva e muoia su una grata di metallo, legato ad una sbarra e mangi solo mangimi frullati, … ma che importanza ha, di fronte alla “esigenza” di mangiare sempre più maiale pro capite?
È su queste basi di inconsapevolezza dei consumatori che il mercato della carne suina in Cina è esploso, diventando in pochi anni il primo al mondo per dimensione e valore.
L’articolo di Coldiretti (1) già menzionato indica in oltre 500 milioni i maiali prodotti in Cina in un anno (altre fonti più recenti riferiscono di 700 milioni nel 2018), pari alla metà della produzione mondiale annua. L’obiettivo strategico della politica cinese, quello di diventare il Paese leader globale nella produzione suina (a dire il vero, l’ambito strategico è più ampio e si riferisce a tutto il settore agro-alimentare e dell’allevamento in generale), è stato ampiamente raggiunto, ma qualcuno e qualcosa hanno pagato un caro prezzo, destinato a crescere ulteriormente.
Per inquadrare correttamente il senso del ragionamento che seguirà, è necessario richiamare un concetto tipico della strategia aziendale: la logica delle economie di scala. Consideriamo ad esempio uno stabilimento di macellazione e trasformazione di maiali. I macchinari di cui è composto hanno un determinato costo, ed una volta acquistati, assemblati e messi in funzione, il costo diventa fisso (è una semplificazione) per tutta la durata dell’impianto. Ossia, l’ammortamento economico annuo, in costanza di condizioni di utilizzo, è invariato per tutta la vita economica dei macchinari stessi. Questo ammortamento deve essere ripagato dal valore del venduto (il ricavo) annuo, il quale è determinato dal volume del venduto (quantità) moltiplicato per il ricavo unitario (il valore riconosciuto dal mercato per ogni unità di prodotto venduta). Sintetizzando al massimo, all’aumentare dei volumi prodotti (e venduti!) corrisponde un decremento dell’incidenza dell’ammortamento sul ricavo unitario, aumentando così il margine di profitto per unità di prodotto venduto.
Per certi settori, in costanza di ricavo unitario, l’investimento in capacità produttiva aggiuntiva (l’ampliamento degli impianti) determina incrementi di volumi della produzione tali da ottenere un’incidenza di ammortamento unitario fortemente decrescente, ottenendo un effetto moltiplicatore dei margini di profitto per unità prodotta e venduta. Ed il settore della produzione di carne suina rientra in questa casistica.
In Cina si è realizzata la condizione agognata da tutti gli imprenditori: oltre alla possibilità di sfruttare le ampie economie di scale derivanti dall’enorme mercato di sbocco, la politica governativa ha eliminato moltissimi ostacoli posti dal principio di libera concorrenza concedendo (solo alle imprese prescelte!) esenzioni fiscali, sussidi, deroghe ai vincoli ambientali e sanitari, copertura legale ai “necessari” espropri, azzeramento dei diritti sindacali ed altro, favorendo il nascere di un regime di oligopolio con coordinamento strategico statale.
Ecco dunque il miracolo della WH Group-Shuanghui (e di altre poche imprese), la cui storia ed appartenenza al gruppo di élite delle “testa di tigre” è ben documentata nel libro di S. Liberti (3).
Questo processo di concentrazione dell’industria suina in pochi attori ha consentito di abbattere i costi di produzione e di verticalizzare la filiera produttiva, trasformando la Cina da semplice produttore a specialista di settore.
Quanto scritto finora è l’esempio di una delle conseguenze dell’affermarsi dell’Omologazione a livello globale: il controllo dell’offerta per condizionare il consumo (ecco il motivo delle etichette con marchi statunitensi), indirizzandolo verso le merci ritenute più convenienti al fine di poter standardizzare la produzione, garantendo al capitale la resa massima (il più elevato profitto possibile).
Abbiamo prima accennato alle vittime sacrificate sull’altare del successo strategico del governo cinese. Ebbene, il primo soggetto a farne le spese è stato proprio il maiale. Si legge nell’articolo citato di Coldiretti (1): “Fino agli anni ’80 … il 95% di maiali cinesi proveniva da piccole proprietà terriere con meno di cinque animali. Oggi (2015) solo il 20% proviene da piccoli possedimenti” … chiara conseguenza della concentrazione menzionata. Ma l’articolo continua: “Alcuni siti industriali, spesso di proprietà statali o di multinazionali, producono (allevano) fino a 100.000 suini l’anno. Questi maiali nascono e vivono tutta la loro vita su letti di metallo a stecche … e molto pochi si accoppiano. … Dei maiali allevati in Cina, il 95% è composto da tre diverse razze straniere …”. Fine delle razze autoctone, simboli di tradizioni locali, e omologazione delle razze di maiali allevate, selezionate in funzione di logiche economiche. Non per niente il governo ha istituito una “archivio genetico” per non perdere le tracce del maiale di casa. Altra informazione da Coldiretti (1): i suini cinesi, che in precedenza mangiavano scarti domestici e tutto ciò che trovavano nei campi aperti, ora si nutrono esclusivamente di mangime industriale, per gran parte importato. Il Grains Council (USA) stima che entro il 2022 la Cina avrà bisogno di importare una quantità di mais pari a circa un quarto della produzione mondiale per destinarla all’alimentazione dei suoi maiali. Per la soia le quantità necessarie sono anche maggiori.
Un’altra vittima dello sviluppo industriale di questi allevamenti è il piccolo agricoltore cinese, quello che alleva i pochi capi per il suo sostentamento e vendere il restante per integrare il suo reddito. La necessità di terreni da destinare agli allevamenti intensivi ed alla produzione di cereali per mangimi, insieme alle insormontabili difficoltà per i piccoli produttori di piazzare i propri capi di bestiame e prodotti cerealicoli su un mercato dominato dalle grandi imprese tipo la WH Group-Shuanghui, hanno costretto gli agricoltori ad abbandonare i loro campi ed a spostarsi nei centri urbani, per lavorare come dipendenti nel terziario o nelle grandi industrie della carne. Una conseguenza più di ordine sociale e demografico che economico, ma da considerarsi diretto effetto dell’agire dell’Omologazione sulle singole persone.
La specializzazione della Cina nel comparto suino produce effetti anche oltre i confini cinesi, e si proiettano sulle altre aree di produzione di carne, in Nord America ed in Europa, tramite le acquisizioni societarie in precedenza riportate. Una leadership condizionante il mercato mondiale suino che ha due finalità.
La prima: garantire un costante approvvigionamento di carne al mercato interno dirottando la produzione estera verso la Cina in caso di problemi produttivi interni.
La seconda, di non immediata evidenza: raggiungere il potere di condizionamento della filiera mondiale per potersi garantire le forniture essenziali per la produzione suina, principalmente per controllare il prezzo di importazione di mangimi e carni.
Questa seconda finalità deriva dal fatto che la produzione cinese dei mangimi ha già raggiunto la capacità massima (non vi è possibilità di destinare altro territorio e acqua senza creare problemi in altri settori a livello produttivo ed ambientale), ma non è sufficiente. Inoltre i consumi di carne sono in costante crescita e, per le ragioni di opportunità politica già richiamata, è fondamentale per il governo cinese assicurarsi nuovi allevamenti in terra straniera.
Ma la concentrazione dell’allevamento, macellazione e distribuzione nelle mani cinesi fa sì che i produttori di cereali destinati alla zootecnia abbiano la Cina quale principale acquirente (a volte quasi unico sbocco per i loro prodotti), creando una mortale dipendenza delle loro aziende dai volumi acquistati dall’Impero Celeste. Questo legame si rivela particolarmente condizionante per le economie dei Paesi in via di sviluppo, tendenti a specializzarsi in relativamente pochi settori.
Per il Brasile, nel nostro caso specifico, bestiame e cereali per mangimi rappresentano settori vitali delle esportazioni ed i mercati di destinazione di gran lunga più importanti sono la Cina e gli USA. Mercati talmente grandi e costantemente in crescita che per le produzioni brasiliane sono uno stimolo irresistibile all’ampliamento della capacità produttiva, ossia a dedicarvi sempre più risorse e uomini. Il Brasile già da tempo ha saturato gli spazi idonei all’allevamento ed alla coltivazione di soia ed altri cereali ad esso destinati, quindi l’unica possibilità per espandere la sua produzione è recuperare nuovi territori rubandoli alla foresta.
E qui ci ricolleghiamo al racconto giornalistico con la relazione tra consumatori cinesi e incendi in Amazzonia.
Ma non dobbiamo fermarci qui: anche in Brasile, così come in Cina, opera la logica delle economie di scala. Gli effetti di essa sono prezzi di produzione decrescenti e grandi volumi di prodotto disponibili a flussi costanti, quindi molto competitivi sul mercato mondiale di bestiame e cereali da mangime. Ma se il bestiame brasiliano per buona parte è destinato al mercato interno e per il resto esportato verso Cina e USA, per cereali e soia la situazione è diversa. Essi presentano livelli di volumi e prezzi che hanno spiazzato i produttori di altri Paesi, facendo sì che, in altre agricolture queste coltivazioni divenissero marginali. In Italia, ad esempio, la produzione di soia è ampiamente al di sotto delle sue necessità, tanto che ne importa oltre tre miliardi di tonnellate all’anno per la sua trasformazione in mangimi. Ciò implica che il Brasile tenderà a specializzarsi sempre più in questi comparti agricoli e, nello stesso tempo, a dipendere in modo crescente dalla domanda di suini da parte delle maggiori economie.
Eccoci, dunque, al punto cruciale della questione. La domanda mondiale di maiale è soddisfatta da un mercato che è sostanzialmente dominato da un attore particolare: il sistema produzione-distribuzione a guida cinese.
Tralasciando per ora i temi della finanza globale e della grande distribuzione (argomenti che affronteremo in scritti dedicati, rimandando il lettore interessato al libro di S. Liberti (3) dove può trovarvi un’ampia analisi), è opportuno evidenziare in questa sede una lettura della situazione in chiave politica, sia interna al Brasile che a livello internazionale.
Per quanto riguarda il fronte interno, tre sono gli aspetti politici salienti che il Brasile è chiamato a gestire. Il primo: la deforestazione si accompagna ad un processo di “espropriazione” ai danni delle popolazioni che nella foresta abitano e trovano il loro sostentamento, costringendole a migrare verso i centri urbani dove possono solo ingrossare le fila degli esclusi ammassandosi nelle periferie. Il secondo: la deforestazione ha sollevato grandi preoccupazioni nell’opinione pubblica mondiale, spingendo diversi governi ad assumere posizioni critiche e ad esercitare pressioni verso il governo brasiliano, mettendolo in un certo qual senso in mora. Il terzo: la forte concentrazione dell’esportazione di soia e cereali verso le multinazionali cinesi limita le opzioni politiche del governo brasiliano, obbligandolo a difendere l’operato in Amazzonia per non perdere il vantaggio economico derivante dal rafforzamento della sua specializzazione di settore, essendo questa dipendente dall’ottenimento di nuove terre coltivabili. Quindi, per poter mantenere la posizione di privilegio nei rapporti commerciali con la Cina, per il comparto soia e cereali, il Brasile deve mantenere la sua capacità di crescita della produzione, e di conseguenza non può fermare il processo di deforestazione e recupero di nuovi territori per l’agricoltura intensiva. Fermare questo processo significherebbe porre un limite alla sua crescita economica, rinunciando così ad occupazione e reddito incrementali.
Sul fronte internazionale, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. La propagazione del processo di Omologazione degli stili di vita, accompagnato dal dilagante Consumismo e relativa standardizzazione dei prodotti, fa sì che la posizione di leadership conquistata dalla Cina sia sempre più condizionante il mercato, nel senso che in Nord America ed in Europa le decisioni in merito alla disponibilità di mangimi per gli allevamenti, i volumi di produzione e la destinazione di questi, sono assunte da un “giocatore” in grado di modificare le regole del gioco.
Per dare un senso pratico a questa deduzione, facciamo un esempio. Per una qualsiasi causa, la produzione suina in Cina si riduce per alcuni anni. Per i motivi di politica interna già evidenziati, il governo cinese non potrà consentire una riduzione, sul mercato interno, della disponibilità di prodotti di derivazione suina né accettare un significativo rialzo dei loro prezzi al consumo. Il governo richiederà alla WH Group-Shuanghui, sempre a titolo esemplificativo, di aumentare le produzioni negli impianti in USA ed Europa per dirottarne poi un maggior volume verso la Cina, a determinati prezzi politici. Ciò determinerebbe due shock di mercato ad effetto immediato. Il primo: parte della soia di produzione cinese sarà venduta agli impianti in USA ed Europa (a fronte del calo degli allevamenti nazionali, la soia cinese invenduta sul mercato interno sarà dirottata verso gli impianti che aumentano la produzione, evitando eccedenze e conseguente calo dei prezzi) ed il Brasile vedrà ridurre le sue quote di esportazione, con ripercussioni negative sulla sua economia. Il secondo: nell’attesa che i porcellini aggiuntivi in USA ed Europa crescano, questi stessi impianti spediranno parti consistenti della loro produzione verso la Cina, determinando così scarsità di carne suina, con relativo innalzamento dei prezzi, sui mercati americani ed europei.
Gli effetti di questa posizione dominante di mercato (mondiale) non sono dunque trascurabili.
Così come non sono trascurabili i rischi derivanti dalla possibilità che questa posizione di forza sia utilizzata per finalità di politica estera cinese, magari per generare tensioni alimentari in Paesi non alleati, o per lasciare a casa di altri i danni ambientali derivanti da nuovi e più grandi allevamenti intensivi, per drenare ricchezza dai mercati esteri tramite un’alterazione dei prezzi pagati dai consumatori stranieri, o per tanti altri motivi ancora. In generale, in presenza di questi intenti, più che di Omologazione sarebbe più realistico parlare apertamente di guerra economica.
È evidente ora che la sintesi giornalistica della causa retrostante la deforestazione in Amazzonia sia lacunosa e, in una certa misura, fuorviante.
Non è tanto la fame di maiale dei consumatori cinesi, quanto piuttosto la necessità politica di Pechino (coadiuvata dalla progressiva occidentalizzazione dello stile di vita ed alimentare della società cinese) ad incoraggiare e determinare la continua crescita dei consumi di prodotti suini, con conseguenti effetti sulla domanda di soia e mangimi. E’ l’importanza economica propria di questo settore che necessita di costanti tassi di crescita dei loro consumi nel mondo, perché una flessione di questi avrebbe ricadute negative sia in Cina che in altre importanti parti del globo. E’ per evitare queste flessioni dei consumi che si rende necessaria la progressiva Omologazione di culture, comportamenti, gusti e stili di vita, così che tutti concorrano a far sì che gli obiettivi di determinati soggetti (in questo caso, del governo cinese) siano raggiunti e mantenuti nel tempo.
Dunque, spingendoci solo qualche centimetro oltre la semplificazione mediatica, ci si ritrova a riflettere su numerose sfaccettature del fenomeno della Omologazione e, soprattutto, delle diverse implicazioni che il suo dilagare comporta per gli scenari futuri di intere popolazioni.
In questa faccenda dei maiali, il porre un obiettivo politico (la leadership mondiale del comparto suino) all’Omologazione in atto (portare il mercato cinese allo stesso livello di funzionamento di quello americano o europeo), sfruttando il potere del Consumismo e della finanza globale, si riscontrano effetti su numerosi aspetti della vita di una moltitudine di persone e della loro identità.
Il crescere dell’importanza sociale e politica del maiale ha visto la scomparsa di una tradizione alimentare e culinaria millenaria, uno stravolgimento delle aree rurali interne della Cina, con importanti flussi migratori verso le città, la progressiva scomparsa di razze autoctone di maiali, la delegittimazione della filosofia alimentare di una radicata religione, un notevole impatto ambientale legato alla elevatissima concentrazione di suini su determinati territori, lo stravolgimento della biodiversità dovuta la coltivazione intensiva di soia e cereali, la mutata qualità della carne suina dovuta alla moderna dieta a base di soli mangimi, la distruzione di foreste per recuperare sempre più ampie aree da destinare alla coltivazione di soia e cereali, con conseguenti impatti sull’ecosistema. Da aggiungere anche le implicazioni che “l’ascesa sociale” del maiale ha sulle dimensioni politiche ed economiche sia a livello statale che internazionale.
Allora una semplice domanda scaturisce da quanto sopra: perché liquidare il problema della deforestazione come conseguenza solo del comportamento dei consumatori cinesi e della finanza globale, quando ci sono aspetti politici, economici e sociali ben più importanti?
Considerando quanto invasivo sia l’agire dell’Omologazione, il dubbio che essa, per mezzo della finanza e della grande distribuzione, possa avere anche un fine politico oscuro, oltre a quello più immediato dell’arricchimento senza limiti, sembra avere qualche fondamento logico.
Soprattutto appare logica la riflessione che, prima di procedere con pianificazioni economiche su larga scala, sarebbe consigliabile studiare e valutare le conseguenze che ne deriverebbero in tutti gli ambiti di interesse umano ed ambientale, così come ne sono derivate dall’espansione della produzione e consumo del maiale.
Una riflessione a tutto tondo non tanto per bloccare l’evoluzione dei costumi, delle religioni, delle società o dello sviluppo economico, quanto piuttosto per evitare che, per perseguire determinati obiettivi, sia necessario accettare regimi totalitari mascherati da democrazia, una distruzione sistematica delle identità di interi popoli, la compressione degli ambiti religiosi, il depauperamento delle risorse naturali e l’alterazione dell’ecosistema, in poche parole il condizionamento dell’Uomo.
In ultima istanza, può rivelarsi necessaria un’istituzione sovrannazionale che funga da camera di compensazione di tutti gli interessi in gioco, in grado di coordinare la ricerca, la conoscenza e l’applicazione pratica di molteplici discipline, per evitare che gli Stati prima o poi si scontrino tra loro nel tentativo di difendere, conquistare o risolvere solo una parte del poliedrico obiettivo di convivere tutti insieme su questo nostro unico pianeta. Sarebbe opportuno lo sviluppo della Scienza del Sistema Umano, unica pratica teorica in grado (forse) di porre un freno a quella Omologazione che tutto livella e condiziona.
Angelo De Giuli
Note
(1) Coldiretti, 13 gennaio 2015, L’impero dei maiali, la suinicoltura in Cina. https://www.ilpuntocoldiretti.it/attualita/limpero-dei-maiali-la-suinicoltura-in-cina/
(2) Water and Food Security, L’impatto dell’evoluzione mondiale dei consumi alimentari: il caso della Cina. https://www.waterandfoodsecurity.org/scheda.php?id=114(3) Stefano Liberti, I signori del cibo. Edizioni Minimum Fax, 2016. Giornalista d’inchiesta, ha studiato per due anni l’impatto della finanza globale e della grande distribuzione sulla filiera di 4 prodotti, tra cui quella del maiale.