di Angelo De Giuli
Gli Stati hanno già ceduto sovranità alle forze congiunte di finanza, globalizzazione e consumismo: nell’ultimo articolo firmato su omeganews.info, http://www.omeganews.info/?p=4273, se ne è scritto diffusamente anche con il riferimento ad una situazione tuttora in divenire. L’insieme di poteri ed interessi, sintetizzato nel termine “omologazione”, mal si concilia con le istituzioni e la loro autonomia, essendo queste le uniche in grado di limitarla e mantenerla in una dimensione funzionale al bene comune.
Come analizzato in tutti gli articoli precedenti, con i quali abbiamo osservato diverse sfaccettature dell’Omologazione, il bene comune è un obiettivo da quest’ultima “pubblicizzato” a favore del consumatore, ma segretamente perseguito a vantaggio di una minoranza, di coloro che governano i mercati, e che sono indicati con vari nomi: élite, poteri forti, oligarchia, plutocrazia ed altri. Il rafforzamento del potere di questa élite si basa sulla sua capacità di eliminare gradualmente i due principali potenziali ostacoli: lo Stato e la Nazione. E’ questo l’argomento di approfondimento delle pagine che seguono.
Non deve trarre in inganno il fatto che le élite, ubicate anagraficamente nei territori dei vari Stati, siano da questi tutelate e, quindi, governate. E’ vero il contrario. E’ un abbaglio anche pensare che questa categoria di persone si identifichi con le nazioni di origine, in quanto le “esigenze operative” li inducono a spostarsi ovunque. Questa plutocrazia è una comunità che non presta alcuna attenzione alla nazionalità di provenienza dei suoi membri, ma ne considera solo il patrimonio e l’influenza politica.
Per approfondire l’analisi di dettaglio, ponendo alla base del ragionamento gli effetti dell’Omologazione, così come delineati negli scritti precedenti. Cavalcando l’onda delle aspettative dei popoli, l’Omologazione ha creato le condizioni sociali necessarie per il rafforzarsi sia della finanza speculativa, senza confini né autorità sovraordinate, sia della specializzazione produttiva per aree geografiche. La condizione perseguita è l’uniformità delle modalità di consumo, proprietà che consente ai mercati stessi di fondersi in unico mercato mondiale, il quale presenta in ogni angolo del globo gli stessi prodotti, le medesime dinamiche di domanda ed offerta, identiche segmentazioni dei consumatori (indipendentemente dai tratti salienti delle diverse società), analoghe tecniche di marketing.
L’uniformità del mercato, la normalizzazione dei comportamenti di consumo degli individui e le dinamiche delle componenti in esso operanti, da un lato alimentano la richiesta di volumi di beni e servizi sempre più grandi e sempre più standardizzati, e dall’altro generano livelli sempre più elevati di competizione tra società e sistemi economici – politici.
Un mercato globale che deve ottemperare alla soddisfazione dei crescenti bisogni dei consumatori i quali richiedono maggiori capacità di consumo ed esigono un incremento continuo del paniere di beni di cui usufruire. L’attività di consumo deve essere sempre più veloce, più accessibile e di facile soddisfazione, così come l’economia consumistica promette.
E quello che oggi è uno stile di vita, uno status symbol della persona di successo, o semplicemente un segno di esistenza in quanto partecipanti alla momentanea moda in cui la maggioranza si identifica e con la quale “classifica” gli individui, ebbene esso domani sarà un bisogno essenziale, irrinunciabile.
Se il cellulare non è un modello degli ultimi 12 mesi, già si creano delle insoddisfazioni: due fotocamere non garantiscono una qualità di immagine così soddisfacente come quella degli ultimi modelli. In realtà la differenza qualitativa sarà minima, ma il messaggio pubblicitario “assicura” esattamente il contrario. E’ così che, nel tempo, si crea una dipendenza psicologica dall’apparire alla moda. Un meccanismo comportamentale che il marketing conosce molto bene, perché lo ha studiato, creato ed implementato esso stesso.
Il marketing, strumento operativo di fondamentale importanza per l’Omologazione, assolve in modo perfetto il ruolo di comunicatore delle nuove tendenze e creatore di desideri, soprattutto quando un articolo ormai affermato sul mercato soddisfa a pieno le esigenze dei consumatori ed ha raggiunto lo stadio di “prodotto maturo”. Appena un prodotto diventa popolare, largamente diffuso e con grandi quantità vendute, iniziano gli sconti per esaurire le giacenze, mentre il marketing prepara il mercato alla novità del nuovo modello, esaltando le sue caratteristiche tecnologiche in modo tale da far sembrare il modello precedente obsoleto. vecchio. Il consumatore deve disaffezionarsi dall’oggetto che possiede in quel momento, deve quasi sentirsi a disagio e arretrato, perché quello nuovo sta creando l’irresistibile aspettativa. È il solito rituale con cui i consumatori sono serviti di nuove motivazioni per assolvere il compito di comprare in continuazione. È così che la religione consumistica rinsalda la fede dei suoi adepti, li assolve da ogni attività critica e riflessiva, li libera dai vincoli con le esperienze passate, proiettandoli verso il nuovo. Sicuramente al lettore non sfuggirà il fatto che questo atto di fede nella perenne novità stia accelerando sempre più, accorciando la vita dei beni e spingendo i consumatori a rinnovare la propria soddisfazione nel futuro prodotto con maggiore frequenza.
Essersi soffermati su questo meccanismo dell’economia moderna è utile per mettere a fuoco la potente azione disgregante dell’Omologazione.
Nel medio periodo il perenne sollecitare i desideri di consumo trasforma l’azione di acquisto dal “piacere di concedersi una comodità in più” in una “necessità irrinunciabile”, instillando in modo subdolo nella mente delle persone la convinzione che l’attuale livello di consumo di beni e servizi (di cui molti superflui) sono uno standard minimo di benessere. Nel medio periodo questo standard minimo di benessere si eleva al rango di diritto acquisito, sia per abitudine ad esso sia perché in generale è considerato simbolo di appartenenza alla società moderna. Ed i diritti acquisiti sono sacri, devono essere garantiti e soddisfatti per sempre.
Chi detiene il potere di governare la politica economica su un territorio, dunque lo Stato tramite le sue emanazioni istituzionali, sa bene quale sia l’aspettativa dei suoi cittadini: che sia garantito nell’immediato il rispetto dei “diritti acquisiti” e, nel medio periodo, aumentarne la portata. La politica e l’istituzione Stato hanno il dovere, l’obbligo di tutelare questo diritto al consumo; la classe politica sarà eletta e lo Stato sarà riconosciuto se i livelli di consumo saranno mantenuti almeno costanti nel tempo.
L’Omologazione ben conosce questa dinamica politica, così come sa che lo Stato è l’unico soggetto che può intervenire su questo meccanismo limitando le ambizioni sue e dei propri mandanti, i plutocrati.
Per essa lo Stato è quel sistema che deve essere sì condizionato, ma al contempo preservato, affinché soldi e potere fluiscano senza soluzione di continuità dalla popolazione verso il ristretto gruppo di “illuminati”, in un lento ma costante processo di svuotamento dei concetti di democrazia e solidarietà nazionale, nel rispetto di leggi e regolamenti emanati dallo Stato e da esso garantiti.
Ma come può l’Omologazione condurre al degrado valori quali la democrazia e la solidarietà nazionale tramite il condizionamento dello Stato, quando essi sono le fondamenta della legittimità dello Stato stesso?
Il sistema basato sulla libera concorrenza economica e la circolazione senza barriere dei capitali, a livello mondiale, presenta la seguente struttura: un mercato di prodotti e servizi che non ha più confini (grazie al Trattato di Marrakesh del 15 aprile 1994), affiancato da una rete di organizzazioni finanziarie (con disponibilità di capitali a volte superiori a quella di interi Stati) che spinge la produzione a specializzarsi in particolari aree geografiche del mondo, sostenuto e legittimato da popolazioni che sviluppano sempre crescenti aspettative di incremento dei livelli di consumo. Un sistema che fisicamente poggia sulla superficie terrestre, a sua volta suddivisa in porzioni di territorio corrispondenti a Stati ed a nazioni.
Dunque, il sistema sociale ed economico mondiale è idealmente ripartito in una griglia che, in corrispondenza di ogni Stato e nazione, delimita una porzione di mercato, di finanza, di produzione e di consumatori, ed ognuna si caratterizza per proprie e specifiche leggi, tradizioni, religioni, culture e sensibilità sociali a volte non in sintonia con le esigenze dell’Omologazione di massimizzazione dei profitti e di standardizzazione di culture, politiche e stili di vita.
E’ su questa complessa articolazione di interessi che si consumano le guerre, le rivolte, gli scontri di culture e religioni a cui assistiamo in numerose aree del globo. E’ il confronto tra i fattori racchiusi nei singoli riquadri della “griglia” e quelli delle altre porzioni (Stati) che genera le disuguaglianze da cui originano tensioni.
La spinta consumistica proveniente dal basso, dalla popolazione, esercita una pressione costante sui politici affinché lo Stato garantisca livelli di reddito sempre in crescita, capaci di garantire quei diritti acquisiti argomentati in apertura. Ma se le aspettative, le pressioni consumistiche sono le stesse ed omologate, gli Stati si differenziano per risorse e caratteristiche diverse. La politica ha a disposizione strumenti, risorse e poteri differenti da Stato a Stato, ma nello stesso tempo deve rispondere a sollecitazioni, aspettative e richieste identiche per ogni Stato. Diritti acquisiti, ossia livelli di consumo, che non sono mai stabili ma, per effetto di suadenti campagne di marketing (politico e culturale), guardano ad orizzonti sempre più ampi, e ciò vale per ogni Stato.
Ora, in questo scenario, quale sarebbe il politico che non prometta di raggiungere questi nuovi orizzonti? Qual è il partito che non si presti a sponsorizzare spazi sempre più ampi per questi diritti al consumo?
Nessuno. Il politico o il partito che si oppone a queste richieste può scordarsi lo scranno parlamentare!
Ma a chi lusinga gli elettori con promesse di più ampi diritti, di più soddisfacenti consumi, si oppone inesorabilmente la dura realtà: l’Omologazione non cede spazi a diritti di massa, a meno che ciò non si traduca in maggiori profitti e potere per l’élite.
Per fornire un riscontro a questa teoria nell’ordinario quotidiano che tutti noi sperimentiamo, riflettiamo per un momento su una conquista del moderno consumatore: l’apertura domenicale degli esercizi commerciali in Italia. Nel 2011 un decreto del governo di allora sancì la liberalizzazione totale dell’apertura al pubblico degli esercizi commerciali, senza alcuna distinzione tra le varie tipologie di esercenti. Di fatto si consentiva a qualsiasi punto vendita (negozio di prossimità, supermercato, centro commerciale eccetera) di commerciare 24 ore su 24 e rimanere aperto 7 giorni su sette. Le motivazioni da cui era ispirato questo provvedimento si riassumevano, in sostanza, in due necessità convergenti: da un lato quella di spingere i consumi con un ampliamento delle opportunità di acquisto (dunque un potenziamento dell’offerta), dall’altro quella di agevolare i consumatori consentendo loro di acquistare anche la domenica e nelle ore notturne (vale a dire, uno stimolo indiretto alla domanda perseguito con l’eliminazione del vincolo temporale alle opportunità di spesa). Il provvedimento fu propagandato come un importante passo avanti verso la modernizzazione del sistema commerciale, che avrebbe consentito un forte incremento dei consumi derivante dal fatto che i consumatori sarebbero stati agevolati dall’apertura dei negozi anche in giorni ed orari normalmente liberi da impegni lavorativi. Questo provvedimento fu accolto come una grande opportunità e comodità per tutte le categorie. Ma, come spesso avviene, la propaganda politica e il tripudio consumistico lasciarono nell’ombra il vero scopo e le conseguenze sociali di questa operazione, che si paleseranno spontaneamente qui di seguito.
Ad 8 anni da quel decreto il volume dei ricavi generati dal sistema commerciale nel suo complesso non ha registrato che marginali incrementi, mentre l’analisi in dettaglio delle vendite totali danno il senso dell’impatto sugli attori di settore. I negozi a conduzione familiare ed i piccoli punti vendita sono stati le principali vittime di questa rivoluzione. La grande distribuzione organizzata (GDO) ha avuto gioco facile nell’accrescere la concorrenza ai piccoli negozi, in quanto la forza finanziaria di questi gruppi consentì loro di finanziare agevolmente i costi aggiuntivi determinati dalla più lunga apertura (più personale, più costi di utenze ed altro).
Per il negozio, gestito di solito dal titolare ed i suoi familiari o pochissimi dipendenti, l’estensione del periodo di apertura comportava innanzitutto l’impossibilità di pareggiare gli orari della GDO a meno di gravarsi di costi aggiuntivi difficilmente sostenibili con l’incremento delle vendite. Il negozio di prossimità si è trovato dall’oggi al domani in una situazione di oggettivo svantaggio competitivo. In questi 8 anni infatti si è assistito ad una riduzione imponente del numero di negozi di prossimità, con conseguente perdita consistente di posti di lavoro. Nello stesso periodo, però, si sono moltiplicati i supermercati ed i centri commerciali: i quali non solo sono aumentati di numero, ma anche di dimensione.
Ormai è considerato normale che l’ultima apertura sia “la più grande della regione, d’Italia o addirittura d’Europa”: primato che è destinato a durare giusto il tempo dell’apertura successiva.
A questo fiorire di grandi centri segue la crescita occupazionale (o meglio, l’assorbimento degli espulsi dai piccoli negozi), “venduta” alla pubblica opinione come grande effetto positivo di questi enormi investimenti.
Vero, ogni nuovo insediamento porta diversi posti di lavoro diretti ed indiretti. Ma di quale tipo di lavoro si tratta? Con quali contratti si assume? A quali condizioni?
Se ne scrive pochissimo sui giornali e la politica preferisce non sfiorare l’argomento, ma i nuovi assunti spesso hanno contratti molto brevi (quello che fu il centro più grande d’Europa, vicino Milano, assume per periodi settimanali o poco più), con il nuovo contratto nazionale di settore che ha cancellato le maggiorazioni notturne e festive, prevede la facoltà per l’azienda di spostare i dipendenti da una sede all’altra senza indennità né limiti di sorta.
Non c’è timore alcuno di smentita nell’affermare che le condizioni contrattuali siano nettamente peggiorate. Ma anche a livello di condizioni di lavoro non mancano le novità: i turni notturni e festivi non possono certo dirsi una grande conquista in termini di qualità della vita, anche e soprattutto familiare, per questi lavoratori, considerando in aggiunta che spesso il numero di addetti in servizio in certi turni è estremamente ridotto ed insufficiente.
Il quadro generale dunque vede i piccoli negozi che si ritirano dal mercato, la GDO che conquista sempre più ampie quote di mercato, dipendenti della GDO in aumento, ma con condizioni economiche e lavorative peggiori rispetto a quelle del passato, spostamento dell’ambito concorrenziale da GDO verso i negozi di prossimità a GDO verso GDO. Ossia, concorrenza tra giganti finanziari, dove le economie di scala hanno innalzato delle barriere all’entrata di nuovi operatori sul mercato sempre più forti, tanto che in questi ultimi anni il settore della distribuzione organizzata è divenuto campo di caccia dei grandi fondi di investimento e di potentissime famiglie.
Sul versante della domanda si è registrato un cambiamento delle abitudini di consumo, con una maggiore concentrazione degli acquisti nel fine settimana a scapito dei volumi di spesa nei giorni infrasettimanali: sostanzialmente si è assistito ad una redistribuzione dello stesso volume di vendita o poco più su tutti i giorni della settimana.
Alla fine ne risulta che, se dal punto di vista economico l’effetto di questa liberalizzazione nel lungo periodo è stato marginale (aumentano sì le occasioni di acquisto ma i soldi da spendere sono sempre gli stessi), dal lato della domanda le nuove modalità di accesso ai prodotti hanno abituato i consumatori ad una maggiore libertà di azione, più adatta ai nuovi ritmi lavorativi e sociali (ad esempio, è più facile dedicare le serate feriali alla palestra sapendo che sabato e domenica si ha tutto il giorno per poter acquistare con calma).
Un’agevolazione per i consumatori che nel tempo si è trasformata e consolidata in un servizio irrinunciabile; ormai l’apertura di negozi e centri commerciali è scontata, normale, tanto che lo si può considerare un diritto acquisito del cittadino.
Un diritto dei consumatori ad accedere in ogni momento ed ovunque a prodotti e servizi, a cui corrisponde un diritto delle grandi imprese di commercio a poter vendere senza limiti di tempo.
Un diritto acquisito da così tante persone e da un blocco di interessi così forte a fronte dei quali il sacrificio dei diritti di coloro che, con il loro lavoro, li garantiscono è ignorato e considerato inevitabile.
Negli ultimi mesi del 2019 alcuni politici hanno ventilato l’idea di limitare (non eliminare!) le aperture festive, ma al solo pensarlo si sono levate le grida allarmate delle associazioni dei consumatori e della GDO: un chiaro messaggio alla politica, con tanto di stime riguardanti il calo del PIL e apocalittici numeri di licenziamenti.
Interessante dinamica sociale: ai milioni di consumatori (loro stessi lavoratori) nulla importa delle condizioni di tanti lavoratori sprofondati nel precariato, della riduzione dei loro diritti contrattuali e lavorativi, dei loro turni che spesso non consentono una normale vita familiare. La grande maggioranza dei consumatori non vuole rinunciare alla comodità di consumare in ogni istante, neanche se diverse migliaia di lavoratori (meglio: di persone!) devono piegarsi a condizioni di lavoro peggiorative sia della retribuzione che della qualità della vita.
E’ sempre il solito atteggiamento egoistico che, mascherato da ottimistico slancio verso la modernità, conferma l’assunto individualista di questo sistema economico in cui l’atomo – individuo persegue il suo personale interesse indipendentemente da quali siano le conseguenze per altri atomi – individui.
Ne risulta di fatto una divisione sociale, favorevole alla GDO, che contrappone il popolo dei consumatori, assuefatto agli agi della modernità, ad una relativamente piccola minoranza di lavoratori.
Le conseguenze finali della scelta politica di liberalizzare l’orario di apertura si possono leggere come la concessione di un vantaggio strategico alla GDO (quindi ai detentori di grandi capitali), a fronte della quale vi è la compressione dei diritti dei lavoratori e l’accettazione dell’estromissione dal mercato dei piccoli negozi, il tutto rappresentato all’opinione pubblica quale moderna conquista dei consumatori al diritto a consumare con maggiore comodità. Si valuta che la politica, in questo caso specifico, abbia ceduto il passo alle ragioni dell’Omologazione nel momento in cui ha accettato che la GDO imponesse la revisione dei contratti di lavoro in senso peggiorativo (a tal proposito non dobbiamo dimenticare la deprecabile pratica di ricorrere ai servizi esternalizzati alle cooperative, uno strumento legale a disposizione delle imprese per abbattere il costo del lavoro a livello di quello del terzo mondo). Di fatto i maggiori costi derivanti dal prolungamento delle aperture e dalla grande opportunità per i consumatori sono scaricati sui lavoratori mediante i risparmi diretti ed indiretti sul costo della forza lavoro, mentre i margini di profitto della GDO hanno mantenuto, se non aumentato, il loro livello, grazie anche all’incremento delle quote di mercato conquistate a danno dei piccoli imprenditori del settore.
L’Omologazione, agendo sull’illusione del consumatore di essere proiettato verso una società sempre più moderna ed al servizio della persona (del singolo individuo!), ha messo la politica in un angolo, in posizione subalterna agli interessi dei grandi capitali del settore. Sottolineo, il tutto con l’egoistica complicità e indifferenza della platea dei consumatori.
Di questi esempi è ricca la società contemporanea. Si pensi alla contrapposizione lavoro/ambiente, urbanizzazione/salute pubblica, sovraffollamento metropolitano/spopolamento rurale, sviluppo economico/equità sociale, anziani/giovani … e così si potrebbe continuare a lungo.
Viviamo una situazione che certamente non ha un’origine spontanea, ma si sviluppa da quella spinta consumistica che ha pian piano sostituito la condivisione del consumo (altrimenti detto: solidarietà) con la personalizzazione dello stesso, o meglio, con l’individualismo economico caratterizzato dall’attribuire un valore alla persona in funzione della sua capacità di consumare, del suo stile di vita, del suo status sociale … del suo essere funzionale al perpetuarsi del sistema omologatore attuale.
Siamo la generazione spettatrice (colpevolmente inerme e indifferente) del raggiungimento con pieno successo del secondo obiettivo dell’Omologazione: la frammentazione della nazione.
Nel mondo Occidentale la Storia ha portato gli Stati ad identificarsi con una nazione, ossia con una popolazione stanziale in un territorio ben definito, che condivideva i tratti fondamentali del senso di appartenenza ad una comunità: lingua, storia, tradizioni, religione, cultura, origini etniche, valori etici, principi giuridici, tutti questi generalmente riconosciuti ed accettati dalla stragrande maggioranza dei componenti la comunità. Queste popolazioni, queste nazioni, hanno dato risposta al loro bisogno di riconoscersi in un corpo unico con l’organizzazione degli Stati, ciascuno definito proprio sulla base dei tratti fondamentali e caratteristici di ciascuna di esse, così che ancora ai giorni nostri vi sono differenti forme di governo, carte costituzionali diverse, organizzazioni amministrative con logiche di rappresentanza e poteri di varie forme e mai uguali.
Alla base dell’esistenza di ogni nazione vi era la promozione sociale di ogni individuo ad essa appartenente, la mediazione della politica tra le varie classi sociali affinché gli interessi di una fossero condivisi e trasformati nell’interesse di tutta la nazione. La Politica nazionale, ad esempio, assecondava le ambizioni di arricchimento e sviluppo degli imprenditori imponendo loro delle linee guida al fine di trasferire parte dei vantaggi da essi conseguiti a tutto il territorio e, quindi, all’intera popolazione. Erano i tempi in cui la Politica aveva il potere di contemperare le esigenze dei consumatori con i diritti dei lavoratori e gli interessi del commercio.
Ma la Politica, quella nobile con la P maiuscola, già da qualche decennio è stata surclassata dalle ragioni dell’economia, e di questo abbiamo scritto diffusamente negli articoli precedenti. E proprio la perdita del primato della politica, l’affermarsi di visioni a corto raggio dello sviluppo sociale offuscate e condizionate dagli indicatori macroeconomici, l’espandersi delle dorate aspettative propagandate dall’Omologazione, hanno sminuito il senso dei valori fondanti della Nazione, causandone la frammentazione e il conseguente smarrimento del suo motivo di esistere.
Il diritto ormai acquisito di vivere secondo livelli di consumo in costante crescita, livelli che la cittadinanza ormai si aspetta siano solamente in crescita e per i quali non è più concepibile una contrazione, determina la spasmodica competizione tra individui, tra classi sociali, tra nazioni e Stati per accaparrarsi un sempre maggiore potere di acquisto con cui soddisfare i sempre più ampi “bisogni” indicati dalla fede consumistica. Una competizione sociale che spezzetta la nazione in gruppi, definiti solo da interessi particolari, spesso in contrapposizione tra loro ed ai quali la politica, proprio per le dinamiche fin qui esposte, non offre più un ambiente di mediazione.
Al contrario, questa dinamica sociale tendente alla divisione determina la nascita di formazioni politiche mono-idea che hanno come obiettivo il perseguimento degli interessi di poche categorie o gruppi di elettori, movimenti avulsi da ideologie e visioni della società nel lungo periodo e nella sua interezza: vale solo la rivendicazione economica ed il vantaggio del proprio gruppo di elettori.
Siamo di fronte ad un processo di liquefazione del senso di appartenenza ad una nazione. Una società disgregata e convinta di una sempre più rapida crescita del benessere rappresenta un ottimo humus dove l’Omologazione può coltivare, crescere e consolidare la supremazia dei plutocrati che la governano. La rincorsa consumistica a cui sono votate le varie categorie sociali, determina una competizione nell’accaparrarsi le risorse per incrementare consumi e status sociale talmente forte da impedire che il sistema politico sia espressione di una idea strategica, di un insieme di valori generali che possano rappresentare l’interesse comune della nazione, e ciò proprio perché il senso di nazione è venuto meno. Di fatto, l’indebolimento della politica riduce la possibilità per lo Stato di regolare l’azione dell’Omologazione e di indirizzarla verso obiettivi di sviluppo dell’intera popolazione.
La politica, perdendo la sua funzione di sintesi e mediazione tra interessi contrapposti, contribuisce all’insorgere nell’animo dei cittadini di una sensazione di isolamento, di un sentimento di sfiducia verso le istituzioni e quelle forze politiche che traggono ispirazione da valori ed ideologie riferite alla società nel suo complesso, alimentando negli stessi l’idea che la politica sia utile ed accettabile solo in funzione del proprio interesse particolare.
In questo contesto le armi dell’Omologazione (le specializzazioni produttive, il consumismo, la finanza speculativa, il conformismo culturale e comportamentale) sono perfette ed efficientissime nel demolire le unità nazionali e modificare i comportamenti e l’atteggiamento degli individui verso la propria comunità e le sue priorità.
Si è già visto nei precedenti articoli su <omeganews.info> come la finanza internazionale polarizzi gli investimenti su determinati territori dando luogo alle specializzazioni produttive, con conseguente trasformazione di interi settori economici da rilevanti a strategici. In relazione a quanto analizzato nelle pagine precedenti, e con riferimento alle specializzazioni produttive, va ora aggiunto un particolare di estremo rilievo per il prosieguo del presente ragionamento. Quei settori, ed il loro indotto, che diventano i “campioni” di una economia catalizzano risorse e impiegano lavoratori in proporzioni tali da creare blocchi di interesse sociali e politici in grado di condizionare le decisioni di un governo. La grandezza e l’importanza occupazionale di questi settori, che spesso sono dominati da gruppi multinazionali, acquistano sovente rilevanza strategica nella struttura economica di uno Stato ed esprimono una potente élite economico-finanziaria, gli interessi della quale diventano primari rispetto a quelli di tutti gli altri settori economici. Una posizione di potere che può, e quasi sempre ci riesce, estorcere condizioni di favore a carico delle finanze e dei controlli dello Stato.
Non è un mistero che le finanze statali (di quasi tutti gli Stati) siano in gravi difficoltà, e non è difficile immaginare lo scontro sociale che si crea là dove i settori più forti riescano ad influenzare a loro favore la destinazione delle risorse pubbliche, a discapito di settori “secondari” e delle parti più deboli della popolazione.
Uno scontro che si può riassumere nel confronto tra chi può accedere al consumo superfluo e chi no, con una frontiera del consumo necessario sempre in espansione; un confronto tra chi ha capacità economica in crescita e chi in ribasso.
Il consumismo, motore dell’attuale modello economico e del consenso politico, agisce a livello globale e premia lo Stato che più consuma, o meglio, quelle aree geografiche che racchiudono il più elevato livello di capacità di spesa e la maggior propensione al consumo. Le aree meno sviluppate, le popolazioni con scarsa capacità di spesa o i consumatori “imperfetti” (quelli che acquistano con senso critico, non cedono alla tentazione del superfluo e non si lasciano trainare dalle mode, si riconoscono nelle tradizioni e nell’etica dell’economia) sono relegati ai margini del sistema economico, mal tollerati ed ancor meno politicamente rappresentati. E più accelera la spinta consumistica, più aumenta questa polarizzazione sociale.
In Occidente, in Cina, in Russia e Giappone, queste tendenze sono ormai parte del pensiero dominante e comunemente accettate: l’Omologazione, in questo caso politica e culturale, ha ridimensionato l’importanza dei grandi ideali di mutuo soccorso e di solidarietà concreta tra le persone, esaltando invece il valore del successo personale, del consumo inutile quale espressione di status sociale, dell’opportunismo quale strumento lecito e moralmente accettabile per conquistare il diritto di accesso a livelli superiori di consumo. Su queste metamorfosi sociali la Sociologia ha prodotto innumerevoli analisi e modelli comportamentali, ai quali rimandiamo il lettore interessato ad approfondire le relative tematiche. Ciò che rileva ai fini di codesto argomentare è il distacco che si è venuto a creare tra l’aspettativa di ciascun individuo, la sua percezione di “diritto alla felicità”, ed il senso di appartenenza ad una comunità nazionale nel quale è condivisa l’idea di porre l’interesse generale della propria nazione al di sopra degli interessi parziali di singoli o gruppi o categorie. Si è imposta una forma di deresponsabilizzazione dei cittadini verso la res publica e la vita della nazione, trasformatisi questi in atomi in balia delle forze polarizzatrici di interessi atomistici.
L’ampiezza di questo distacco dell’individuo rispetto alla sua nazione è evidente a tutti, e lo si può constatare nel modello di rappresentanza politica che si è creato in questi ultimi trent’anni. I partiti politici fondati su ideologie, che sì ponevano l’accento sugli interessi e diritti di una particolare classe sociale ma li inquadravano in una visione unitaria nazionale, sono stati progressivamente soppiantati da movimenti e nuove formazioni che giustificano la loro esistenza con la rappresentanza delle pretese di singoli gruppi sociali.
Le sirene dell’Omologazione e gli abbagli del consumismo facilmente hanno grande seguito in un simile impianto sociale e politico!
La selezione sociale basata sul “valore economico” dell’individuo e sull’intensità della sua partecipazione al sistema consumistico, la perentoria propaganda per cui “il nuovo è meglio a prescindere” e ciò che valeva due anni fa è “comunque vecchio a prescindere” (teorema applicato ad ogni aspetto della vita), la fede acritica nelle logiche di mercato, tutto insieme ha modificato la scala dei valori etici, morali e religiosi che per lunghi decenni hanno regolato le relazioni tra le persone, tra le persone e le istituzioni, tra classi sociali e politica. Si è creata la situazione in cui ciò che veramente guida i comportamenti, in generale, è la personale convenienza “a prescindere”: l’imperativo è guadagnare qualcosa indipendentemente da qualsiasi conseguenza per gli altri.
D’altronde l’insegnamento filosofico dell’Omologazione è proprio questo: non limitarti, cogli ogni occasione, qualunque essa sia, per godere a pieno della vita. Liberati da condizionamenti, tradizioni e altri vecchi modi di pensare: il futuro è domani ed oggi è già il passato.
Assistiamo da un trentennio ormai alla continua propaganda della necessità di riforme di ogni tipo, sempre accompagnata dai perenni ritornelli di “rendere libero qualcuno da qualcosa” e “modernizzare qualcosa perché esso è frutto delle logiche del passato”. Non c’è più un attimo di normalità, tanto che si susseguono senza sosta i messaggi politici, pubblicitari, economici che perentoriamente colpiscono l’animo delle persone con “basta con questa regola antiquata”, “è ora di liberarsi da questo e da quello”, … e così via: c’è sempre qualcosa da buttare, da “rottamare”, si diceva non più di tre anni fa (e chi lo diceva allora, oggi dopo tre anni è stato rottamato a sua volta!); è costantemente il tempo di una rivoluzione contro qualcosa o qualcuno.
Il venir meno del senso nazionale ha facilitato il propagarsi di questi messaggi e l’unico collante capace di aggregare le persone è il sentimento di contrapposizione ad ogni istituzione, regola o tradizione che minacci lo status sociale, il potere di acquisto, la capacità di consumo della specifica categoria. La nuova priorità è procurarsi il denaro, fare carriera, poter accedere ad ogni tipo di prodotto o servizio ovunque essi siano e comunque siano prodotti, godere liberamente delle opportunità offerte dal progresso, pretendere che tutto ciò sia possibile in misura sempre crescente.
L’Omologazione agisce costantemente su questa priorità, alimentandone la necessità e l’urgenza, spacciandola come la naturale ed unica destinazione dell’esistenza, la cui negazione o privazione genera frustrazione negli individui.
L’Omologazione, in ultima analisi, ha creato il diritto al consumo senza potenziali limiti, né in quantità né nelle modalità di esercizio; un diritto dato per scontato, consolidato, appunto acquisito, da parte dei singoli individui e che lo ritengono essenzialmente ad personam. Si è venuto a creare un insieme di diritti del singolo, modulati per categorie di consumatori definite dal reddito disponibile, i quali, proprio perché non caratterizzati da validità universale, ma percepiti come diritti personali di ordine superiore a quelli altrui, creano le contrapposizioni di cui si è accennato in precedenza, causa principale del dissolvimento del senso di appartenenza ad una comunità nazionale.
Da questa frammentazione della compagine nazionale non possono che scaturire rivendicazioni particolari, di singole categorie, talmente specifiche da condizionare le modalità di espressione della rappresentanza politica, là dove l’ideologia e la visione di sviluppo e governo della società lascia il posto all’istanza dell’interesse di una minoranza della società. La politica così espressa sarà, come in realtà è, fortemente segmentata in numerosi partiti e movimenti, ciascuno votato a perseguire un limitato e specifico interesse, nessuno dei quali con progetti di ampio respiro e coinvolgente la società nel suo complesso, bensì caratterizzati da programmi ed azioni di breve periodo, contingenti e disorganici, funzionali al compiacere il proprio elettorato anche se in contrasto con l’interesse nazionale di lungo periodo.
È la vittoria dell’Omologazione! La politica, così asservita alle logiche del mercato ed alla garanzia dei diritti al consumo acquisiti, non ha più la forza di indicare una strategia di sviluppo universale e diviene semplicemente l’esecutore di ciò che è pianificato dalla plutocrazia e promulgato dal sistema omologatore. Nel mondo Occidentale si è scatenata, da un paio di decenni, la concorrenza tra Stati nel garantire i più elevati livelli di consumo possibile ricorrendo ad aggressive strategie fiscali, finalizzate ad attirare sul proprio territorio aziende, lavoratori qualificati, pensionati ad alto potenziale di spesa, capitali ed investimenti. Gli Stati competono tra loro per attrarre le persone economicamente più interessanti per garantire il miglior funzionamento possibile del proprio sistema economico, del proprio mercato, andando a sottrarle ad altri Stati.
Le dinamiche dell’Omologazione stanno trasformando anche il significato di Stato, non più inteso quale organizzazione istituzionale e politica di una nazione di liberi cittadini, quanto, piuttosto, amministratore di un mercato che soddisfi i desiderata di imprese e consumatori. Gli Stati sono sempre meno espressione di nazioni ricche di tradizioni, lingue, culture, storia, valori condivisi specifici di un dato territorio, e sempre più caratterizzati da sistemi fiscali, mercati finanziari, livello di consumo ed investimento, produttività del lavoro, specializzazioni varie. Lo spirito economico ha avuto il sopravvento sull’identità, sull’anima dei popoli … E’ così che i cittadini degli Stati Occidentali, nell’ossequiare il nuovo valore prioritario (il successo economico personale), iniziano a considerarsi più cittadini di quello Stato (qualsiasi esso sia) che garantisce lo sviluppo del consumo individuale piuttosto che individui appartenenti alla nazione di origine. Se lo Stato non tiene il passo degli Stati concorrenti, i cittadini tenderanno a cambiare Stato di residenza, o perlomeno a pretendere che il proprio Stato imiti i concorrenti. Cultura, tradizioni, affetti sono valori esistenziali che stanno cedendo il passo ai dogmi economici. Nell’animo degli Occidentali l’identità nazionale si sta trasformando in quella di “cittadino del mondo”, la patria non è più il luogo natio ma è il mondo (ovviamente, cittadini solo delle aree dove più conviene …).
Un individuo che non si identifica più con una nazione, quindi non ha legami particolari di lingua, tradizioni, cultura specifiche, ma è proiettato verso indistinti confini sulla base della forza attrattiva di determinate organizzazioni sociali più consone alla sua aspettativa di società, di stile di vita. Come detto poco sopra, un atomo attratto dalla forza polarizzante maggiore.
Un fenomeno sociale le cui conseguenze già furono magistralmente descritte da un gigante della cultura italiana, Giacomo Leopardi, che nello Zibaldone così si esprimeva: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”.
Lo sbriciolamento del sentimento nazionale porterà l’individuo a perdere contezza di sé quale soggetto di diritti e doveri nell’ambito dell’organizzazione statale della sua nazione, ritrovandosi come un atomo errante e consumista che, senza radici e con l’illusione si essere libero di navigare negli spazi senza confini del mondo, vagherà nelle immense distese del mercato globale, in balia di forze economiche incontrollate.
In scala mondiale, quello che era la popolazione definita in una nazione tenderà a disgregarsi in una forma individualistica indistinta, divenendo un insieme di soggetti senza legami tra loro se non lo stesso principio guida di massimizzazione del reddito e del consumo.
Stiamo assistendo alla costituzione di masse individualizzate, non più definibili nazioni, caratterizzate da maggiore passività, indifferenza sociale e inattività politica, incoscientemente prone ai voleri dei plutocrati dell’Omologazione.
Esattamente la situazione finale perseguita dai timonieri dell’Omologazione: i plutocrati apolidi e sovranazionali!
Uno scenario che sollecita una serie ulteriore di domande.
Il cittadino del mondo occidentale, seguace acritico della fede consumistica, ormai assuefatto ed indifferente alla nuova identità di cittadino del mondo, come si confronterà con il mondo musulmano ed il continente africano, i quali ancora nutrono un forte senso di appartenenza a nazioni con forti tradizioni identitarie e saldi principii sociali e religiosi?
Questa società liquida, che valorizza in funzione della ricchezza, quali effetti produrrà sul processo di sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo? Un Occidente così dedicato al consumo quali risorse lascerà a disposizione dei Paesi in Via di Sviluppo?
In un quesito generale: quale reazione dovremo aspettarci dal resto del mondo, quando la bramosia di risorse dell’Occidente lo porterà alla nuova colonizzazione (già peraltro in atto) dell’Africa e di altri Paesi economicamente più deboli?
La specializzazione produttiva opererà con maggiore forza sulle aree più deboli del pianeta, rendendole semplicemente “aree al servizio dei Paesi avanzati”: ma questo sarà oggetto di uno scritto dedicato.
Angelo De Giuli