di Franca Di Mauro
Ricordo bene quella mattina di marzo, quando, a svegliarmi, non sono stati i rumori quotidiani dell’aereo delle 7, o del camioncino della nettezza urbana che pulisce le strade, né delle campane della chiesa che chiamano ogni giorno alla prima Messa. A svegliarmi è stato il silenzio, un silenzio assoluto, un po’ come quello che produce una forte nevicata, ma più irreale, rotto soltanto da un cinguettio frenetico di uccelli. Era il primo giorno di lockdown.
Incredula, mi sono sentita subito ingabbiata, non più padrona dei miei movimenti; possibile che il nostro mondo ipertecnologico potesse essere tenuto in scacco da un piccolo virus capace di toglierci la libertà e persino la vita? Dopo i primi giorni di disorientamento, quella immobilità che mi circondava, mi è parsa quasi benefica e, per tanti versi, apprezzabile.
Non era una scena fantascientifica, era la realtà e dovevamo abituarci.
Ho pensato che dovevo sfruttare il tempo, volgendolo al positivo, impossessarmene di nuovo e organizzarlo nel migliore dei modi. Ho ripreso in mano libri dimenticati, facendo pace con Manzoni e i Promessi Sposi, accantonati dai tempi del liceo in un angolino remoto della memoria e scoprendone la modernità. Ho rovistato nei cassetti, riesumato fotografie e scritti colmi di passato e di ricordi. Ho creato un piccolo giardino sul balcone, ho cucinato rispolverando vecchie ricette di famiglia, ho condiviso con mio marito ogni momento della giornata, felici e grati di poterlo fare. Poi ho pensato, ho pensato alla fragilità umana, a quanto tutto sia provvisorio e possa cambiare nel giro di pochi istanti. Ho pensato ai tanti momenti belli trascorsi senza apprezzarne del tutto il valore. Ho avuto paura che questo virus potesse colpire anche me, o, peggio ancora, qualcuno dei miei cari.
La vista tristissima dei convogli militari in fila con quell’inconsueto e doloroso carico di morti, mi ha portato col pensiero a tutte le persone che se ne erano andate, e continuavano ad andarsene, da sole, senza il conforto di un abbraccio o di una carezza. Poveri loro, e poveri i loro familiari cui spesso non era concesso neppure il tempo di un saluto.
In qualità di anziana volontaria presso un hospice, sono stata sempre ben cosciente della nostra mortalità, della ineluttabile finitezza della vita, ma anche di un accompagnamento sereno. Forse per questo ho pensato ai nostri pazienti con meno tristezza, sapendo che almeno loro non erano completamente soli, che erano accuditi da persone conosciute e sensibili e che, pur saltuariamente, avevano la possibilità d’incontrare i familiari.Oggi non siamo più in lockdown. Tutto, apparentemente, è tornato alla normalità anche se il pericolo non è scongiurato. La cosa di cui sono certa è che qualcosa è cambiato dentro di me, come penso in tutti noi.
Franca Di Mauro
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