Vuoto politico e globalizzazione Europea, la sentenza Mediaset.

di Angelo De Giuli

Il 9 settembre la Corte di Giustizia Europea ha emesso una sentenza che apre ad una nuova era per il mondo delle telecomunicazioni e del multimediale italiani. Con il pronunciamento riferito alla disputa Vivendi – Mediaset [1], la Corte di Giustizia Europea ha anche sentenziato l’incompatibilità della Legge Gasparri promulgata nel 2005, la quale regola gli assetti proprietari negli ambiti delle Telecomunicazioni e dei mass media, e pone in capo ad uno stesso soggetto economico dei limiti a partecipazioni in imprese dell’uno e dell’altro settore, al fine di evitare concentrazioni proprietarie in grado di condizionare l’informazione e l’offerta culturale nazionale, garantendo la pluralità sia di accesso al mercato che di contenuti proposti al pubblico. Alla nota [1] si possono visionare i dettagli e la storia di questa sentenza.

La Corte di Lussemburgo, intervenendo su una lite societaria e finanziaria, mette in discussione anche una legge italiana riferita ad un settore strategico italiano di primaria importanza, emessa per le specifiche condizioni del mercato italiano che tale intervento aveva richiesto come risposta ad una precisa esigenza di democrazia da parte del popolo italiano, consentendo agli operatori economici (anche stranieri) di superare questa legislazione particolare anteponendovi la regolamentazione europea. Il principio giuridico a base di questo pronunciamento sta nella libera scelta delle imprese di stabilirsi in qualsiasi parte dell’Unione Europea ed in regime di libera concorrenza su tutto il territorio, nel rispetto dei limiti posti ad argine di posizioni di mercato dominanti. Ed il mercato rispetto al quale si parametrizzano tali limiti è quello europeo, non nazionale.

Se in un’ottica prettamente giuridica è chiara la logica del verdetto, sotto il profilo politico e di sovranità nazionale ne scaturisce una situazione molto delicata.

Una situazione delicata per almeno tre aspetti riguardanti l’ambito economico e la sua pianificazione strategica, quello politico nazionale e la sua reale capacità di guidare lo sviluppo strutturale del Paese e quello sovrannazionale europeo, per il quale si palesa una chiara lacuna istituzionale in termini di coordinamento di politiche di ampio respiro continentale.

L’obiettivo generale di sviluppare e rafforzare le infrastrutture tecnologiche a supporto dei servizi in modalità digitale è stato condiviso a livello europeo e fatto proprio dai singoli Stati, tra i quali l’Italia. Ma tra definire l’obiettivo e realizzarlo si interpone la esistente realtà economica e strutturale, dove operatori economici con capacità tecnologiche e strutture finanziarie diverse competono secondo norme e regolamenti che variano da Stato a Stato.

L’Italia si è posta come obiettivo primario quello di dotarsi di una unica rete fisica di trasmissione dei dati, con l’intento di portare i servizi digitali in ogni angolo del suo territorio, dall’ultimo borgo in cima alle Alpi di confine allo scoglio più a sud dello Stivale, sforzo finalizzato ad eliminare lo svantaggio competitivo di molte aree periferiche o scarsamente popolate.

Attualmente la rete italiana è costituita dall’insieme di reti private (TIM, Fastweb, Vodafone, Wind, Eolo ed altre minori), le quali, proprio per la loro natura privata, non hanno convenienza economica ad investire anche nelle aree a minore densità abitativa. Una situazione strutturale che non è più funzionale alle esigenze di una economia che sarà sempre più basata sui servizi digitali. Soprattutto non risponde pienamente all’interesse generale del Paese: l’eliminazione di divari tecnologici e, quindi, di possibilità di sviluppo.

In questo contesto prende forma la scelta politica di gestire lo sviluppo di tecnologie e di rete fisica tramite un unico soggetto economico nel rispetto del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici (TUSMAR), ossia mantenendo separati i fornitori dei servizi di voce, dati e contenuti dai proprietari delle infrastrutture tecniche. Il progetto governativo prevede che il proprietario dello “scheletro e della nervatura tecnologica” debba essere unico e controllato dalla mano pubblica tramite la Cassa Depositi e Prestiti, deputata essa ad esprimere il Presidente e le massime cariche operative degli organi di governo dell’impresa prescelta. La motivazione di tale decisione risiede nel fatto che la proprietà della rete conferisce il potere di “scegliere” chi ha diritto e chi no ad accedere al mezzo di trasmissione dei dati (intendendo sia la telefonia sia i contenuti) e dove e come archiviare le informazioni: e lo Stato italiano ha ritenuto di avocare a sé questo potere al fine di garantire sia il libero accesso alla rete sia, e soprattutto, la tutela della democraticità delle comunicazioni nel loro complesso, lasciando completamente libero ai privati il mercato dei contenuti.

Prescindendo da ogni considerazione pro o contro l’approccio scelto, è certo che entrambi gli aspetti sono fondamentali per uno sviluppo indipendente di tutto il Paese, sia economico che democratico. 

In effetti l’attuale tecnologia informatica, ma ancor di più i suoi sviluppi futuri, è la spina dorsale lungo la quale si dispiega ogni attività della nazione: le transazioni ed informazioni finanziarie, gli acquisti ed i pagamenti, l’informazione e l’intrattenimento, i dati economici e fiscali, lo smart working e la formazione, tutto ormai scorre attraverso i cavi, i server ed i database della rete informatica. Ed i software moderni, grazie alle tecnologie dell’Intelligenza Artificiale, hanno la potenza più che sufficiente ad elaborare, analizzare, profilare gli utenti ed alterare le informazioni, e molto altro ancora, semplicemente attingendo dalle nostre attività sui dispositivi informatici.

Dunque è chiaro che l’impostazione e lo sviluppo dell’economia digitale deve andare di pari passo con la tutela della democratica convivenza, e quest’ultima è appunto il compito fondante dello Stato italiano.

Il soggetto incaricato di realizzare l’intero progetto e poi gestirne il funzionamento è Tim SpA, in partnership con Cassa Depositi e Prestiti. Le operazioni societarie e finanziarie per costituire i “veicoli” legali ed operativi all’uopo preposti sono ad uno stadio molto avanzato, così come già sono stati impiegati ingenti investimenti. Per chi desiderasse approfondire quanto già fatto e predisposto in merito si rimanda ad un articolo di stampa alla nota [2].

La sentenza della Corte di Giustizia Europea in discussione interviene proprio sul principio giuridico di base del TUSMAR e fondamento della strategia italiana per lo sviluppo della rete su cui si costruirà il Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC) allorquando, dichiarata contraria ai principi europei la regolamentazione italiana di settore, ammette il pieno possesso e la completa disponibilità da parte di Vivendi delle partecipazioni sia in Mediaset (presso la quale è il secondo azionista con il 28,8% del capitale sociale) sia in Tim (dove risulta essere il primo azionista con il 23,9% del capitale sociale). Il valore approssimativo di questi pacchetti azionari sono di tutto rispetto: in data 11/09/2020 le quotazioni di Borsa della partecipazione in Tim SpA le attribuiscono un importo di 1,380 milardi di Euro (2,025 a bilancio 2019), mentre quella in Mediaset vale 630 milioni di Euro (905 milioni a bilancio 2019).

La sentenza della Corte Europea, però, definisce solo i rapporti societari, il valore dei quali vale ben più dei circa 2 miliardi di Euro indicati nel bilancio di Vivendi (un numero che peraltro varia in funzione delle oscillazioni di Borsa): il valore effettivo consiste nelle opportunità, per la società francese, di entrare nel ricco mercato italiano sia dei servizi multimediali (da intendersi: soldi da pubblicità e diritti televisivi) sia delle Telecomunicazioni (si intenda: soldi da traffico voce, dati e dalla gestione delle infrastrutture), e, soprattutto, di sedersi sulle poltrone di comando delle sue società leader.

Se la sentenza annacquerà le limitazioni alla convergenza proprietaria tra i settori Telecomunicazione e Multimedia, come allo stato attuale essa agisce, Vivendi avrà a disposizione diversi strumenti strategici per influire sugli indirizzi di sviluppo economico e tecnologico dell’Italia.

Per meglio rappresentare le potenziali conseguenze di questo stato di fatto post sentenza, possiamo immaginare di paragonare la rete unica nazionale delle telecomunicazioni ad una proprietà unica della rete dei centri commerciali italiani, ed i servizi multimediali ai prodotti offerti a scaffale alla grande maggioranza dei consumatori.

Vivendi, azionista di riferimento di Tim (Telecomunicazioni = centro commerciale), potrà influire sulle specifiche tecnologiche della infrastruttura fisica (materiali e spazi dell’edificio, gli scaffali, l’illuminazione e le pertinenze del centro commerciale), e soprattutto avrà una grande influenza nel decidere cosa mettere sugli scaffali dei suoi punti vendita, guidando la selezione dei fornitori. E non si tratta di offrire cioccolatini piuttosto che caramelle: si sta parlando di agevolare o contrastare l’accesso al pubblico di fornitori di servizi di informazione ed opinione, di cultura ed intrattenimento, di pubblicità, di servizi alle imprese ed alle persone, comunicazioni di pubblica utilità e sanitarie, di transazioni economiche, bancarie e finanziarie. Insomma, su quegli scaffali c’è la vita di una intera nazione. E le modalità tecniche, i tempi e la qualità di accesso influiscono su di essa.

Ancora per avvicinare il discorso alla nostra esperienza quotidiana, il risultato pratico sarebbe come se, recandoci in un centro commerciale francese per fare la spesa, vi trovassimo i tre quinti di prodotti francesi, un quinto di origine UE, un quinto di prodotti italiani. E di questi ultimi due quinti, il proprietario del centro commerciale può decidere, così come già è nella realtà, un prezzo più alto rispetto al prodotto francese, oppure escluderlo dalle promozioni od ancora influire sulla qualità degli stessi per spingere i consumatori a preferire il latte d’oltralpe. Apparentemente tanta scelta per il consumatore, ma pur sempre una scelta condizionata dagli interessi del proprietario del centro commerciale.

Dunque il pronunciamento della Corte Europea non ha solo definito una controversia del valore di due o tre miliardi di Euro, essa inciderà sui futuri sviluppi tecnologici ed economici dell’Italia, almeno in termini di tecnologie e tempi di realizzazione. Proprio in questi giorni le autorità competenti italiane stanno valutando con quali modalità “calare” questa decisione giudiziaria di ordine superiore nel contesto normativo nazionale, e quali i suoi effetti conseguenti.

Ma una cosa è certa: il piano strategico per lo sviluppo digitale dell’Italia dovrà fare i conti con un nuovo soggetto, questa volta senza la possibilità da parte dello Stato di averne l’esclusivo controllo, il quale potrebbe rispondere ad interessi di soggetti o entità oltre confine.

Che la partita ora passi dal campo dell’economia a quello della politica internazionale è quasi certo e, data l’importanza dei settori in palio, assolutamente comprensibile.

Ciò che rimane indefinito nelle incerte ombre della foresta giuridico regolamentare è il significato di Unione Europea.

A prescindere dalla risposta normativa italiana e dai tecnicismi giuridico economici e finanziari che si svilupperanno nei prossimi mesi, rimane un significativo fatto sul tavolo della riflessione: da un intervento di un tribunale per risolvere una disputa societaria (sia ben chiaro, intervento che utilizza gli strumenti giuridici che la Politica europea ha fornito!) deriva la messa in discussione del progetto (politico!) di sviluppo di una nazione.

In termini più generali, non rilevando a tal fine lo Stato coinvolto, nella nostra Unione Europea i rapporti finanziari tra multinazionali hanno un grado di rilevanza superiore sia alle politiche economiche nazionali sia alle regole democratiche che ogni Paese, legittimamente, ritaglia sulla propria realtà nazionale. In questa situazione non rileva il nome e l’origine della multinazionale (sono pur sempre due società nate e residenti in UE), ma è singolare che non vi sia una cabina di regia politica a livello di Unione Europea che leghi l’operato di una multinazionale europea ad interessi strategici europei. Perché alle condizioni di oggi, nessuno può garantire che Vivendi non operi prevalentemente in funzione di interessi francesi.

E il significato di “interessi dell’area di influenza francese” non è lo stesso che Italiani ed Europei tutti attribuiscono ad “interessi dell’area politica, economica e democratica dell’entità Unione Europea”.

Un’altra dimostrazione della prevalenza della Finanza internazionale rispetto alla Politica (nazionale o internazionale che sia), della globalizzazione rispetto alle nazioni.

Angelo De Giuli

[1] https://www.startmag.it/economia/che-cosa-cambia-per-vivendi-e-mediaset-dopo-la-tosta-sentenza-ue/

[2] https://www.lastampa.it/economia/2020/08/26/news/le-incognite-della-rete-unica-di-telecomunicazioni-tra-nazionalizzazione-e-controllo-di-tim-1.39233173