Recensione di Alberto Osti Guerrazzi
Un libro di storie; storie di persone e di isole, di mare e di città, battaglie e commerci; storie di quel Levante, di quel Vicino Oriente tanto a noi vicino quanto poco conosciuto.
Storie con un polo attorno cui tutte ruotano, Venezia, la città costruita sull’acqua, che per secoli fu il ponte che metteva in comunicazione l’Occidente con l’Oriente; di quest’ultimo, per ovvi motivi geografici, primo veniva il Vicino Oriente, il Levante; e poi il resto, come quel Medio Oriente che i Veneziani incontrarono già islamizzato e dove trovarono, oltre alle loro fortune commerciali, il loro Santo Patrono, quel San Marco evangelista che diede il suo nome alla Repubblica Serenissima.
É un difetto dei nostri programmi scolastici, in parte corretto negli ultimi anni, quello di trattare la Storia incentrandola massicciamente sull’Italia e l’Europa occidentale, in pratica Francia, Germania, Spagna, Inghilterra. Difetto per cui, alle medie come al liceo, si studiano a fondo il Medioevo francese (il feudalesimo, vassalli, valvassori e valvassini, ecc.) e la Guerra dei cent’anni; giustamente, in quanto eventi relativi a Paesi nostri vicini, Paesi assieme ai quali abbiamo plasmato la nostra società e la nostra cultura. Su altri Paesi o regioni, altrettanto vicini e quasi altrettanto importanti, si passa invece a volo d’uccello; regioni come i Balcani o storie come quella dell’Impero Ottomano, il cui ruolo di avversario (oggi si direbbe di competitor) nel forgiare la nostra cultura fu quasi altrettanto importante di quello della Francia.
Ciò fa si che tra persone mediamente istruite si sappia abbastanza di sovrani quali Carlo V o Enrico VIII, mentre di Solimano il Magnifico non si sa quasi mai indicare altro che, di massima, il periodo in cui visse; e tutt’al più si associa il suo nome a immagini di harem e di edifici esotici. In pochi, credo, parlando degli Ottomani, saprebbero dire qualcosa della battaglia di Lepanto, molti meno ne saprebbero la data; come pochissimi saprebbero quella, ancora più importante, del 1453.
Ci torna spesso, Barbara Marengo, su queste due date, come su altre, date di episodi decisivi nella millenaria e tormentata storia delle relazioni tra l’Europa Occidentale e il Levante. Storie dove si scopre, o si riscopre, di come una ragazzina veneziana portata schiava ad Istanbul, divenne prima la favorita e poi la madre dell’erede del Sultano. O delle vicissitudini di un ragazzino calabrese di Le Castella che, anche lui rapito dai pirati ottomani, divenne uno dei comandanti della flotta ottomana. Una storia dove, nel raccontare la vita di quest’ammiraglio, l’episodio dell’incontro tra il figlio, ormai comandante ottomano, e la madre, ancora viva nel villaggio calabrese dove lei lo aveva messo al mondo, vede l’anziana donna tutt’altro che commossa dal reincontrare il figlio; che anzi lo riconosce quale traditore e rinnegato, e lo scaccia scagliandogli contro tutti gli oggetti che si trova sottomano.
Non è, il libro della Marengo, un saggio storico, non c’è quindi una nota a piè pagina che ci indichi la fonte da cui l’episodio è tratto; potrebbe benissimo essere un fatto del tutto inventato. Nell’economia del libro, e per quello che penso sia l’obiettivo che l’autrice si è data, ciò non ha la minima importanza; la scena del figliol prodigo scacciato in malo modo da quella madre, cui così spesso nei lunghi anni della prigionia e poi della vita militare lui aveva rivolto pensieri commossi e sempre con il desiderio di rivederla, quest’episodio di storia personale da concretezza al racconto più generale della vita dell’ammiraglio Uluc Alì; concretezza in quella profonda ferita che nell’animo di tanti, da una parte e dall’altra, creava l’essere stati rapiti e cresciuti, come concubina o giannizzero o altro, al servizio del Paese contro cui il proprio Paese natale combatteva una guerra infinita.
Credo che qui sia il pregio maggiore del libro di Barbara Marengo (un altro è la scrittura, sempre scorrevole e viva), nel porre i racconti spesso su due piani narrativi, quello della Grande Storia, di Lepanto come della caduta di Candia, e quello personale, quasi intimo; in ciò mostrando come i due piani inevitabilmente si intersechino, nel senso che la vita di Uluc Ali e di sua madre furono plasmati dagli anni di scontro tra il mondo ottomano/islamico e quello europeo/cristiano. Ma la storia alla fine è fatta dai singoli individui, che la costruiscono con le loro azioni e idee; forse, se sua madre l’avesse accolto benevolmente, Uluc Ali sarebbe potuto tornare nel grembo di Santa Madre Chiesa, e la presa di Tunisi non ci sarebbe mai stata; con tutta la catena di conseguenze a quest’atto mancato. Barbara Marengo ci racconta tante di queste storie, in un affresco necessariamente incompleto, ma che proprio per la sua incompletezza, e per la vividezza dalla narrazione, invitano il lettore curioso ad approfondire una storia affascinante, quella del Levante, ingiustamente poco nota.
Alberto Osti Guerrazzi
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