Nascita di una Nazione e Agonia di un Popolo: Israele e i Palestinesi.

di Guido Monno

Il 14 maggio 1948 lo stato d’Israele cominciò la sua esistenza, con un immediato riconoscimento da parte di USA e URSS.
Ma con la nascita dello stato il cui simbolo è la stella di Davide, un altro popolo cominciava il suo lungo calvario, quello palestinese.
La guerra del 1948, quelle del 1956 e del 1966, sono state tutte dure prove per questo popolo i cui destini si sono tragicamente incrociati con quelli di Israele sullo sfondo di interessi mondiali. Il numero esatto dei profughi del 1948 e quelli del 1966 non saranno mai accertati. Si discute e ci si accanisce sulle cifre, senza considerare che dietro quei numeri vi sono esseri umani cui vanno riconosciuti dei diritti ormai accettati quali fondamenti della nostra società.
Il conflitto fra palestinesi e israeliani trova la sua origine nelle modalità decisionali del mondo occidentale, che, ancora una volta, riteneva suo diritto disporre liberamente di società che considerava inferiori e come tali da dover essere guidate dalla funzione civilizzatrice dell’uomo bianco.
Anche all’interno del sionismo si levarono voci che avvertivano come la terra su cui si era deciso di costruire una nuova realtà chiamata Israele non fosse un deserto, ma era già abitata da una maggioranza di persone che non erano di religione e cultura ebraica; voci che furono presto zittite.

D’altronde per rendere reali i sogni, spesso si distrugge qualcosa, senza guardare alle conseguenze.

Israele nacque con il supporto dell’intero mondo occidentale, frutto di quella tradizione giudaico cristiana di cui tanto si parla ora e di cui erano fieri sostenitori numerosi dei decisori politici dell’epoca.
L’accordo Sykes- Picot [1], la dichiarazione Balfour [2] e il supporto di Lloyd George all’idea di una nazione che esprimesse la continuità e il legame fra la tradizione giudaico cristiana e la missione civilizzatrice dell’Occidente in terre arabe, sono ormai storia nota. Poco noto invece, in occidente, è il rapporto di simpatia e supporto che legava Leev Jabotinky, autore dell’articolo profetico “The Iron Wall”[3], personaggio carismatico e pragmatico del sionismo, all’ideologia fascista, tanto da far indossare ai suoi reparti paramilitari le camicie brune e da far addestrare i suoi reparti nell’Italia mussoliniana.
Questo solo per dire che il movimento sionista, nelle sue varie anime, non nasce tanto come movimento religioso ma come movimento con obiettivi politici, tanto da essere contrastato al suo sorgere da gran parte della classe rabbinica.

Purtroppo quel movimento sionista prevedeva la cacciata di chi non fosse ebreo da quella terra che doveva essere la nuova terra promessa. In termini di realpolitik, questo è concepibile, in termini di diritti umani e di autodeterminazione un po’ meno.
L’eradicazione di qualsiasi elemento potesse collegare la terra conquistata militarmente nel 1948 ai vecchi abitanti è stata la caratteristica che ha portato alla distruzione completa di villaggi, toponomi, siti legati alla cultura preesistente, sostituiti completamente da una nuova società[4].
E’ la realpolitik senza cui non si costituisce un sogno ma che porta con sè morte, distruzione, profughi e conseguenze per il futuro. Il legame storico mitologico con gli antichi regni di Israele ha costituito il collante su cui costruire un mito fondante della nuova società. Le indubbie capacita di governi che hanno impresso forte sviluppo alla società israeliana è un fatto, così come lo è l’enorme contributo in termini economici dato dall’Occidente per mantenere una posizione privilegiata in un’area strategica in quanto a risorse. E ben lo aveva compreso ben Gurion allorquando scelse come partner protettivo gli Stati Uniti d’America e la Germania come partner commerciale, abbandonando le vecchie potenze imperiali Gran Bretagna e Francia dopo i fatti di Suez del 1956 che portarono al tramonto di queste due nazioni quali potenze coloniali e che comunque contribuirono allo sviluppo del progetto nucleare israeliano[5].

Ma, detto questo, è il popolo palestinese che costituisce la tela di fondo di quest’affresco. Per lungo tempo popolo senza terra, condannato a una misera esistenza nei campi profughi senza che se ne riconoscessero ragioni e diritti, nonostante numerose risoluzioni prese dalle UN.
I diritti di questo popolo si sono sempre scontrati con due realtà: da una parte l’essere la parte debole di un complesso gioco geopolitico dall’altra il confrontarsi con governi corrotti e dittatoriali del mondo arabo e islamico che ne sfruttavano il dramma senza minimamente aiutarli; ne sono ultimo esempio gli incidenti avvenuti recentemente nell’anniversario della fondazione dello stato d’Israele. Numerosi palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane dopo aver cercato di oltrepassare il confine fra Siria e Israele, normalmente ipermilitarizzato e sotto strettissimo controllo da parte siriana. Elemento che dimostra come da parte del governo siriano si siano sfruttate la rabbia, la frustrazione e l’anelito di libertà e giustizia dei palestinesi per distogliere l’attenzione mondiale dai fatti interni.

I palestinesi per farsi sentire hanno dovuto alzare la voce in maniera drammatica ricorrendo al terrorismo, riuscendo sì a catalizzare gradualmente l’attenzione generale, ma rendendosi invisi alle società occidentali.
E continuando la loro misera esistenza nei campi profughi la visibilità così ottenuta è costata innumerevoli perdite, danni e sacrifici. Ma hanno detto “NOI esistiamo, NOI siamo qui ”, nonostante le famose parole di Golda Meyr sulla non esistenza di un popolo palestinese[6].
Oggi, dopo tanti anni dalla loro tremenda diaspora, non riescono ancora a ottenere diritti elementari, perché sono ormai circondati da un’aura di terrorismo e non sono considerati affidabili dalla società occidentale che non vi ritrova il suo stesso modo di vita che è quello che invece Israele propone. E soprattutto non hanno sponsor politici, in quanto hanno ben poco da offrire.
Eppure la loro è una causa comune per l’intero mondo islamico, forse non per i governi, ma per le popolazioni e dovrebbe esserlo anche per il mondo intero in quanto la loro tragedia e gli abusi cui sono sottoposti potrebbero un giorno toccare a chiunque.
Il loro resistere nel continuare a chiedere diritti che non vengono riconosciuti da chi detiene il potere decisionale, al di là di risoluzioni che rimangono sterili e senza conseguenze perché imprigionate dalla situazione geopolitica mondiale, ne fa tutto sommato dei rompiscatole.

Abbiamo assistito a una disumana operazione quale quella denominata “Piombo Fuso” a Gaza, a una continua ed aperta  violazione del diritto internazionale riguardante la libertà di movimento, a detenzioni arbitrarie, alla distruzione di abitazioni per rappresaglia, alla oppressione e punizione collettiva di una popolazione che ha fatto una scelta attraverso libere elezioni che non concordavano con le scelte che altri volevano imporre, a omicidi così detti mirati, all’operazione che ha bloccato la “Freedom flottilla”.
Per quanto riguarda quest’ultima, qualche onorevole italiano, al di là delle proprie convinzioni politiche, dovrebbe forse leggere sia quanto stabilito dalla convenzione dei Diritti del Mare di Montego Bay – di cui è firmataria anche l’Italia- sia l’accordo tra l’OLP ed Israele sulla creazione di una Maritime Activity Zone  lungo la costa della Striscia di Gaza, ma sopratutto il rapporto delle United Nation-Human Rights Council A/HRC/15/21 del 27 settembre 2010.
Le conclusioni di questo rapporto, che ritenevano Israele colpevole di numerose violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, furono approvate con 30 voti a favore, uno contro e 15 astenuti; e non è che quando le risoluzioni delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani ci fanno comodo, si invocano e si applicano immediati interventi militari e quando no, vengono semplicemente ignorati.
Infatti si continua a ignorare che gran parte di quella che dovrebbe essere la terra in cui vivono i palestinesi è di fatto sotto controllo militare israeliano, nel senso di essere considerato territorio occupato, nonostante la famosa risoluzione 242[7] delle UN che data ormai dal 1967, senza che mai le sia stata data applicazione. Un sentito comune in Israele ritiene non condivisibile il concetto di territorio occupato usato dalle Nazioni Unite, reputando trattarsi di territori occupati solo quelli in seguito a una guerra offensiva e non difensiva; essendo state le varie guerre d’Israele di natura puramente difensiva, non si tratta di territori occupati [8].
Si continua a ignorare la realtà di Bantustan, come la chiamava il compianto Edward Said, che di fatto impedisce l’unità territoriale di quella che dovrebbe essere la Palestina.

Si continuano a ignorare le evidenti volute [9] [10] disuguaglianze nel campo delle risorse idriche, tese a soddisfare le esigenze di un’occupazione, qual è quella dei coloni israeliani, palesemente illegale ma che tende a un’occupazione di fatto che, protratta nel tempo, esaurisca l’imposizione presente nelle risoluzioni 242 e seguenti delle Nazioni Unite, compiacente la nostra ignavia sull’argomento.

La Palestina ha un diritto, sancito da accordi internazionali e dal diritto delle genti, a esistere, come stato sovrano espressione dei suoi cittadini, e senza restrizioni di sorta; così come Israele ha diritto alla sua esistenza, ma entro un territorio ben delimitato e conosciuto, riconoscendo i diritti degli altri, come gli altri devono riconoscere i suoi. E fra questi diritti vi sono anche quelli dei profughi del 1948, del 1956 e del 1966. Israele deve fare i conti, una volta per tutte, con il motivo stesso della sua esistenza: quella di essere la Terra degli Ebrei e per gli Ebrei. Qualsiasi minaccia, vera o presunta, a questo ideale viene vista come una sfida per la sopravvivenza dello stato da vincere a ogni costo e quindi trattato con metodi militari. In questa chiave va letto il perché della ferma opposizione dei governi israeliani, nel tempo, al rientro dei profughi, rientro che altererebbe le proporzioni demografiche dello stato per cui la maggioranza ebraica correrebbe il serio rischio di non essere più tale.
E altresì fare i conti con una visione in cui storia e misticismo, realtà e leggenda, si fondono, creando miti che, sfruttati ad arte da classi politiche preda di questi stessi miti, continuano in una politica suicida per la sicurezza dell’intera società civile mondiale.
E in questo dobbiamo riconoscere la grandezza di quanti in Israele, nonostante un forte ostracismo e ostacoli posti  da parte delle autorità civili e militari, non si uniformano ai concetti imperanti di superiorità, ruolo di potenza egemone e gendarme della regione, concetti supportati da idee che spesso vanno al di là al di là del normale sentimento ed orgoglio nazionale e che hanno continuato e continuano a minare la stabilità dell’intero Medio Oriente.
E fra questi ricordo il giornale-coscienza di Israele, Haaretz, cui il New Yorker ha dedicato un interessantissimo articolo[11] con cui dimostra la difficoltà a esistere come voce in un periodo decisamente difficile per chi non segue le idee comuni, propugnate da governi che hanno ignorato gli aneliti di libertà delle popolazioni arabe per sostenere i dittatori al potere in nome di una presunta maggiore sicurezza per Israele, associazioni quali B’Tselem [12] e individui quali Ury Avnery, Amira Hass Gideon Levy e David Grossman.

Il presidente Barack Obama ha compreso che tale palese violazione dei diritti di un intero popolo non poteva continuare a essere ignorata anche per il suo impatto sul mondo islamico, per cui rappresenta un problema di primaria importanza.
Nell’ultimo discorso tenuto sull’argomento[13], che sembra aver creato tanto disappunto nel primo ministro israeliano, ha voluto dare un chiaro segnale che tale stato di fatto non è più sostenibile, anche se leggendo il discorso con attenzione si comprende come gli Stati uniti continueranno comunque a sostenere Israele.

Ma l’importante, in politica internazionale, è mandare segnali, sperando che siano seguiti da fatti concreti.

Ben ha fatto il presidente Obama a ricordare non solo il padre israeliano, il cui figlio è stato ucciso da Hamas, che ha fondato una organizzazione per riunire sotto un ombrello comune Israeliani e Palestinesi, ma anche la figura del dottor Izzeldin Abuelaish, che ha raccontato nel suo struggente libro “Non odierò”, la sua tragica vicenda personale in cui ben tre suoi figli sono stati uccisi come “danni collaterali” nell’operazione “Piombo Fuso” e che numerosi colleghi israeliani apprezzano ed hanno apprezzato per la sua umanità, il suo desiderio di raggiungere la pace attraverso un sentito comune e l’abbraccio della non violenza: valga fra tutte l’introduzione al libro che riporta un’intervista del professor Marek Glezerman vicedirettore del Rabin Medical Center in Israele.
Certo è che la proporzione fra perdite israeliane e palestinesi di così detti danni collaterali o vittime delle attività dell’una o dell’altra parte, fa pendere decisamente la bilancia, e molto in negativo,verso i palestinesi.[14]
Questo dato avrebbe contribuito a meglio equilibrare il discorso.

Per ultimo, vorrei ricordareVittorio Arrigoni, il volontario italiano morto a Gaza nell’adempimento del dovere, che dovrebbe essere un sentito comune, di aiutare chi ne ha bisogno; e i palestinesi e gli abitanti di Gaza ne hanno un disperato bisogno.
A lui, come a tanti altri che dedicano la loro esistenza ad aiutare gli altri, i derelitti, i poveri, gli oppressi, i diseredati, dovrebbe andare il nostro più sentito ringraziamento.
Con la speranza che la morte di Vittorio Arrigoni non passi inosservata e che sia fatta piena luce su un episodio perlomeno oscuro, al di là dei semplici esecutori materiali del fatto. Mi riferisco a quanto scritto dallo stesso Arrigoni del suo libro “Restiamo Umani”, allorquando parla delle minacce fisiche pervenutegli da un sito di estrema destra statunitense[15], sito che, purtroppo, nel momento in cui scrivo, nell’articolo intitolato  ”Outing the ISM: these are the creeps who do human shield work for Hamas and arab terrorists” plaude alla morte di Vittorio Arrigoni ponendolo sullo stesso piano di Osama bin  Laden.

Salam-Shalom
due saluti dalla stessa radice comune; Pace. Ma che sia giusta, dignitosa e onorevole per tutti


[1] http://avalon.law.yale.edu/20th_century/sykes.asp

[2] http://www.mfa.gov.il/MFA/Peace Process/Guide to the Peace Process/The Balfour Declaratio

[3] http://www.marxists.de/middleast/ironwall/ironwall.htm

[4] Ricordo al riguardo il libro “All That Remains” di Walid Khalidi edito dall’Institute for Palestine Studies di Washington D.C.

[5] http://www.au.af.mil/au/awc/awcgate/cpc-pubs/farr.htm

[6] http://www.globalfire.tv/nj/03en/jews/pal_norightreturn.htm

[7] http://domino.un.org/unispal.NSF/796f8bc05ec4f30885256cef0073cf3a/7d35e1f729df491c85256ee700686136

[8] http://www.jewishvirtuallibrary.org/jsource/UN/meaning_of_242.html

[9] http://www.fromoccupiedpalestine.org/node/613

[10] http://www.btselem.org/english/water/shared_sources.asp

[11] http://www.newyorker.com/reporting/2011/02/28/110228fa_fact_remnick

[12] http://www.btselem.org/English/

[13] http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2011/05/19/remarks-president-middle-east-and-north-africa

[14] http://www.btselem.org/english/press_releases/20100614.asp

[15] http://www.stoptheism.com/