di Elisa Bertacin
Negli ultimi anni, ed in special modo, negli ultimi mesi, si è sentito parlare quasi quotidianamente di “guerra”: guerre per l’indipendenza, guerre per l’autodeterminazione, guerre contro regimi secolari, guerre contro il terrorismo, guerre religiose, guerre per le risorse energetiche, guerre informatiche e guerre commerciali. Pochi sono consapevoli che, in molti casi, stati, popoli e nazioni combattono per la risorsa naturale principale: l’acqua, di vitale importanza. Attualmente si contano nel mondo circa 300 “idroconflitti” (potenziali o reali), la cui pericolosità viene spesso sottovalutata. Non bisogna, infatti, trascurare che questa tipologia di guerra è particolarmente preoccupante, data l’assenza di vincoli politici, sociali ed ideologici.
L’acqua potrebbe trasformarsi da oggetto della contesa a strumento “diplomatico” della stessa. Insomma, paradossalmente, cause e soluzioni di un conflitto potrebbero fondersi in un tutt’uno. Infatti, se da un lato la crescente pressione antropica fa sentire sempre più il peso della “scarsità idrica”, dall’altro, un’equa (o perlomeno mutualmente concordata) amministrazione della risorsa potrebbe gettare ponti diplomatici e di dialogo pacifico tra gli Stati coinvolti.
La zona più a rischio è quella della fascia nordafricana-mediorientale: si ricorderà che tra i fattori di esasperazione del contrasto tra israeliani e palestinesi ci sono anche le problematiche relative ad un uso iniquo delle risorse idriche della regione; gravi e pesanti scontri si sono verificati tra Turchia, Siria ed Iraq per la gestione del Tigri e dell’Eufrate; lungo lo stesso bacino del Nilo si è sviluppato un conflitto, inasprito, come spesso succede, dalla costruzione di dighe e sbarramenti per imbrigliare la potenza delle acque (nel caso specifico, la Diga di Assuan). Ci si soffermerà, nel prosieguo, su quest’ultimo caso.
Come si può vedere nella mappa, l’intero bacino idrografico del secondo fiume più lungo del mondo (6.671 km) coinvolge ben dieci Stati: Burundi (dove si trovano le sorgenti), Ruanda, Tanzania, Kenya, Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Eritrea, Sudan ed Egitto. Esclusi Kenya ed Egitto, tutti gli altri Paesi, otto, sono tra i 50 Stati più poveri al mondo, con un elevatissimo tasso di rischio e vulnerabilità delle rispettive popolazioni a fenomeni quali fame, carestie e malattie. Circa 300 milioni di persone vivono all’interno del bacino del Nilo e, di questi, ben 160 milioni devono la loro sopravvivenza fisica al grande fiume. Se si calcola che nei prossimi 25 anni ci si attende un raddoppio della popolazione nella Regione, ne consegue un aumento esponenziale dell’impatto umano sulla risorsa, impatto esacerbato anche da una proporzionale crescita delle necessità industriali ed agricole delle popolazioni stesse.
Oltre a questi fattori di natura (e causa) antropologica, è necessario aggiungere la problematica della desertificazione, che colpisce sempre più profondamente il delta del Nilo: la cresciuta pressione sulla risorsa a monte, sommata all’aumento dei depositi di limo e detriti, nonché l’erosione del delta e l’aumento della salinità per via delle correnti mediterranee, sono tutti fattori che spiegano molto chiaramente la crescente preoccupazione mostrata soprattutto dall’Egitto.
In epoca moderna, i primi tentativi di gestione del conflitto del Nilo risalgono al XX secolo, quando gli Inglesi, al fine di preservare e migliorare l’afflusso del fiume, firmarono dapprima un accordo con l’Etiopia (1902)[1] e, in seguito, “sponsorizzarono” il “Nile Water Agreement” (1929), in base al quale l’Egitto acquisiva il diritto di veto su ogni opera strutturale che potesse influire sul flusso del fiume, garantendo al Paese dei Faraoni l’accesso a 55,5 miliardi di m3 annui (su un totale al tempo stimato di 84 miliardi di m3).
L’Egitto di Nasser aveva già pianificato una grande opera strutturale per tutelare il proprio afflusso idrico: la diga di Assuan, che avrebbe assicurato le capacità necessarie per la produzione di energia idroelettrica. La costruzione della diga avrebbe significato l’inondazione delle terre del nord del Sudan (per un totale di 6.500 km2 e lo sfollamento di più di 90.000 persone), per via del bacino di sfogo della diga stessa (oggi conosciuto come Lago Nasser).
Questi elementi condussero i due Paesi a siglare un accordo, nel 1959, sul “pieno utilizzo delle acque del Nilo”. Secondo il trattato, il Sudan veniva compensato del danno tramite un aumento dei m3 annui utilizzabili, dai 4 miliardi stabiliti nel 1929 a 18,5 miliardi, più la possibilità di intraprendere una serie di progetti di sviluppo, quali la diga di Rosieres ed il Canale Jonglei.
Come si può notare, si tratta di un atto bilaterale che non si sogna di coinvolgere gli altri Paesi del bacino del fiume, prima fra tutti l’Etiopia, sul cui territorio scorre l’86% dell’intera portata del corso d’acqua, di cui utilizza solo una minima parte (circa l’1%). Ciononostante, ad oggi, questo accordo datato 1959 resta l’atto più completo e comprensivo che sia mai stato firmato con riferimento alla critica gestione e condivisione delle acque del Nilo.
Nel 1979, il Presidente egiziano Anwar Sadat, dopo aver siglato l’accordo di pace israelo-egiziano, affermò: “The only matter that could take Egypt to war again is water”. Attualmente, questa prospettiva potrebbe apparire quasi remota e forse addirittura impensabile che possa scoppiare una guerra per l’acqua. Oggigiorno, se accendiamo la tv o se apriamo un giornale, vediamo notizie che si susseguono su rivolte per la democrazia, per la libertà, per i diritti dell’uomo. E qui viene, a parere di chi scrive, l’assurdo: sono dovuti passare millenni prima che l’acqua, nonostante l’essenzialità, venisse riconosciuta tra i diritti fondamentali dell’uomo. È successo solamente l’anno scorso, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 64/292, riconoscendo per la prima volta nella storia del diritto internazionale the human right to water and sanitation: “Recognizes the right to safe and clean drinking water and sanitation as a human right that is essential for the full enjoyment of the life and all human rights”:
(http://www.un.org/en/ga/64/resolutions.shtml).
Non si vogliono qui creare surreali allarmismi di fanta-geopolitica, ma semplicemente dare voce ad una questione troppo spesso lasciata da parte e catalogata come “non rilevante” e affidata allo studio e alla mente dei soli cultori ed esperti della materia. Si consideri però che, a livello generale, è altamente probabile che scoppi un conflitto lungo il bacino di un fiume quando la Nazione alla foce è militarmente più forte rispetto alla Nazione alla sorgente dello stesso e quando la prima ritiene che i propri interessi di sviluppo connessi con la risorsa idrica in questione siano minacciati dalle azioni della controparte a monte. Esattamente la situazione del Nilo, dove l’Egitto, lo Stato a valle, nonché maggiore potenza militare della regione, è, come abbiamo visto, da sempre preoccupato per la gestione, a proprio vantaggio, delle potenzialità idriche del grande fiume. Tre sono gli elementi che più preoccupano Il Cairo: lo sfruttamento, da parte dei Paesi a monte (Ruanda, Burundi, Kenya e Tanzania) delle risorse dei grandi fiumi equatoriali; l’aumentata percentuale di sfruttamento del Sudan, i cui programmi di crescita (al momento rallentati dalla situazione interna) prevedono la costruzione di un sistema di sbarramenti e dighe (la principale è quella di Merowe), che andranno a gravare sul lago di Nasser (fino a minacciarne il prosciugamento entro due anni dal funzionamento a pieno regime), aggravando ulteriormente la situazione; i progetti di dighe medio-piccole da parte dell’Etiopia.
Ma, come abbiamo detto, l’acqua può diventare strumento diplomatico di risoluzione dei conflitti tra gli Stati ripari, e il caso del Nilo è esemplare: la Commissione tecnica congiunta permanente per le acque del Nilo, creata a seguito dell’Accordo tra Sudan ed Egitto del 1959, è un buon esempio di cooperazione e di impegno congiunto per la gestione della risorsa comune. Tale Commissione ha compiti di coordinamento in ambito ingegneristico (misurazioni e monitoraggio tecnico, ricerche per aumentare la portata e migliorare la capacità di risposta alle esigenze future), anche se molto bisogna fare ancora, per dare un maggiore carattere multidisciplinare al progetto.
Finora la cooperazione si è concretizzata a livello giuridico solo bilateralmente, tuttavia non sono mancate iniziative multilaterali, soprattutto negli ultimi trent’anni. Nel 1998, riconoscendo l’utilità reciproca nel cooperare per la fruizione e gestione delle risorse del bacino del Nilo, nove dei dieci Paesi rivieraschi (esclusa l’Eritrea) hanno intavolato discussioni per dare vita ad un’associazione regionale, al fine di collaborare per intraprendere attività comuni di sviluppo sostenibile. Tale iniziativa si è concretizzata con la nascita, nel febbraio 1999 a Dar es Salaam (in Tanzania), della cosiddetta Nile Basin Initiative (NBI), promossa dal Consiglio dei Ministri delle questioni idriche degli Stati del bacino del Nilo, ed il cui scopo è “to achieve sustainable socio-economic development through the equitable utilization of, and benefit from, the common Nile Basin water resources” (www.nilebasin.org). La NBI è stata pertanto l’elemento catalizzatore per la ricerca di maggiore collaborazione multilaterale, possibilmente all’interno di una cornice giuridica internazionale o quantomeno regionale.
C’è ancora molto da fare: il coinvolgimento e la sensibilizzazione necessari a livello popolare non sono ancora evidenti. Inoltre, ci si trova oggi, 2011, di fronte ad una situazione di stallo, in cui da una parte si ricerca e si nota una certa volontà a collaborare e, dall’altra, si sono consolidati privilegi e peculiarità storiche, difficili da rettificare dopo tanto tempo.
Il 14 maggio 2010 è stata aperta la procedura di firma e ratifica del “Nile Cooperative Framework Agreement” (NCFA), ad Entebbe, in Uganda, accordo allo studio già dal 1997, ma sempre bloccato nella sua approvazione da Egitto e Sudan, soprattutto per quanto riguarda l’articolo relativo alla “water security”. Etiopia, Ruanda, Uganda, Tanzania e Kenya, nonostante le critiche sollevate dai due Paesi, hanno siglato questo accordo, il cui scopo, secondo l’art. 1, è “applies to the use, development, protection, conservation and management of the Nile River Basin and its resources and establishes an institutional mechanism for cooperation among the Nile Basin States”. Il 28 febbraio 2011, anche il Burundi ha siglato tale Accordo quadro.
Il processo avrebbe dovuto concludersi il 13 maggio 2011, ma, oltre all’Egitto e al Sudan, manca ancora la decisione della Repubblica Democratica del Congo. Ad oggi, la situazione resta pertanto ancora confusa ma, soprattutto, irrisolta: di certo, il CFA dovrà essere emendato per essere accettato, o quantomeno valutato, dai due storici “possessori” del fiume, dal momento che non fa alcuna menzione, e dunque non garantisce, il loro ormai consolidato diritto di veto ai progetti strutturali a monte, che possono influire sulla portata e sull’afflusso a valle. Le reazioni dell’Egitto sono forse quelle da tenere più sotto osservazione, dal momento che esse oscillano dalle minacce di ricorrere a tutte le misure giuridiche, diplomatiche ed anche militari possibili – minacce rivolte in particolar modo all’Etiopia, tanto che Il Cairo ha sottoscritto un’alleanza con l’Eritrea, nemico storico di Addis Abeba – alla disponibilità a dialogare per emendare e rendere dunque accettabile l’Accordo quadro.
È bene dunque essere consapevoli dell’esistenza di simili punti di conflitto, così attuali e così vicini a noi, di cui però non si parla. Se ne parlerà, forse, quando la situazione precipiterà irreparabilmente, ma ci si augura di no: finora, come abbiamo visto, l’acqua, oggetto della contesa, ha comunque spinto le Parti coinvolte a cercare accordi di cooperazione. Tutti sono consapevoli della vitale importanza dell’acqua, e di tutte le problematiche che la stanno rendendo sempre più scarsa e contesa. L’auspicio è che, ora che questa risorsa è stata riconosciuta tra i diritti fondamentali dell’uomo, l’attenzione e la sensibilità internazionali aumentino e che vengano intraprese misure adatte a tutelare questo bene e a garantire tale diritto a tutti, esorcizzando l’incubo degli “idroconflitti”.
[1] Art. III dell’Accordo: “His Imperial Majesty Menelik II, King of Kings of Ethiopia, agrees that he will not give permission to anyone to construct structures across the Black Nile, Lake Tsana, and the Sobat River that would completely block the passage of waters to the White Nile without securing a prior agreement with the Government of England”.
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