di Elisa Bertacin
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“Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità: fargli la guerra, isolarsi dietro ad un muro o stabilire un dialogo” [L’altro, Ryszard Kapuściński].
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Con la caduta del muro più noto della storia pensavamo di non dover più vedere barriere simili, non solo ideologiche, politiche, ma anche fisiche e tangibili, sul suolo europeo. Mai più ghettizzazione, chiusura verso l’altro, separazione forzata. Benvenuto dialogo, benvenuta integrazione!
Sono passati quasi ventidue anni da quando il Muro di Berlino cominciò ad essere picconato, e ben mezzo secolo esatto dalla sua costruzione, nell’agosto 1961. Ebbene, dopo mezzo secolo di condanne per quel simbolo della vergogna, ci ritroviamo ancora oggi di fronte ad opere simili, in tutto il mondo: il muro tra Israele ed il confine con la Cisgiordania è forse il più noto, dopo Der Mauer, ma pensiamo anche a quello che segna la frontiera tra gli Stati Uniti ed il Messico, o le barriere spinate tra India e Bangladesh ed India e Pakistan, o in Africa, tra il Botswana e lo Zimbabwe, o il caso già discusso nel primo Convegno di OMeGA del muro costruito dal Marocco nel Sahara Occidentale per prevenire potenziali incursioni o attacchi da parte del Fronte Polisario. Da questi esempi sembrerebbe comunque che l’Europa abbia imparato la lezione del passato e abbia scelto la terza possibilità, tra quelle indicate da Kapuściński. Purtroppo non è così: l’Europa ci è ricaduta ancora una volta, e le difficoltà che inevitabilmente comporta ogni politica di dialogo hanno fatto riapparire l’ombra del muro, della barriera, ancora una volta, nel Vecchio continente. Pensiamo alla Danimarca, che ha visto un incremento dei sentimenti xenofobi al proprio interno, soprattutto alla luce della strage in Norvegia, ed ha avanzato il progetto di costruire un muro sul confine tedesco. O pensiamo – e qui arriviamo al tema centrale del presente articolo – al muro tra la Grecia e la Turchia. Gli attriti tra i due Paesi sono storicamente noti, ed una barriera fisica che separa le due realtà è già presente, in “scala ridotta”, nei territori ciprioti, contesi dall’invasione turca dell’isola del 1974: una barriera fatta di filo spinato, che corre a dividere la Repubblica di Cipro, greco-cipriota, dal turco Cipro del Nord. Ora il nuovo muro interesserà la porta europea verso l’Oriente, lungo il fiume Evros (in turco Meriç). Un muro “anti-immigrazione”, che nonostante il dibattito che ha suscitato in Europa, non è che l’ennesima notizia passata inosservata sui mass media nazionali.
Nelle prime settimane di gennaio, il governo greco aveva stupito l’opinione pubblica europea annunciando questo suo piano per bloccare gli ingressi clandestini in Europa. “Il governo ha il dovere di difendere i diritti dei cittadini ellenici e di coloro che vivono a norma di legge nel nostro Paese”, ha dichiarato il Ministro della Difesa del cittadino, Kostas Papoutsis, il quale ha anche aggiunto che “Arginare il flusso degli immigrati che dall’Anatolia si riversano nell’Unione Europea attraverso la Grecia è anche una prova del nostro senso di responsabilità verso Bruxelles”. Tale progetto vedeva la costruzione di una barriera di filo spinato, sostenuta da una base fissa e da colonne in calcestruzzo, nei pressi della cittadina di Orestiada, per una lunghezza totale di 12 chilometri e mezzo ed un’altezza di 5 metri. Qualcuno ha azzardato l’ipotesi di far passare elettricità nel filo, ma il Ministro ha risolutamente negato una simile scelta, sostenendo però l’installazione di sensori in grado di segnalare ogni tentativo di passaggio attraverso la barriera. Immediate le reazioni a simile progetto: da Bruxelles, la Commissaria UE agli Affari Interni, Cecilia Malmström, ha espresso diffidenza nei riguardi della proposta greca, sottolineando come muri e barriere possano sì avere qualche effetto utile nel breve periodo, ma non possano comunque essere la soluzione di lungo termine al problema dei flussi migratori incontrollati. In Grecia, la pubblica opinione si è divisa tra sostenitori del governo, che sottolineano la necessità di adottare simile misure, per quanto apparentemente drastiche, per permettere al Paese di “sopravvivere” di fronte alla crisi economica, non potendo gestire crisi su crisi contemporaneamente, e coloro che rigettano fermamente una simile ipotesi, parlando di “muro della vergogna”, di “iniziativa ipocrita e disumana” e di “barriere dell’orrore”.
Non si può dire che il governo ellenico abbia fatto marcia indietro; piuttosto, ha deciso per un cambio di rotta e da qualche settimana il progetto per il muro lungo l’Evros si è trasformato in un fossato: lungo 120 chilometri, largo trenta metri e profondo sette, l’opera costerà all’incirca cinque milioni e mezzo di euro, e sarà la principale misura anti-immigrazione dell’ultima porta europea, anche se la struttura verrà usata, in aggiunta, per non meglio precisati scopi militari e di difesa. I lavori sono già cominciati, i primi quattordici chilometri e mezzo sono già stati scavati e, secondo il quotidiano greco “Ta Nea”, si procede a ritmo serrato.
Come indicato nell’ultimo rapporto di FRONTEX, relativo al primo trimestre 2011, (http://www.frontex.europa.eu/situation_at_the_external_border/art25.html) , il confine greco-turco è stato il principale “punto debole” per gli ingressi clandestini in Europa nel 2010, soprattutto per quanto riguarda i flussi migratori provenienti da zone calde quali Afghanistan ed Iraq. Al primo trimestre di quest’anno, i flussi con queste origini sono diminuiti del 60%; ciononostante, il confine segnato dall’Evros continua a rappresentare uno dei principali “punti deboli” delle frontiere europee, da cui dall’inizio dell’anno è transitata circa la metà dei clandestini entrati in Europa (se si escludono gli sbarchi seguiti alla “primavera araba” a Lampedusa), con una media di circa 250 persone al giorno.
Il confine dell’Evros, lungo duecento chilometri, è una regione difficile da controllare in toto, soprattutto se si considera la pressoché totale assenza di accordi bilaterali con Ankara, che consentirebbero di ridurre, almeno parzialmente, il peso della pressione migratoria che Atene sente gravare sempre più forte su di sé. Infatti, in seguito agli accordi bilaterali (alquanto discussi) siglati tra il 2006 e il 2008 tra Spagna, Senegal e Mauritania e tra Italia e Libia, di fatto le tradizionali rotte mediterranee hanno subito un blocco notevole, aggravando i flussi migratori verso la frontiera ellenica, che ha cercato di destreggiarsi anche con respingimenti coatti, non sempre del tutto ortodossi.
Ci troviamo di fronte ad una situazione critica, la cui tendenza sembra volta al peggioramento, in un Paese sull’orlo del collasso economico ed in uno stato di crisi permanente, incapace di adottare misure organiche e funzionali nell’ambito dell’immigrazione verso l’Europa.
Ma, ancora una volta, ci sembra necessario sottolineare l’incapacità dell’Europa nel suo complesso di gestire la questione immigrazione: si discute tanto, si discusse spesso a Bruxelles su questa tematica, circoscrivendola nella cornice della protezione e della sicurezza, e senza alcuno sforzo volto, da un lato, a sostenere i Paesi di frontiera e, dall’altro, a capire le vere radici del problema e a trovare una soluzione di lungo periodo per lo stesso. E, nel frattempo, gli Stati europei continuano ad adottare la politica dello scaricabarile, ad “appaltare” la difesa dei confini a Paesi come la Libia, ad innalzare muri o a compiere gesti folli che dovrebbero essere di esempio per la storia, mentre migliaia di esseri umani in cerca di un po’ di pace o semplicemente di condizioni di vita veramente umane rischiano la vita in traversate su mezzi di fortuna o tra le acque limacciose di un fiume, la cui colpa è semplicemente quella di correre lungo ferite storiche, ancora aperte