Prima della fine di questa settimana l’America di Barak Obama si vedrà costretta a porre il veto per impedire che la maggioranza dei membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unita conceda alla Palestina la dignità di ‘stato sovrano’.
Si ricorderà che il 23 settembre, nel corso della 66a sessione plenaria delle Nazioni Unite presieduta dal Presidente del Brasile, signora Dilma Roussef, il Presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmud Abbas (Abu Mazen), prima del suo discorso, ha consegnato al Segretario Generale Ban Ki-moon una richiesta di adesione a pieno titolo alle Nazioni Unite, per l’esame da parte del Consiglio di Sicurezza. Ebbene, se non andiamo errati, quella riunione dovrebbe avere luogo l’11 novembre in una giornata che gli interpreti della cabala e degli influssi astrali già classificano come speciale, con il triplo 11: 11.11.11.
Per l’Autorità palestinese, viceversa, sarà la data dell’ulteriore sconfitta, di un ulteriore arresto delle speranze di indipendenza, di liberazione dalla soggezione nei confronti di Israele, dell’assunzione di quella responsabilità nazionale essenziale per non dover subire ancora le atroci e martellanti ritorsioni israeliane.
Barak Obama, ormai nel pieno della campagna elettorale che dovrebbe portarlo alla rielezione, non può alienarsi il sostegno della lobby ebraica, negli Stati Uniti facoltosa e molto influente, e dovrà quindi opporre un risoluto veto alle speranze palestinesi di non vedere allungarsi l’elenco dei <crimini> subiti negli undici anni, dallo scoppio dell’Intifada al-Aqsa nel settembre 2000, dei 4.773 palestinesi uccisi, di cui 1.074 bambini e 223 donne, delle 19.022 case danneggiate, delle 4.694 distrutte completamente, dei 40.779 ettari di terra agricola danneggiata, dei 1.028 edifici ad uso pubblico distrutte (scuole, luoghi di culto e altre istituzioni), delle 1.308 attività commerciali distrutte, dei 542 impianti di produzione industriale distrutti, delle 1.239 autovetture distrutte, dell’estensione della zona cuscinetto (buffer zone), con conseguente riduzione della terra agricola di Gaza dal 17% al 35% del totale dell’area agricola a disposizione e perdita di mezzi di sostentamento per centinaia di famiglie, dei 193 pescatori di Gaza sequestrati in 59 differenti episodi, degli attacchi israeliani a mezzo di armi da fuoco subite in 209 casi, con l’uccisione di 6 ed il ferimento di 22 pescatori di Gaza, delle 68 barche palestinesi sequestrate e danneggiate da Israele.
Pur concedendo che questi dati forniti da “Al-Mezan”, l’organizzazione palestinese per i diritti umani, possano essere volutamente o involontariamente gonfiati, rimane comunque un fenomeno di proporzioni inaccettabili, che solo l’azione dell’Autorità palestinese, investita della piena ed autonoma responsabilità, potrà ridurre sensibilmente sino ad annullarle.
Una bella responsabilità, quella che Barak Obama si assume ponendo il ‘veto’ americano, non c’è che dire!
Per pervenire all’agognata proclamazione ed accettazione dello Stato palestinese quale 194° membro delle Nazioni Unite, Mahmud Abbas ha in serbo una contromossa che gli consentirà lo stesso risultato, ma in forma ridotta. L’opzione, denominata “opzione Vaticano”, prevede la richiesta dello status di “osservatore non-membro”, condizione che permetterebbe al Paese di aderire alla Corte Criminale e di siglare trattati e convenzioni. E’ una procedura molto più facile della precedente in quanto richiede l’approvazione della maggioranza semplice dell’Assemblea generale, composta di 97 membri, sui 193 effettivi.
Quanto alla posizione del fantomatico Quartetto per la pace in Medio Oriente (Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Nazioni Unite), è chiaro che, in questa circostanza il suo atteggiamento è stato influenzato dal ruolo degli SU che ne fanno parte, e, quindi, da Israele; la solita storia del giocatore che è anche arbitro… Prima del 23 settembre aveva tentato in ogni modo di dissuadere Abbas dal presentare la richiesta di ammissione, assicurando fermo sostegno all’ipotesi di pace israelo-palestinese; determinazione nel ricercare una soluzione globale al conflitto arabo-israeliano, prendendo a riferimento le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 242, 338, 1397, 1515, 1850, lo spirito di Madrid, incluso lo scambio di territori in favore della pace; impegno per una pace giusta, duratura e globale in Medio Oriente; impegno nella ricerca di una soluzione globale al conflitto arabo-israeliano; riconoscimento dell’importanza dell’iniziativa araba per la pace. Reiterando l’appello urgente alle parti inteso a superare gli ostacoli e riprendere senza indugi né condizioni preventive i negoziati diretti arabo-israeliani. Proponendo un percorso temporale articolato in tappe serrate che prevedessero l’incontro preparatorio tra le parti entro un mese dalla plenaria di settembre; l’impegno delle parti nel corso della suddetta riunione sulla necessità che l’obiettivo dei negoziati dovesse essere di pervenire ad un accordo secondo i tempi di un calendario da concordare congiuntamente, ma non oltre il termine della fine del 2012; si richiedevano proposte globali entro tre mesi relativamente al territorio e alla sicurezza e progressi significativi già entro il termine di sei mesi; al momento giusto il Quartetto avrebbe convocato una riunione di controllo a Mosca; la convocazione di una conferenza dei Paesi donatori per protrarre e rafforzare il sostegno della comunità internazionale all’Autorità palestinese, onde favorirne gli sforzi intesi a costruire uno Stato sovrano. Il Quartetto, inoltre, riconosceva gli sforzi compiuti dall’Autorità palestinese nell’approntamento di strutture e condizioni idonee per la nascita di uno Stato a tutti gli effetti, assicurava future consultazioni aventi dell’individuazione di ulteriori e più incisive misure atte a favorire la nascita dello Stato palestinese, diffidava le parti dal compimento di atti provocatori che potessero turbare l’efficacia dei negoziati o anche rallentarli, s’impegnava a compiere periodiche verifiche dei progressi compiuti. Niente di meno circostanziato e di più vago e fumoso.
Nel periodo intercorso fra la presentazione della richiesta palestinese ed il voto sicuramente negativo, per effetto del veto americano, dell’11.11.11, si sono registrate immediate e virulente ritorsioni contro il gesto palestinese. Dalla richiesta di una parte del Congresso americano di bloccare gli aiuti economici ad Abbas, alle minacce del Ministro degli Esteri Lieberman di lasciare la coalizione causando la caduta del governo israeliano, se quest’ultimo non dovesse reagire alla scelta unilaterale da parte palestinese mettendo in atto una serie di azioni punitive come risposta”, alle ulteriori dichiarazioni di Avigdor Lieberman, secondo cui ” Mahmud Abbas rappresenta il più grande ostacolo al processo di pace e pertanto è necessario eliminarlo”, ai ripetuti incendi di moschee e di proprietà palestinesi da parte di coloni israeliani, ai ripetuti sradicamenti di alberi di ulivo di proprietà di cittadini palestinesi ad opera dei coloni israeliani, all’approvazione da parte della municipalità di al-Quds (Gerusalemme) del piano di costruzione di 1.100 nuove unità abitative sulle appendici meridionali dell’insediamento di Gilo (Gerusalemme Sud).
Ma si è registrato, anche, un ben diverso avvenimento, che avrà una decisiva influenza sui futuri sviluppi della questione. Il 31 ottobre si è tenuta a Parigi la Conferenza generale biennale dell’Unesco, all’interno della quale si è votato per decidere se ammettere o meno la Palestina come Stato membro dell’Organizzazione.
L’Unesco è la prima agenzia Onu alla quale i palestinesi hanno sottoposto l’istanza per la piena adesione all’Onu. Il presidente dell’Anp, Mahmud Abbas, aveva presentato la mozione lo scorso 23 settembre, nonostante l’esplicita opposizione Usa.
Durante la votazione erano assenti rappresentanti di Antigua and Barbuda, Central African Republic, Comoros, Dominica, Eritrea, Ethiopia, Guinea-Bissau, Guyana, Madagascar, Maldives, Marshall Islands, Confederated States of Micronesia, Mongolia, Niue, Sao Tome and Principe, Sierra Leone, South Sudan, Swaziland, Tajikistan, Timor-Leste, Turkmenistan.
Si sono astenuti 52 Paesi:Albania, Andorra, Bahamas, Barbados, Bosnia and Herzegovina, Bulgaria, Burundi, Cameroon, Cape Verde, Colombia, Cook Islands, Côte d’Ivoire, Croatia, Denmark, Estonia, Fiji, Georgia, Haiti, Hungary, Italy, Jamaica, Japan, Kiribati, Latvia, Liberia, Mexico, Monaco, Montenegro, Nauru, New Zealand, Papua New Guinea, Poland, Portugal, Republic of Korea, Republic of Moldova, Romania, Rwanda, Saint Kitts and Nevis, San Marino, Singapore, Slovakia, Switzerland, Thailand, Macedonia, Togo, Tonga, Trinidad and Tobago, Tuvalu, Uganda, Ukraine, United Kingdom, Zambia.
Hanno votato contro l’ammissione Australia, Canada, Czech Republic, Germany, Israel, Lithuania, the Netherlands, Palau, Panama, Samoa, Solomon Islands, Sweden, United States of America, Vanuatu, per un totale di 14.
Hanno votato a favore i seguenti 107 Paesi: Afghanistan, Algeria, Angola, Argentina, Armenia, Austria, Azerbaijan, Bahrain, Bangladesh, Belarus, Belgium, Belize, Benin, Bhutan, Bolivia, Botswana, Brazil, Brunei Darussalam, Burkina Faso, Cambodia, Chad, Chile, China, Congo, Costa Rica, Cuba, Cyprus, Democratic People’s Republic of Korea, Democratic Republic of Congo, Djibouti, Dominican Republic, Ecuador, Egypt, El Salvador, Equatorial Guinea, Finland, France, Gabon, Gambia, Ghana, Greece, Grenada, Guatemala, Guinea, Honduras, Iceland, India, Indonesia, Iran, Iraq, Ireland, Jordan, Kazakhstan, Kenya, Kuwait, Kyrgyzstan, Lao People’s Democratic Republic, Lebanon, Lesotho, Libya, Luxembourg, Malawi, Malaysia, Mali, Malta, Mauritania, Mauritius, Morocco, Mozambique, Myanmar, Namibia, Nepal, Nicaragua, Niger, Nigeria, Norway, Oman, Pakistan, Paraguay, Peru, Philippines, Qatar, Russian Federation, Saint Lucia, Saint Vincent and the Grenadines, Saudi Arabia, Senegal, Serbia, Seychelles, Slovenia, Somalia, South Africa, Spain, Sri Lanka, Sudan, Suriname, Syrian Arab Republic, Tunisia, Turkey, United Arab Emirates, United Republic of Tanzania, Uruguay, Uzbekistan, Venezuela, Viet Nam, Yemen, Zimbabwe.
L’Organizzazione lavora per la promozione dello sviluppo attraverso progetti rivolti all’istruzione, alla scienza e alla cultura. Da neo Stato membro dell’Unesco, la Palestina potrà ora presentare ricorsi contro eventuali furti di Israele al proprio patrimonio storico-religioso, potrà sottoporre richiesta di tutela e di riconoscimenti internazionali che, parallelamente, aiuteranno a risollevare l’economia palestinese piegata da decenni di occupazione militare. L’entrata della Palestina nell’Unesco contribuirà a segnalare le eventuali violazioni israeliane. Ma, soprattutto, nella propria lotta per il ripristino dei diritti, da adesso i palestinesi potranno contare su un altro foro, quello politico-diplomatico, per difendere la propria sovranità su al-Quds (Gerusalemme), Betlemme, al-Khalil (Hebron), dove si trovano i maggiori siti cristiani e islamici dell’identità storico-religiosa del popolo palestinese. Sicuramente, in questo contesto, il primo obiettivo palestinese sarà quello di ottenere il riconoscimento tra i beni riconosciuti e protetti nel Patrimonio universale dell’Umanità della città di Betlemme, la città della “Natività, deturpata e martoriata dal muro di sicurezza israeliano.
Immediata, ovviamente, la reazione americana e israeliana. Il giorno del voto a Parigi, gli Stati Uniti hanno ritirato la propria sovvenzione annuale all’Unesco (il 22% del bilancio totale dell’Agenzia) dichiarando: “deplorevole, prematuro e un atto che mina obiettivi condivisi e complessivi per l’instaurazione di una pace duratura in Medio Oriente”. Due leggi promulgate negli anni ’90 vietano in ogni caso alle autorità americane di finanziare organismi o componenti delle NN.UU. che accettino delegati palestinesi quali membri a qualunque titolo. Da parte propria, Israele ha decretato sanzioni economiche contro l’Autorità palestinese con la possibilità di aumentare l’ annessione degli insediamenti illegali in Cisgiordania, bloccare la raccolta dei fondi in favore dell’autorità palestinese, accelerare la costruzione di insediamenti in varie parti della Cisgiordania o, persino, sciogliere il governo di Ramallah. “Simili mosse”, sostiene Netanyahu, “non promuoveranno la pace, bensì la faranno allontanare ancora di più. Il solo modo per arrivare alla pace”, sottolinea il premier israeliano, “è attraverso negoziati diretti tra le parti, senza precondizioni”. E’ noto che per l’Autorità Nazionale Palestinese la ripresa delle trattative è subordinata al blocco totale dell’espansione degli insedianmenti ebraici in Cisgiordania. Anche il Canada è intenzionato ad adottare misure punitive nei confronti dell’Organizzazione Onu. Le agenzie del 10, vigilia della riunione del Consiglio di Sicurezza, rilanciano, infine, la decisione della direttrice generale dell’Agenzia, Irina Bokova, di sospendere i lavori della stessa sino a fine anno, onde risparmiare e colmare il deficit creatosi a seguito dei mancati finanziamenti soprattutto americani.
Sin qui la cronaca.
Una politologa afferma che le parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, “uccidere o essere uccisi”, è un tipico esempio della mentalità terrorista di Tel Aviv. “Questo è terrorismo. Pensano di non poter esistere senza uccidere tutti i bambini e tutte le persone”, ha affermato Nada Hashwi da Beirut durante un’intervista telefonica rilasciata lunedì 31 ottobre a Press TV. Netanyahu ha recentemente dichiarato che la politica di difesa di Israele è basata su due principi: “Uccidere o essere uccisi” e “colui che ti fa del male dovrebbe portare il sangue sulla sua testa”.
Passando alle valutazioni, è chiaro che il Presidente americano non può esercitare troppe pressioni sull’amministrazione israeliana, oggi allineata su posizioni fortemente conservative. E’ conscio, ovviamente, del sostegno di cui gode Israele tra gli elettori americani; e questo è un elemento ancora più vincolante per lui, alla vigilia dell’inizio della campagna per la rielezione. Passa, evidentemente, in seconda priorità la percezione dell’aumento della diffidenza araba nei confronti dell’amministrazione americana e del tramonto dell’inclinazione di Obama per il mondo musulmano. Avvalorando, in tal modo, le argomentazioni di chi lo accusa di essere succube del diktat della lobby ebraica e di Israele. Né gli USA né Israele avrebbero voluto che si arrivasse al voto, perché esso metterà in rilievo l’isolamento dello Stato ebraico nel consesso delle NN.UU., il fallimento della politica americana nell’area e la sconfitta diplomatica del Presidente Obama, nonché gli attuali limiti della politica internazionale statunitense.
Gli USA porranno il veto contro l’ammissione nel circolo delle Nazioni Unite dello Stato di Palestina. Un vero peccato perché ciò costituirà probabilmente la rovina di Obama, oltre che la causa dell’ulteriore declino dell’influenza internazionale degli Stati Uniti.
Non dimentichiamo la data e i suoi influssi astrali: 11.11.11…
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